Il giudizio di Leopardi su Petrarca cambia radicalmente dopo il
lavoro d’interpretazione delle Rime
(novembre 1825 – ottobre 1826): da auctoritas
della poesia, Petrarca diventa poeta dalla fama immeritata: «io non trovo in
lui se non pochissime, ma veramente pochissime bellezze poetiche».[1]
Per ripercorrere la trasformazione dell’opinione leopardiana su Petrarca si
sono letti e incrociati i riferimenti espliciti alla poesia dell’aretino che
Leopardi dissemina nei saggi,[2]
nello Zibaldone di Pensieri,[3]
e nell’epistolario. I motivi che si ritiene abbiano piú influito sulla
variazione del giudizio sono essenzialmente due: il consolidarsi in Leopardi di
una propria poetica che determina il lento distacco dai modelli fondanti dai
quali aveva preso le mosse; lo studio interpretativo per l’edizione divulgativa
delle Rime che sottrae al recanatese
le illusioni dilettevoli create dall’aver vissuto quella poesia nell’intimità
del proprio sentire.
Petrarca nello Zibaldone fino al 1825.
Già nel 1816 Leopardi sottolinea la singolare fortuna che l’opera
poetica di Petrarca ha goduto presso i lettori. Infatti per il recanatese il
genere preferito dai lettori di ogni tempo è l’epica, mentre la poesia
sentimentale trova riscontri positivi e duraturi solo in casi particolari, come
appunto è accaduto per Petrarca che fu apprezzato insieme agli epici Ariosto e
Tasso.[4]
Ma è ovviamente nello Zibaldone di Pensieri che il nome del poeta
aretino ricorre piú volte, legato agli argomenti piú diversi.
Un profilo del ruolo di Petrarca nella storia della letteratura
italiana si legge già nelle prime pagine dello Zibaldone, dove
Leopardi traccia la nascita e lo sviluppo della letteratura assumendo un
particolare punto di vista: la perfezione in letteratura è raggiunta solo dai
classici greci e latini, e gli autori italiani che hanno saputo imitare la loro
grandezza poematica sono pochissimi e tutti distribuiti nei primi secoli della
letteratura e nel Cinquecento: la letteratura italiana nacque nel Trecento per
affermarsi nel Cinquecento e corrompersi nei secoli successivi, fino ad
estinguersi nell’era moderna (l’Ottocento). Cosí, se il Quattrocento conserva
ancora l’idea del bello incorrotta, cioè la perfetta imitazione della natura
congiunta allo studio erudito dei classici latini e greci, il Cinquecento la
traduce nelle opere dei suoi scrittori, avendo ereditato sia la letteratura del
Trecento sia la conoscenza profonda dei latini e dei greci riscoperti dall’Umanesimo.
Nel Seicento, invece, il gusto si perverte, e quel che è peggio dimentica Dante
e Petrarca, riscoperti insieme ai loro padri nel primo Settecento. Il primo
Settecento, anche se assiste alla rinascita del gusto del bello con lo studio
della letteratura esemplare del passato, non ha la capacità di produrre nessun
capolavoro per lo sterile esercizio d’imitazione condotto dagli scrittori nei
loro testi, che toglie ogni spontaneità all’opera d’arte, spontaneità che al
contrario possiedono Dante, Petrarca, Ariosto e tutti i cinquecentisti. Nella
seconda metà del XVIII secolo e all’inizio dell’Ottocento si assiste quindi a
un ulteriore declino della letteratura per la riproduzione dei modelli
stranieri e soprattutto per la perdita dell’originalità: gli scrittori moderni
sono dei vecchi che conoscono tutti gli artifici dell’arte e ne schivano gli
inganni che essa tende ai neofiti, a costo però della spontaneità, che invece
era patrimonio dei classici, simili a fanciulli in preda a ogni sorta di vizio
come Petrarca, che pecca di concettualismo. Ma, se i classici potevano cadere
negli inganni dell’arte, essi rimangono i soli ad avere prodotto opere
originali per la naturalezza con la quale potevano imitare la natura, cosicché
le opere moderne potranno essere senza difetti, perfette ma non originali.[5]
Il trecento fu il principio
della nostra letteratura, non già il colmo, imperocché non ebbe se non tre
scrittori grandi: il quattrocento non fu corruzione né raffinamento del
trecento, ma un sonno della letteratura (che avea dato luogo all’erudizione) la
quale restava ancora incorrotta e peccava ancora piú tosto di poco. Poliziano,
Pulci. Il cinquecento fu vera continuazione del trecento e il colmo della
nostra letteratura. Di poi venne il raffinamento del seicento, che nel settecento
s’è solamente mutato in corruzione d’altra specie, ma il buon gusto nel volgo
dei letterati non è tornato piú, né tornerà secondo me, perché dal niente si
può passare al buono, ma dal troppo buono o sia dal corrotto stimo che non si
possa. (Zib. 2-3)
D’altronde la letteratura italiana, originalissima appena nata
con Dante e Petrarca, vide estinguersi subito questa sua originalità per il
progresso delle scienze, per lo studio e l’imitazione degli antichi durante l’Umanesimo
e per il perfezionamento e la maturazione della scrittura e della poesia.
Questa maturazione si ebbe soprattutto a causa del passaggio dalla Repubblica
alla Monarchia, che con l’estinzione della libertà costrinse gli spiriti a
distogliersi dall’azione della politica per rifugiarsi nelle parole. Cosí nel
Cinquecento, monarchico, le lettere risorsero dalla stasi del Quattrocento,
prendendo una forma regolare ma poco originale e inventiva, per poi cadere nel
convenzionale e nella povertà immaginativa, con l’unica eccezione dell’Alfieri.[6]
Ma il Cinquecento è comunque per il recanatese il secolo aureo della lingua e
della letteratura italiana – a dispetto del giudizio contrario dei critici del
suo tempo che propendono per il Trecento – per i risultati pregevoli raggiunti
dalla quasi totalità dei letterati, non solo toscani, per lo piú sconosciuti ai
lettori, abituati a foggiare i loro testi sull’esempio tanto dei padri della
lingua italiana appena formata, quanto degli autori della ben compiuta e matura
lingua latina e greca. Ed è proprio grazie allo studio approfondito e alla
corretta applicazione della retorica greca e latina che gli scrittori del
Cinquecento raggiungono una certa perfezione nello stile. Ma in quale dei due
principali generi della letteratura la conseguono? Risponde Leopardi: nella prosa,
perché la poesia pecca per l’uso sovrabbondante di ridondanze, di epiteti, di
sinonimi, di rare forme dialettali. Tant’è che è lecito parlare di compiutezza
dello stile poetico solo con Parini o Monti, seppure Dante e Petrarca[7]
ne siano un primigenio esempio illustre. Dei tre grandi del Trecento, poi, solo
Boccaccio si cimentò nella prosa e come
iniziatore del genere non potè raggiungere la perfezione.[8]
Il secolo del cinquecento è
il vero e solo secolo aureo e della nostra lingua e della nostra letteratura.
Quanto alla lingua
moltissimi disconvengono da questo ch’io dico, volendo che il suo vero secol d’oro,
fosse il trecento. Ma osservino. Quasi tutti gli scrittori del cinquecento,
toscani o non toscani, hanno bene e convenientemente adoperata la nostra
lingua, e tutti piú o meno possono servire di norma al bello scrivere, e
sarebbe ammirato e studiato uno scrittore d’oggidí che avesse tanti pregi di
lingua quanto l’infimo de’ mediocri scrittori di quel tempo.» (Zib.
690-691)
«I difetti dello stile poetico
di quel secolo [il Cinquecento], anche negli ottimi, sono infiniti, massime la
ridondanza, gli epiteti, i sinonimi accumulati (al contrario delle prose) ec.
lasciando i piú essenziali difetti di arguzie, insipidezze ec. anche nell’Ariosto
e nel Tasso. E non è dubbio che Dante e Petrarca (sebbene non senza gran
difetti di stile) furono nello stile piú vicini alla perfezione che i
cinquecentisti, e cosí lo stile poetico del trecento (riguardo a questi due
poeti) è superiore al cinquecento: (tanto è vero che la poesia migliore è la piú
antica, all’opposto della prosa, dove l’arte può aver piú luogo). E dal
trecento in poi lo stil poetico italiano non è stato richiamato agli antichi
esemplari, massime latini, né ridotto a una forma perfetta e finita, prima del
Parini e del Monti. (Zib.700-701)
Ma come si perfeziona
storicamente una lingua letteraria, e in particolare quale svolgimento ha
subito quella italiana? Secondo il recanatese la lingua letteraria italiana ai
suoi esordi, nei suoi tre massimi scrittori, ha seguito un percorso simile a
quello della lingua latina: gli scrittori latini partiti dallo studio della
lingua greca variegata, sperimentale e originale, consolidano nella loro lingua
gli aspetti regolativi e canonici, superando ben presto i modelli di partenza e
raggiungendo un grado di perfezione al quale i primi non avevano potuto
aspirare. Cosí è accaduto alla lingua italiana, figlia di quella latina: nel
Trecento scrittori come Dante, Petrarca e Boccaccio, seguendo l’andamento della
latina, scrivono in maniera ordinata e logica portando la lingua italiana ad un
grado di perfezione che verrà poi ripreso dai posteri; mentre gli altri
scrittori, ignoranti dei modelli greco e latino, riprendendo nella loro
scrittura le strutture del parlato, sono stati presto dimenticati per l’abbondanza
di infrazioni alle regole dell’argomentare e del ragionare.[9]
La lingua letteraria, canonica, è cosí anche termometro della
civiltà di una nazione, nasce con il suo costituirsi, affermarsi e decadere. La
civiltà italiana nei suoi natali è però un caso particolare perché ha avuto due
lingue illustri: la prima, la latina, che è morta con la caduta dell’impero
romano; la seconda, l’italiana, parto della prima e perciò nettamente distinta
da quella parlata e dai dialetti, che è ancora attuale per i moderni.[10]
Ma se la letteratura determina il grado di civiltà di un popolo, il
riconoscerlo, osserva amaramente Leopardi, è però sempre un compito arduo per
lo smisurato cieco orgoglio degli uomini che considerano il proprio secolo, la
propria nazione, il proprio popolo sempre superiore a quello che lo ha
preceduto. Tale presunzione è di tutte le età dello spirito umano: basti come
esempio la lettera di Petrarca indirizzata a Boccaccio (Seniles V, 2), dove il primo sottolinea la vanagloria dei suoi
contemporanei che condannavano le idee e gli scritti di Platone, Aristotele,
Cicerone e Virgilio per seguire i nuovi impareggiabili maestri.[11]
Inoltre la lingua letteraria in via di costituzione, e che
solitamente con ritardo si trasferisce in scrittura, mostra maggiori differenze
tra pronunzia e scrittura di una parola: lo scarto tra suono e grafia è un
fenomeno naturale che accompagna il cammino dell’uomo, nei fanciulli che ai
loro primi tentativi di scrittura cadono in errore molte volte prima di
raggiungere la forma corretta, e nelle civiltà appena nate, che con i primi
scriba incolti, copiando o scrivendo sotto dettatura senza capire il
significato delle parole, incorrono spesso in travisamenti. Tra le civiltà
europee, l’italiana e la spagnola sono per Leopardi quelle che hanno raggiunto
prima una lingua perfetta, cioè con poche disarmonie tra scritto e parlato, per
le favorevoli condizioni in cui maturarono: nacquero quasi contemporaneamente
agli scrittori che realizzarono via via la perfetta corrispondenza tra fonema e
grafema; ovviamente la lingua del Trecento, di Dante e Petrarca, era ancora
pregna di errori di ortografia derivanti in gran parte dall’uso della grafia
latina.[12]
Ma solo la lingua francese può essere considerata universale perché ha un
vocabolario univoco sia nello scritto sia nel parlato, mentre quella italiana
non lo potrà mai essere perché è piuttosto un complesso di lessici e di stili
che tra loro non hanno nessun punto di contatto: si prenda ad esempio per la
poesia Dante, Petrarca e Parini, per la prosa, Davanzati, Boccaccio e Della
Casa. Tale diversità non porta giovamento alla lingua italiana, anzi ha dei
risvolti negativi sconosciuti alla francese: risulta ostica agli stranieri per
le particolarità linguistiche che ogni scritto presenta; la differenza tra la
lingua letteraria e quella parlata è marcata a tal punto da non permettere agli
scrittori di usarle indifferentemente senza incorrere nell’elaborazione di
testi a dir poco mediocri.[13]
Pure a proposito di un altro aspetto della formazione della
lingua letteraria, e cioè della creazione dei sinonimi, Leopardi cita Petrarca.
Secondo il recanatese, i sinonimi non esistono quasi nelle lingue piú antiche,
che introducevano parole nuove non per dire in piú modi la stessa cosa ma per
distinguere cose diverse, anche se di poco; mentre perdendosi per varie ragioni
la sensibilità alle differenze, parole che all’inizio significavano cose
diverse vennero pian piano a confondersi nello stesso significato. Quindi il
tempo, la scarsa sensibilità del popolo e la sciatteria dei cattivi scrittori e
oratori sono le fonti principali dei sinonimi, che non sono ricchezza ma
piuttosto debolezza d’una lingua. Ma anche gli scrittori eleganti, e
soprattutto i poeti, ne sono causa, che, per distinguersi dal volgo, ricorrono
a metafore, arditezze, inversioni di significato, le quali poi passano nella
lingua scacciandone le proprietà primitive. Ne segue che gli scrittori piú
antichi siano, assai piú dei successivi, depositari della proprietà delle voci
e dei modi: non per esattezza e minuziosità, che sono molto maggiori nei
moderni, ma perché gli antichi erano piú vicini alle prime determinazioni dei
significati delle parole. Dunque la diligenza è in ragione inversa dell’antichità,
e la proprietà in ragione diretta: cosí «e
Plauto e Terenzio e gli altri antichi latini i piú rozzi, sono tanto piú propri
quanto meno eleganti di Cicerone. Cosí i trecentisti ignorantissimi, rispetto
ai cinquecentisti ec. Dante rispetto al Petrarca e al Boccaccio ec.»[14]
Leopardi, oltre a menzionare Petrarca nel suo profilo della
storia della lingua e della letteratura italiana, si avvale della sua figura
anche per chiarire alcuni aspetti della propria posizione rispetto ai principi
fondanti della poetica Romantica, diffusisi in Italia tra l’altro con le
celebri Osservazioni del Cavaliere
Lodovico Di Breme sulla poesia moderna.[15]
Queste in particolare indussero il recanatese a molte considerazioni che
espresse nel Discorso di un italiano
intorno alla poesia romantica.[16]
Il saggio parte da un’affermazione condivisa con i Romantici: se la poesia ha
nei tempi moderni il compito d’ingannare l’immaginazione e non piú l’intelletto,
come avveniva in antico per spiegare i fenomeni naturali, rimane però
inalterato il suo fine, cioè il diletto. Il poeta moderno, quindi, per
incontrare il gusto dei lettori, dovrà scegliere le piacevoli illusioni nell’epifania
del verisimile e soprattutto nel patrimonio di figure greche e latine che
appartengono all’immaginazione degli italiani, contrariamente ai Romantici, che
le vorrebbero sostituire con quelle della razionalità filosofica o delle saghe
nordiche, ostiche alla comprensione del grande pubblico nazionale. Il proporre
le favole antiche non vuol dire ingannare i lettori moderni, oramai esperti dei
segreti della natura. Solo gli antichi, per il loro stato d’ignoranza, potevano
trarre vero piacere dall’imitazione della natura con la parola. Al poeta
moderno non rimane che imitare la natura attraverso gli occhi degli antichi,
unici ad avere creato diletto nei lettori con la fantastica riproduzione della
stessa, nella libertà dalle pastoie della ragione nemica di ogni illusione. La
presunzione quindi dei Romantici di sostituire la natura con l’incivilimento
non potrà che uccidere la poesia. Essi sono convinti che il gusto dei moderni
sia piú legato all’intelletto che alla fantasia; e in generale che la poesia
contemporanea sia migliore di quella antica. Ma il valutare migliore ciò che
appartiene al proprio tempo è una moda che colpí anche il Seicento fino a
quando non si tornò ai classici, Dante, Petrarca.[17]
Dunque per il recanatese il poeta moderno non può che percorrere un’unica
strada per imitare la natura, quella di studiare i predecessori greci e latini,
anche se ammette la possibilità, per lui altamente improbabile, che possa
nascere ancora un vero poeta, che sarà solo simile in genere a Virgilio e a
Tasso, ma non potrà mai raggiungere la perfezione di Omero, Anacreonte,
Pindaro, Dante, Petrarca e Ariosto.[18]
Il reiterato compulsare la poesia antica e l’utilizzo della mitologia del poeta
moderno non significa imitare ma rielaborare nella propria poetica il materiale
immaginifico messo a disposizione da chi viveva in una condizione irripetibile,
della quale d’altronde erano consapevoli i primi poeti italiani, come Petrarca,
che ha frequentato assiduamente i latini, ha intinto la sua penna nel serbatoio
delle immagini da quelli costruite e ha elaborato una propria insuperata
poesia, un esempio assoluto di imitazione della natura.[19]
Continua Leopardi: i Romantici oggi gridano a pieni polmoni che la poesia dev’essere
“patetica”, non nel senso di malinconica ma in quello di “profondità e vastità
del sentimento” e non si accorgono che la poesia sentimentale degli antichi già
lo era. La differenza poi che essi indicano tra il sentimentale moderno, nato
dal cuore, e quello antico, generato dalla fantasia, non sussiste perché il
poeta antico imitando la natura provoca emozioni ancora piú profonde del cuore.
I poeti antichi sono sentimentali perché la natura è sentimentale, ed essi sono
maestri nell’imitarla; i Romantici, costruendo con il ragionamento una poesia
provocatrice di forti emozioni, non ottengono di certo lo stesso coinvolgimento
dell’immagine omerica di una notte serena illuminata dalla luna.[20]
Si chiede Leopardi: non è lo stesso cavaliere Di Breme ad indicare Petrarca
come poeta italiano sentimentale per eccellenza, seppure questi sia nato in un
secolo incivile preda delle superstizioni?[21]
E forse il Di Breme non lo giudicherà poeta nelle sue composizioni civili per
quel ridurre dei Romantici tutta la poesia a sentimentale escludendo gli altri
generi?[22]
Il Discorso si conclude con l’esortazione
del recanatese a soccorrere le sorti dell’Italia rinverdendo il primato delle
lettere attraverso lo studio della cultura classica e rinfocolando l’amore
della patria negli italiani moderni cosí imbelli da doversi vergognare d’essere
compatrioti «del Dante e del Petrarca e dell’Ariosto e dell’Alfieri e di
Michelangelo e di Raffaello e del Canova».[23]
Alle Osservazioni Leopardi
dedica pure alcuni dei primi pensieri dello Zibaldone;
uno di questi in particolare, il 21, chiama in causa Petrarca e la “bella
negligenza” della sua poesia: il poeta non solo deve prendere a modello la
natura, ma la deve ricalcare nei propri versi con naturalezza per procurare
diletto nei lettori, come hanno fatto gli antichi: la poesia dev’essere cioè
scevra degli orpelli retorici e stilistici che dimostrano solo la perizia dello
scrittore come teorizzano i moderni.
Quello che nei poeti dee
parer di vedere, oltre gli oggetti imitati, è una bella negligenza, e questa è
quella che vediamo negli antichi, maestri di questa necessarissima e
sostanziale arte, questa è quella che vediamo nell’Ariosto, Petrarca ec. questa
è quella che pur troppo manca anche ai migliori e classici tra i moderni,
questa è quella che col sentimentale e col sistema del Breme, e nelle poesie
moderne de’ francesi, non si ottiene, e poi non si ottiene; ché questo stesso
sentimentale scopre una certa diligenza ec. scopre insomma il poeta che parla
ec. (Zib. 21)
Che la poesia del Petrarca segua l’andamento di quella antica è
confermato dalla confessione fatta al recanatese da un italiano colto ma ignorante del greco, il quale ammise di non trovare
nessuna armonia nella lirica petrarchesca se non «nelle ottave, e in qualcuno
de’ nostri metri che chiamiamo anacreontici.» Il sentire l’armonia dei versi e
provarne diletto è per Leopardi legato all’assuefazione, all’abitudine che l’orecchio
si forma nel sentire i versi e i ritmi ripetuti nella quotidianità.[24]
Alla bellezza della lingua
petrarchesca concorre oltre a ciò l’eleganza che i poeti raggiungono con l’impiego
di parole discoste dall’uso comune ma ancora comprensibili ai lettori: quella
del trecentesco però risente di un sapore familiare dovuto alla sua
impossibilità di attingere a forme inconsuete in una lingua letteraria, quella
italiana, appena nata. La familiarità è piú evidente nei poeti che nei
prosatori perché i primi sono storicamente piú numerosi dei secondi, tanto da
poter essere considerati i padri della lingua letteraria, e per la maggiore
difficoltà da essi incontrata nel trovare forme inconsuete adatte alla lingua
poetica, pur attingendo alla stessa lingua dei secondi.[25]
Quindi per il Leopardi l’eleganza
della lingua non è sicuramente data dall’uso di forestierismi che i letterati
moderni sogliono inserire nella loro scrittura direttamente dalla lingua
parlata. Inoltre, essi accolgono nella loro scrittura con leggerezza tali
termini, non studiano la loro etimologia, il loro senso metaforico e non li
comparano con altri simili per verificare se la sfumatura con la quale li usano
sia la piú corretta. Questo appiattimento dello scrivere moderno è il frutto
dell’ignoranza, del plauso che viene tributato dai lettori a scrittori non
degni di questo nome che conoscono poche opere straniere, e non le confrontano
con quelle dei nazionali che ignorano, e che derivano la loro lingua dal
parlato quotidiano. Una lingua scritta è quindi volgare quando questa non si
scosta da quella corrente, mentre risulta elegante quando impiega termini che
sono usciti dall’ordinario, ma sono ancora compresi facilmente dai lettori e da
questi riconosciuti come propri di una lingua letteraria. Continua Leopardi: l’eleganza
di una parola non è però immutabile nel tempo – sono invece costanti le leggi
che la regolano – e muta proporzionalmente all’uso proprio, ma non abituale,
per la quale viene impiegata nella scrittura: ad esempio “vario” se usato nel
senso di “diversi” e “parecchi”, seppure sia corretto nel significato, e vi
siano esempi illustri (Tasso), è impoetico, quotidiano, mentre è poetico nel
verso petrarchesco «Varie di lingue et d’arme, et de le
gonne», dove assume il significato proprio di “vario”, nel senso di
molteplice.[26]
O come il sostantivo “favola” che derivando dal latino “fabula” ha conservato
anche il significato di “racconto falso”, e se utilizzato dagli scrittori in
questa accezione è elegante, ad esempio nell’emitischio della prima terzina
proemiale del Canzoniere: «al popol tutto / Favola fui
gran tempo».[27]O come “tanto”, del verso petrarchesco «Te solo aspetto, et quel che tanto amasti»,che, non determinando la
quantità di un oggetto o di un sentimento «essendo indefinito, fa maggiore effetto che non farebbe molto,
moltissimo eccessivamente, sommamente.»[28]
Sono invece ineleganti le locuzioni “noi altri” e “voi altri”, testimoni della sopravvivenza di quelle latine “nos
ceteri” e “vos ceteri”, che erano nate per distinguere nella lingua parlata il
“noi” e il “voi” dato alla singola persona, cioè per differenziare nella
scrittura l’uso singolare da quello plurale dei pronomi “noi” e “voi”.[29]
Al contrario risulta elegante un altro uso pleonastico di “altro” accompagnato
dalla preposizione privativa “senza”, divenuto poi caratteristico della lingua
italiana.[30] L’uso di tale ridondanza è comune
anche negli scrittori greci piú raffinati e il recanatese, che può essere a
ragione considerato un poeta greco, la preferisce nei suoi Canti a
quella equivalente “senza alcuno”, come ne Il pensiero dominante (v. 84) «Pose a tanto
patir senz’altro frutto»;
o in Sopra un basso rilievo antico sepolcrale (v. 92) «E dire a quella addio senz’altra speme»; o ne La ginestra (v. 204) «Maturità senz’altra forza atterra», seppure nel v. 175 s’incontri anche l’altra
forma «Quegli ancor piú senz’alcun fin remoti». Rifacendosi
poi all’autorità dello scrittore latino Seneca, Leopardi fa derivare l’uso
negli scrittori italiani, come Petrarca, del verbo “andare” nel significato di
“essere”: «E ’l giorno andrà pien di minute stelle»; «Sí
ch’i’ vo già de la
speranza altero»; «D’invidia molta ir
pieno»e «Poi che del suo piacer mi
fe’ gir grave».[31]
Per Leopardi la poesia dell’aretino è comunque l’unica poesia
lirica che l’Italia possa contare. In una lettera a Pietro Giordani, scritta a
Recanati il 19 febbraio 1819, riprende una discussione interrotta con il
corrispondente dopo l’incontro di settembre dell’anno prima, e cioè che l’Italia
non abbia dei poeti squisitamente lirici, mentre sembra che i tempi siano
maturi per la loro nascita. Infatti, dei quattro poeti lirici, il Chiabrera, il
Testi, il Filicaia e il Guidi, considerati da Leopardi i piú rappresentativi
del genere, solo il secondo può meritarsi l’appellativo di lirico. Il motivo
dell’assenza della lirica, continua nello Zibaldone,[32]
risiede nella mancanza dell’eloquenza che solo Petrarca ha saputo infondere
nella sua poesia e mirabilmente nelle tre canzoni O aspettata, Spirto
gentil, Italia mia. Tra i cinquecentisti il Tasso è stato eloquente
scrivendo di se stesso, delle sofferenze che la vita gli ha inflitto, anche se
è stato eguagliato, a parere di Giordani, da Lorenzino dei Medici nella sua Apologia,
mentre il Della Casa, imitandolo, non ha ottenuto che uno stile affettato.[33]
Ma l’arte di esprimersi con efficacia persuasiva, interessando e commovendo, la
si ritrova sia nella prosa sia nella poesia; ma se nella poesia eloquente il
lettore può trovare quelle emozioni e quelle immagini indefinite che lo
appagano, e che contraddistinguono la vera poesia, nella prosa oratoria tale
lettore rimarrà sempre inappagato, come già rilevava Cicerone.[34]
Quanto alla lirica, io dopo essermi annoiato parecchi giorni
colla lettura de’ nostri lirici piú famosi, mi sono certificato colla
esperienza di quello che parve al Parini, e pare a voi, secondo che mi diceste
a voce, e credo che oramai sia divenuta sentenza comune, se non altro, degli
intelligenti, che anche questo genere capitalissimo di componimento abbia
tuttavia da nascere in Italia, e convenga crearlo. Ma fra i quattro principali
che sono il Chiabrera il Testi il Filicaia il Guidi, io metto questi due molto
ma molto sotto i due primi; e nominatamente del Guidi mi maraviglio come abbia
potuto venire in tanta fama che anche presentemente si ristampi con diligenza e
piú volte. E perché il Chiabrera con molti bellissimi pezzi, non ha solamente
un’Ode che si possa lodare per ogni parte, anzi in gran parte non vada
biasimata, perciò non dubito di dar la palma al Testi il quale giudico che se
fosse venuto in età meno barbara, e avesse avuto agio di coltivare l’ingegno
suo piú che non fece, sarebbe stato senza controversia il nostro Orazio, e
forse piú caldo e veemente e sublime del latino […].Ma non è maraviglia che l’Italia.
non abbia lirica, non avendo eloquenza, la quale è necessaria alla lirica a
segno che se alcuno m’interrogasse qual composizione mi paia la piú eloquente
fra le italiane, risponderei senza indugiare, le sole composizioni liriche
italiane che si meritino questo nome, cioè le tre Canzoni del Petrarca, O
aspettata, Spirto gentil, Italia mia.
Il recanatese sviscera poi da un’altra angolatura il sentimento
della compassione, che la vera poesia lirica è chiamata a suscitare nei
lettori. La compassione spesso è fonte di amore e nasce per gli oggetti belli,
o che diventano tali grazie al compatimento. In quest’ultimo caso la
compassione è durevole. Cosí i soggetti poetici dovranno essere amabili per
muovere a compassione il lettore, che d’altronde immaginerà attraente anche il
poeta; se accadesse il contrario il lettore ne sarebbe disgustato: è infatti
inimmaginabile pensare a un Petrarca brutto mentre parla di se stesso, delle
sue sventure e dei suoi amori sfortunati.[35]
Per Leopardi, da ultimo, le rime del Petrarca riconosciute
esemplari dal consesso dei letterati hanno generato nei posteri un plateale
fenomeno di scoperta imitazione. Esempio lampante sono le Rime di
Eustachio Manfredi, in particolare le canzoni, dove il settecentesco ha imitato
pedissequamente Petrarca «e anche
affettatamente e servilmente come dove dice: Canzone O tra quante il sol
mira altera e bella Pel giorno natalizio di Ferdinando di Toscana: Rade
volte addivien, ch’altrui sublimi Fortuna ad alto onor senza contrasti, (Rade
volte addivien ch’all’alte imprese Fortuna ingiuriosa non contrasti:
Petrarca Spirto gentil ec.) e altrove.»[36]
Però qualunque scrittore emuli un altro nelle sue opere, se viene smascherato,
sarà considerato sempre inferiore e ricordato per essere un buon contraffattore
dell’imitato; anche se era costume soprattutto in Italia iniziare la propria
carriera letteraria ricalcando i classici, tant’è che anche Tasso cominciò
poetando alla maniera del Petrarca, ma le sue imitazioni non sono ricordate che
come esercizio di bella scrittura e non eguagliarono certo il maestro.[37]
Continua Leopardi: l’imitazione è anche una particolare forma di assuefazione
inconsapevole, rientrando in quella naturale predisposizione che l’uomo ha di
assimilare come propria la lettura piú recente e di riprodurla nella scrittura.
Anche il recanatese n’è stato vittima: «avendo
letto fra i lirici il solo Petrarca, mi pareva che dovendo scriver cose liriche,
la natura non mi potesse portare a scrivere in altro stile ec. che simile a
quello del Petrarca. Tali infatti mi riuscirono i primi saggi che feci in quel
genere di poesia. I secondi meno simili, perché da qualche tempo non leggeva piú
il Petrarca. I terzi dissimili affatto, per essermi formato ad altri modelli, o
aver contratta, a forza di moltiplicare i modelli, le riflessioni ec. quella
specie di maniera o di facoltà, che si chiama originalità.»[38]
Quando la facoltà d’imitazione è applicata consapevolmente a un testo, è
al contrario positiva, perché è studio profondo della lingua, è riformulazione
originale e artistica di una lingua a un’altra, tant’è che i letterati italiani
risultano essere superiori agli altri nel tradurre e conoscere la lingua latina
perché l’hanno saputa meglio imitare nelle loro opere a partire proprio da
Petrarca.[39]
Un altro modo di chiamare a testimone Petrarca nello Zibaldone è quello di indicarlo come
esempio in argomenti filosofici. Per Leopardi l’istinto fondamentale dell’uomo
è quello del piacere, infinito in estensione, che trova appagamento nella
immaginazione dell’ambiente che lo circonda e non nella realtà. Il contrasto
tra l’aspirazione continua al piacere e la frustrazione della conoscenza dell’habitat,
che la scienza inevitabilmente comporta, è fonte di pena e di noia. Quindi l’uomo,
secondo la teoria di Leopardi, è portato a ricercare il piacere nelle
illusioni, nelle belle immaginazioni che la poesia crea. Naturalmente queste
sono tanto maggiori nei poeti classici, i greci, i latini, gli italiani come
Petrarca che nei versi «Verso
occidente, et che ’l dí nostro vola / A gente che di là forse l’aspetta»,
con l’avverbio “forse” riesce a rendere palpabile tutte le fantasie dilettose
che gli uomini si creavano nell’incerta conoscenza degli antipodi. Una volta
misurata la grandezza dei poli e trasferita la loro sagoma sull’arido
mappamondo, qualunque sua rappresentazione fantastica è sparita nella mente
degli uomini e con essa il piacere provato nel concepirla, nel tradurla in
parole, nel condividerla e tramandarla ad altri uomini. La matematica
quindi è l’opposto del piacere perché analizza, misura e circoscrive la natura
che non vuole confini per essere dilettevole. L’animo umano si appaga di
sensazioni piccole ma indeterminate, dai contorni sfilacciati, evanescenti
piuttosto che di grandi, determinate, dai contorni visibili, reali. La scienza
come la matematica è quindi nemica del piacere, la certezza distrugge la
grandezza dell’incertezza tutta esemplarmente racchiusa in quel “forse” del
Petrarca.[40]
A proposito dei diversi uffici dei campi del sapere e del loro riconoscimento
sociale, il recanatese constata che gli scopi che i poeti e i filosofi perseguono
nella loro ricerca sono diversi: i primi ricercano il bello; i secondi il vero.
Per ottenere buoni risultati, entrambi sono partecipi mediocremente della
scienza dell’altro. I moderni, contrariamente agli antichi, però considerano la
poesia e la filosofia come due facoltà facilmente esercitabili da ogni uomo,
senza considerare che queste facoltà sono per l’intelletto le piú ardue; perciò
il lavoro dei poeti e dei filosofi non viene adeguatamente riconosciuto dalla
società, al contrario di quello del matematico, del medico, del pittore, del
musico, come ben riassume Petrarca nel verso «Povera et nuda vai philosophia».[41]
Con i versi petrarcheschi «Quante
volte diss’io / Allor pien di spavento: / Costei per fermo nacque in paradiso»
Leopardi invece riflette su come la forte impressione che produce la bellezza
induca allo spavento perché lo spettatore ritiene impossibile fare a meno dell’oggetto
contemplato e, insieme, ritiene impossibile possederlo come vorrebbe, cioè
diventando una cosa sola con esso. Il desiderio, in particolare quello d’amore
che è cosí forte, atterrisce col pensiero di tutte le pene che esso produrrà
non potendo essere soddisfatto e non vedendosi come esso possa finire. Oggi
invero ciò accade solo ai giovani inesperti, poiché gli adulti sanno che l’amore
passa facilmente o può essere soddisfatto e cosí in genere è facile ottenere
ciò che si brama. Solo i fanciulli vivono con spavento i desideri forti.[42]
L’Interpretazione leopardianadelle Rime di
Petrarca
Nel novembre 1825 l’editore Stella commissiona a Leopardi il
commento delle Rime di Petrarca per la collana Biblioteca amena ed
istruttiva per le donne gentili. Il recanatese si pone al lavoro, ma ben
presto si rende conto che commentare un poeta, e precisamente il poeta che ha
ammirato e preso a modello, non è cosa per niente facile: il rendere la lingua
del trecento in quella a lui contemporanea vuol dire toglierle tutta l’immaginazione
che la consacra come poetica. Il fitto scambio di missive tra Leopardi e lo
Stella da novembre 1825 a
settembre del 1826 mette in luce le fasi alterne della realizzazione del
progetto editoriale. Leopardi ha preso l’impegno con l’editore e la sua onestà
intellettuale gli impone di portare a termine il progetto nel migliore dei
modi, consigliando anche l’editore sul modo di articolare la stampa dell’Interpretazione.[43]
Nella lettera del 6 gennaio 1826 gli consiglia di dividere la pubblicazione in
otto volumetti, quattro per le Rime in vita di madonna Laura e quattro
per quelli in morte, per agevolare la lettura. Il consiglio viene accolto e l’Interpretazione
uscirà in nove volumetti, non in otto, perché ne sarà aggiunto uno dedicato ai Trionfi
e alle Rime sparse. Una volta decisa la veste editoriale, Leopardi si
preoccupa dell’aspetto squisitamente filologico del testo da pubblicare e
decide di seguire quello del Marsand che però riforma nella punteggiatura, per
lui chiaramente errata. Lo Stella, confermata la scelta, chiede a Leopardi di
aggiungere anche una vita del Petrarca: il recanatese rifiuta decisamente,
osservando che molte e esaurienti biografie erano già state pubblicate, e
riassumere poi una di queste per inserirla in una collana amena avrebbe
significato essere parziali.
Nella vita del Petrarca non si può essere breve. Faremo sempre
o una testa piú grande del corpo, o uno schizzo incompleto, superficiale e
inutile.[44]
Poi rivolge la sua attenzione ai commenti pubblicati per
operare i confronti necessari e chiede con insistenza all’editore di spedirgli
il Petrarca illustrato del Marcheselli, da poco pubblicato a Firenze. Dopo
molte insistenze riceve i volumi, li consulta e scrive indignato allo Stella
che glieli rispedirà per l’assenza di commenti e per gli errori grammaticali
che vi ha trovato, chiara denuncia dell’ignoranza del curatore.
Con mio dispiacere le dico che tutta l’illustrazione del
Petrarca di Firenze consiste in un volume di bibliografia petrarchesca. Neppure
una sillaba di commento o note. Non ho tagliata ne anche una carta, e serbo qui
l’opera intatta, a sua disposizione. La stampa è orrida. Che senza il
segnacaso, non può essere che o nominativo (il che è fuori del caso nostro) o
pure accusativo; e non mai dativo.[45]
Leopardi continua il “fatale e amaro Petrarca” preoccupandosi
dell’impaginazione dell’Interpretazione che per essere utile ai lettori
dovrà seguire immediatamente i versi.
Se le dame e i cavalieri saranno obbligati a voltare piú di una
pagina per trovare la spiegazione del passo che avranno per le mani, tutta la
facilità che abbiamo voluto procurar loro con questa interpretazione, sarà
vanissima, inutilissima, svanirà interamente, e la sua edizione non avrà
incontro maggiore delle altre.[46]
Escono i primi volumi e l’insoddisfazione per il lavoro si
accresce: scrive alla sorella Paolina:
Ti mando il primo tometto del Petrarca; ne sto aspettando altri
due, e te li manderò: gli altri usciranno a momenti, perché il mio lavoro è
ormai finito. Vedrai che sorte di fatiche toccano alle volte ai poveri
letterati. Ma questa per me è la prima, e sarà certamente l’ultima di questo
genere; e non avrei fatta neppur questa, se non mi ci fossi obbligato con una
parola detta inconsideratamente, che mi ha fatto disperare. Pure me ne sono
cavato piú presto ch’io non credeva.[47]
Mentre all’amico Papadopoli, nell’annunciargli l’uscita dei
primi tre volumetti, consiglia di ponderare l’acquisto perché questo commento
non lo sente come un suo lavoro.
Ma ella è un’opera fatta senza inclinazione alcuna, per
soddisfare a un libraio, che ne aspetta molto guadagno. Io non la tengo per mia
e tu non ci pensare.[48]
Comunque Leopardi continua diligentemente e puntigliosamente le
correzioni alla stampa e costringe l’editore a pubblicare, all’uscita di tutti
i nove volumi, un fascicoletto con l’errata-corrige complessiva. Nel novembre
del 1826 i nove volumetti dell’Interpretazione sono stati pubblicati, ma
Leopardi è sempre piú amareggiato nonostante il discreto successo dell’opera.
Non solo il pubblico femminile degli abbonati alla collana ha letto e
apprezzato l’opera, ma anche molti letterati gli riservano lodi, insieme agli
insegnanti di lingua e letteratura italiana agli stranieri.
Qui in Bologna, in Romagna e in Toscana, non solo le donne, ma
i primi letterati hanno fatto un’accoglienza diversa a quel mio comento; non l’hanno
giudicato indegno del loro proprio uso; hanno detto che non era possibile di
spiegare un autore né piú pienamente e chiaramente, né con piú risparmio di
parole; ed alcuni mi hanno confessato di avere, coll’aiuto di quello, intesi
per la prima volta parecchi luoghi che fino allora non avevano intesi mai, o
vero avevano intesi a rovescio. In fine sono arrivati a dire che quello
dovrebbe servir di modello a tutti i correnti; e in Bologna se ne sarebbe
intrapresa subito una ristampa se non si fosse saputo che io mi vi sarei
opposto con tutto il mio potere.[49]
So che a Roma il suo Petrarca è adottato da quei privati che
danno lezioni di lingua e letteratura italiana ai tanti inglesi ec. Che passano
colà l’inverno.[50]
Le critiche accompagnano ogni successo e l’Interpretazione
non ne è certo esente: nella lettera allo Stella del 13 settembre Leopardi si
difende dalle accuse di scolasticità mossegli da alcuni che hanno considerato
il suo annotare i casi dei nomi o i generi dei verbi come un affronto alla loro
preparazione culturale, mentre il suo intento era quello di appianare le
difficoltà della costruzione linguistica. Per ribattere pubblicamente alle
critiche, il recanatese propone all’editore, che accetterà, di scrivere una
brevissima risposta da porre alla fine dell’ultimo volumetto. In questa
replica, con un tono tra sarcastico e risentito, ribatte punto per punto a
quanti hanno voluto criticarlo: da coloro che si aspettavano un’esegesi del
pensiero di Petrarca, a coloro che, osservando che Petrarca non è oscuro, in
sostanza ritengono superflua la sua fatica. Insomma, dopo aver chiesto perdono
a tutti, a coloro che si aspettavano un approfondimento maggiore e a coloro che
si sentivano quasi offesi dalle spiegazioni linguistiche fornite, Leopardi
conclude ironico e sdegnato:
In ultimo domando perdono a tutto l’esercito innumerabile dei
pedanti d’ogni nome e d’ogni bandiera, e a tutto il piccolissimo numero dei
loro contrari: a questi, di avere scritta una interpretazione, a quelli, di non
averla scritta a lor modo. E a tutti, o che mi perdonino o no, desidero tanta
sanità e contentezza, quanta costanza avranno nelle loro opinioni fino alla
morte. Cosí sia.[51]
L’opera si vende bene e l’editore insiste perché Leopardi
accetti l’offerta fatta alcuni mesi addietro di commentare allo stesso modo l’opera
del gesuita grammatico Marcantonio Mambelli, detto Cinonio; la risposta di
Leopardi è negativa con riserva: se del commento l’editore ha assoluto bisogno
per consolidare la sua posizione sul mercato è disposto ad assecondare il suo
progetto a patto che il lavoro esca sotto pseudonimo: non vuole correre il
rischio di entrare a far parte della schiera dei pedanti, di quegli scrittori
cosí esecrati da lui stesso nelle sue opere.
Signore ed Amico carissimo. Eccomi a dirle del Cinonio. Trovo
che questo lavoro sarà dei lunghi e noiosissimo, altrettanto e piú che il Petrarca,
senza stimolo alcuno di fama o di lode all’autore. Ciò non ostante, giudicando
Ella che esso debba riuscirle utile, eccomi a servirla. Ma avendo io già
pubblicata col mio nome un’opera affatto pedantesca, com’è il comento al
Petrarca, mi prendo la confidenza di porle in considerazione che il pubblicarne
un’altra dello stesso genere, non potrà essere senza che il Pubblico mi ponga
onninamente e per viva forza in quella classe dalla quale colle mie parole e
cogli altri miei scritti ho tanto cercato di separarmi; nella classe di quelli
che deprimono e rendono frivola, nulla, ridicola agli occhi degli stranieri, la
nostra letteratura, e con ciò servono mirabilmente alle intenzioni dell’oscurantismo;
nella classe dei pedanti. Io la prego però di volere avere al mio nome questa
compassione di salvarlo da questo epiteto, nel quale esso incorrerà
inevitabilmente se la nuova opera sarà annunziata per mia. Quando Ella si debba
pubblicare anonima o sotto altro nome, non sarà però scritta con minor cura,
attenzione, minutezza di quella ch’io userei nell’opera dove fosse maggiormente
interessato il mio onore. Ella mi conosce, credo, abbastanza per essere
persuasa che io non saprei neppure scrivere senza usar tutta la diligenza che
mi è possibile per fare il meglio ch’io so.[52]
Petrarca nello Zibaldone
dal novembre 1825 al giugno 1826.
Durante la
stesura dell’Interpretazione i pensieri dello Zibaldone[53]
che richiamano la figura e l’opera di Petrarca si fanno piú rari e riguardano
essenzialmente aspetti della lingua letteraria italiana e dei legami da questa
instaurati con le lingue greca e latina. Cosí Leopardi rileva una
costruzione del verbo tipica della lingua greca passata nell’italiana e di cui
è esempio il verso petrarchesco «Poi che s’accorse chiusa da la spera», dove il verbo di percezione regge al
posto dell’infinito il participio con funzione predicativa.[54]
A questa costruzione ne aggiunge un’altra dalla lingua latina, dello scrittore
Floro, dove in due luoghi usa la particella “inde” con valore di moto a
luogo, “onde vai” e transitata nella lingua italiana con “onde” per “dove” e
“altronde” al posto di “altrove”. Gli esempi riportati a supporto della tesi si
leggono già nei primi pensieri (511-512, 1421, 2865) e sono in gran parte
ripresi dal Forcellini o dal vocabolario della Crusca, mentre negli ultimi due
(3430, 4162) il recanatese cita due luoghi petrarcheschi: «Et io contra sua voglia altronde ’l
meno» e «là onde anchor come in suo albergo vène».[55]
Conseguentemente nell’Interpretazione il primo verso viene reso: «per
altra via, per altra parte» e il secondo «colà dove. Vuol dire nel cuore».
Ma piú
numerosi sono i pensieri dove il recanatese richiama i versi petrarcheschi per
esemplificare costruzioni grammaticali particolari come quella del
genitivo per l’accusativo manifeste nei versi: «degnò mostrar del suo lavoro in terra»;
«Cosí avestú riposti / De’ be’ vestigi sparsi»; «Fammi sentir de quell’aura
gentile»; «Per non provar de l’amorose tempre!»;
«De la sua gratia sopra me non piove»;
«m’àn fatto habitador d’ombroso bosco».[56]
Costruzioni parzialmente accolte o del tutto taciute nell’Interpretazione.[57]
O per verificare l’uso inusuale, ricercato, “elegante” di aggettivi, parole,
preposizioni e verbi. Cosí nel 4140 il verso «disperse dal bel viso inamorato» e
«move da lor inamorato riso» vengono citati per l’uso di
“innamorato” al posto di “che innamora”; il verso «Senza sospetto di trovar fra
via» per “tra via, fra via” al posto di “in via”; il verso «Poi fuggite dinanzi a la mia pace» per “poi” al posto di
“nondimeno”. Nel 4160 i versi 34 e 37 «Et
non se transformasse in verde
selva, / Ma io sarò sotterra in secca selva» per l’uso latino di chiamare “selva” la “pianta, l’albero” e
per traslato: nel primo caso “alloro”, nel secondo “legno”. Nel 4182 il verso «Che ’l furor litterato a guerra mena»
per “litterato” al posto di “letterario”; i versi 4-5 «Nel Signor, che mai fallito /
Non ha promessa a chi si fida in lui» per “fallire la
promessa” al posto di “mancare promessa”. Inoltre in quest’ultimo pensiero c’è
il richiamo generico alla canzone-frottola Mai non vo’ piú cantar com’io soleva, come esempio di
componimento di origine popolare, costituito da filastrocche, da proverbi, da
motti sentenziosi, spesso legati tra loro.[58]
In un solo caso riprende e amplia precedenti argomentazioni
linguistiche con l’autorità delle rime dell’aretino. Infatti se nei pensieri
4000 e 4090 il recanatese ritorna su “altro” nel significato di “alcuna cosa” e quindi di “nulla”,[59]
nel 4182 completa le osservazioni antecedentemente fatte in 3587-3588[60] sull’idiotismo “senz’altro”,
aggiungendo che può assumere anche il significato di “senza nessuno”, ne
riprende l’esempio «Altro voler o disvoler m’è tolto» insieme ad altri
due: «Senz’altra pompa, di godersi in seno», e in «Sí che s’altro accidente nol
distorna».[61]
Ma nell’Interpretazione però il recanatese preferisce rendere le
locuzioni con “alcuna volontà propria; altra volontà”, “senza alcuna pompa” e
“qualche accidente” e non con “nessuna volontà”, “nessuna pompa” e “nessun
accidente”.
Petrarca nello Zibaldone
dopo il giugno 1826.
Prima di
esaminare i richiami a Petrarca negli ultimi pensieri dello Zibaldone,
vogliamo porre l’attenzione sul progetto che l’editore Stella propone a Leopardi
dopo l’uscita dell’Interpretazione, il Dizionario filosofico, mai
iniziato, che ci aiuta a collocare le ultime tessere del rapporto tra il
recanatese e l’aretino. Il lavoro preparatorio è tutto in uno scambio di
lettere tra i due: Leopardi si lamenta che rileggere i propri pensieri,
ordinarli per materia e riscriverli con uno stile unitario è un’impresa molto
faticosa e dispendiosa in termini di tempo, ma conclude che comunque inizierà
il lavoro stilando per prima cosa degli Indici degli argomenti.[62]
Incoraggiato dalla risposta dell’editore, annuncia di aver iniziato il lavoro e
di aver redatto anche degli elenchi, che potrebbero essere pubblicati
separatamente, di argomenti sulla lingua vista da diverse angolature, da quella
storica alla filosofica.[63]
La revisione cursoria del materiale avviene cosí tra il luglio 1827 e l’ottobre
dello stesso anno, con l’Indice che porta in calce le datazioni
cronologiche e topiche: «cominciato agli undici di Luglio del 1827, in Firenze» e
«Finito questo dí quattordici ottobre del 1827, in Firenze»; e l’indicazione dei passi riletti: «Questo
Indice si intende dalla pagina 1 del Zibaldone di Penseri alla
pagina 4295».
Sotto la voce
“Francesco Petrarca”, Leopardi raccoglie circa un terzo delle ricorrenze
totali.[64]
In questi pensieri la figura di Petrarca viene ridimensionata, pur rimanendo
sempre nodale nella nostra lingua e letteratura nazionale. Il recanatese
sceglie i pensieri che rilevano le caratteristiche del suo stile;[65]
la sua formazione esemplata sui testi dei poeti latini, testi che in alcuni
versi delle tre canzoni «O aspectata in
ciel beata et bella, Spirto gentil, che quelle membra reggi e
Italia mia, benché ’l parlar sia indarno» supera per la bellezza delle
immagini;[66]il rapporto che intrattennero
con le sue opere i letterati del Cinquecento, per alcuni dei quali era soltanto
l’unico lirico da imitare mentre altri, come il Della Casa, si staccarono da
questo giudizio;[67]la sua efficace esortazione perché i potenti cristiani liberassero il
sepolcro di Cristo, tenendo vivo quell’odio verso i Turchi che le Crociate
avevano fomentato nei cristiani e che si prolungherà fino alla Gerusalemme
del Tasso.[68]
Ma non omette i pensieri dove rileva che solo Dante ebbe la consapevolezza che
la lingua italiana, sebbene in via di consolidamento, poteva esprimere
degnamente materie gravi come la letteratura, al contrario di Petrarca che la
considerava forma propria per un pubblico minore composto da donne e da
cavalieri.[69]
Negli ultimi
pensieri dello Zibaldone, dal 4183 al 4526, le Rime vengono
essenzialmente citate come esemplificazioni di costruzioni verbali passate dal
greco all’italiano o di significati particolari di verbi o aggettivi. Nel primo
caso Leopardi osserva che l’uso dell’imperfetto indicativo in luogo del
congiuntivo nel periodo ipotetico dell’irrealtà è tipico del greco, che ricorre
all’indicativo storico sia nella protasi sia nell’apodosi, come nei versi «ch’ogni
altra sua voglia / Era a me morte, et a lei fama rea».[70]Nel Pensiero si legge
“infamia” per “fama” e questa diversa lezione trova spiegazione nella nota dell’Interpretazione ai versi 95-97: «e
quando piú ne avesse saputo, non sarebbe però stata verso di me altra da quel
che fu, ché il trattarmi ella altrimenti non sarebbe potuto essere senza morte
dell’anima mia né senza infamia sua propria.» Nel 4495 il recanatese invece
riporta il verso «E vedrà il
vaneggiar di questi illustri» come
esempio di “vaneggiare” nel significato di “essere vano” e il verso «L’aere
gravato, et l’importuna nebbia» per l’uso di “gravato” per “grave”.[71]
Nell’Interpretazione “gravato” viene
coí spiegato: «carico di vapori; torbido, nuvoloso».
È
probabilmente un ritorno alla memoria del lavoro fatto per l’Interpretazione
il pensiero 4417, dove il recanatese riprende, condividendola, un’osservazione di Perticari a proposito dell’autografo
del Canzoniere, secondo la quale in esso si trovavano versi «pieni
sempre di chiarissimi errori, che accusano la mano del Petrarca non essere
stata troppo obbediente all’intelletto di lui.»[72]
Se esaminiamo
l’elenco dei passi dello Zibaldone redatto per il Dizionario
filosofico, ci accorgiamo che la figura di Petrarca viene nominata perché
citata in frammenti di saggisti che il recanatese stava leggendo, ricopiando e
commentando per fini personali, per articoli, per risposte agli autori, o
perché esempi lampanti di tematiche già in precedenza discusse. A quest’ultima
categoria appartengono il 4440, dove il recanatese rimarca l’assenza di poesia
di stile nel suo secolo per ragioni opposte a quelle che la determinarono nei
greci e nei latini; e i pensieri 4246[73]
e 4491, che ritornano invece sull’argomento dell’imitazione in poesia, e nelle
arti in genere, deleteria per la fama dei grandi scrittori:
Il Petrarca, tanto imitato,
di cui non v’è frase che non si sia mille volte sentita, a leggerlo, pare egli
stesso un imitatore: que’ suoi tanti pensierini pieni di grazia o d’affetto,
quelle tante espressioni racchiudenti un pensiero o un sentimento, bellissime
ec. che furono suoi propri e nuovi, ora paiono trivialissimi, perché sono in
fatti comunissimi. (Zib. 4491)
Brani del Discorso
sul testo e su le opinioni diverse e prevalenti intorno alla storia della
critica della Commedia di Dante scritto da Foscolo occupano i
pensieri 4378-4387 e sono puntualmente discussi e sviscerati dal recanatese con
riferimento alla sua teoria sulla lingua e letteratura italiana. Nell’ultimo
pensiero Leopardi, rifacendosi al paragrafo 203 del discorso foscoliano e
riprendendo alcune considerazioni precedenti sulla genesi della prosodia
italiana, approfondisce l’origine delle differenze tra quella della poesia di
Dante rispetto a quella di Petrarca.[74]
L’ultimo frammento, trascritto nel pensiero 4249 (ultimo dell’Indice), è
forse il piú interessante, perché ribadisce l’opinione negativa che Leopardi aveva
maturato su Petrarca durante il lavoro interpretativo delle Rime e
palesato all’editore Stella:
Io le confesso che, specialmente dopo maneggiato il Petrarca
con tutta quell’attenzione ch’è stata necessaria per interpretarlo, io non
trovo in lui se non pochissime, ma veramente pochissime bellezze poetiche, e
sono totalmente divenuto partecipe dell’opinione del Sismondi, il quale nel
tempo stesso che riconosce Dante per degnissimo della sua fama, ed anche di
maggior fama se fosse possibile, confessa che nelle poesie del Petrarca non gli
è riuscito di trovar la ragione della loro celebrità. I miei pensieri
verserebbero tutti sopra questo punto, ed Ella ben vede che tali pensieri non
sono per far fortuna in Italia a questi tempi. Il platonismo poi del Petrarca a
me pare una favola perché piú d’un luogo de’ suoi versi dimostra
evidentissimamente che il suo amore era come quello di tanti altri,
sentimentale sí, ma non senza il suo scopo carnale.[75]
Nel pensiero,
riportando un severo giudizio di lord Chesterfield «Petrarca è, a mio
parere, un poeta di canzonette malato d’amore, assai ammirato peraltro dagli
italiani […], che meritava la sua “Laura” piú di quanto meritasse il “lauro”»
con cui era stato incoronato a Roma, il recanatese afferma di condividere questa
opinione, che certamente avrebbe incontrato pochi sostenitori in Italia.[76]
Si conclude
cosí la parabola delle opinioni diverse che Leopardi nutrí su Petrarca nel
corso del tempo, parabola cominciata con una sconfinata ammirazione e poi via
via modificatasi in seguito a riflessioni e analisi piú mature, fino a giungere
a un aperto ridimensionamento. Maturando uno stile suo proprio e approfondendo,
attraverso l’Interpretazione,
gli aspetti linguistici della poesia del Petrarca, se ne venne distaccando
poiché in questo lavoro di analisi la poesia del Petrarca venne perdendo l’incanto
poetico e immaginativo che fin lí aveva avuto per lui. Ciò non toglie che
Petrarca conservi per Leopardi un valore fondamentale nella storia della lingua
e della letteratura italiana.
Bibliografia sul
Petrarchismo di Leopardi
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Ronzi, Comparazione dell’amore di Petrarca e Leopardi, s. e., Belluno,
1874; Carlo Canetta, Il Petrarca e il Leopardi, in «L’Opinione letteraria», a. I, 11
maggio 1882, n. 19; Antonio Bracchi, La canzone “Italia mia” del Petrarca e quella “All’Italia” del Leopardi,
in «Il libro d’oro della Gioventú Italiana», (a. 1891), serie I, aprile, vol.
I; Gabriele Pinnarò, Il concetto della vita nella mente del
Petrarca e del Leopardi, in «Alessandro Manzoni», a. IV(1896), settembre-ottobre, n. fasc.
18-20; Gaetano Gasperoni, La canzone “All’Italia” del Leopardi in
relazione con quella del Petrarca, Tipografia al Rubicone, Savignano sul
Rubicone, 1897; G. Alivia, Il sentimento della gloria in Dante, nel
Petrarca e nel Leopardi, Satta, Sassari, 1904 (conferenza); Cesare De Lollis, Petrarchismo leopardiano in «Rivista d’Italia», a. VII (1904); Giovanni Rabizzani, Note leopardiane: il Leopardi e il Petrarca,
in «Nuova Rassegna di letterature moderne», 1906; Costanzo Lavagno, L’imitazione
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1926; Vincenzo Gerace, Petrarca e Leopardi, in La tradizione e le moderne barbarie. Prose
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in Leopardi e la letteratura italianadal Duecento al Seicento, [Atti del iv convegno internazionale di studi
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e la letteratura… cit.; Alberto
Frattini, Crisi del modello
petrarchesco in Leopardi,in Leopardi e la letteratura…cit.; Ettore Bonora, Leopardi e Petrarca,in Leopardi e la letteratura…cit.; Carmine Di Biase, Che cosa devono a Virgilio Petrarca, Leopardi e Manzoni, in «Nostro
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Petrarchismo e memoria poetica in
Leopardi, in «La Rassegna
della letteratura italiana», a. LXXXVII (1983), n. 1-2; Fiorella Gobbini, La
poesia poetica del Petrarca e del Leopardi, in «Il letterato», a. 1986, n.
1-3; Luca Dal Monte, Riflessioni di una notte senza luna sull’Italia
del Petrarca e del Leopardi, in «Cremona produce», a. 1986, aprile-giugno; Emilio Bigi, Leopardi e il petrarchismo, in Poesia
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Milano, 1986; Pier Vincenzo Mengaldo,
Leopardi e Petrarca, in «L’Indice dei
libri del mese», a. XII (1995), n. 4; Ettore
Bonora, Leopardi e Petrarca,
in Dall’Arcadia a Leopardi. Studi di
letteratura italiana, Mucchi, Modena, 1997; Vittorio Zaccaria, Note
sul petrarchismo leopardiano, in «Atti e memorie dell’Accademia galileiana
di scienze, lettere ed arti in Padova», a. 1998, n. 111.
Bibliografia delle opere
di Petrarca presenti nella Biblioteca di casa Leopardi desunte dal Catalogo della Biblioteca Leopardi in
Recanati pubblicato negli «Atti e memorie della R. Deputazione di Storia
patria per la Provincia delle Marche», a. 1899, vol. IV.
Francesco Petrarca: Opere con
commenti. Venezia, 1515, vol. I;
Sonetti e Canzoni, coi commenti di Francesco Philepho, Antonio da Tempo et Niccolò Peranzone, ovvero Riccio Marchesiano, Venezia, 1522; Opere
con la esposizione di M. Giovanni
Andrea Gesualdo, Venezia, 1533; Cronica
delle vite de’ Pontefici ed Imperatori Romani, Venezia, 1534, vol. I; De remediis utriusque fortunae, Venetiis, 1534, vol. I; Opere colla esposizione di Alessandro Velluttelo, Venezia, 1538; Opera de M. Francesco Petrarca de’Rimedi
dell’una e l’altra fortuna tradotta per Remigio
Fiorentino, Venezia, 1549; Opera omnia. Tomus primus in quo opera
Historica ac Philosophica, Basilae, 1554; Rime secondo la lezione del Marsand,
con brevi annotazioni, Firenze, 1822; Collezione
delle edizioni del Petrarca, e delle opere di Papa Pio ii, Venezia, 1822; Rime
col commento di G. Biagioli,
Milano, 1823, voll. II.
Marco Mantova Benavides, Annotazioni brevissime sopra le
Rime di M. Francesco Petrarca, le quali contengono molte cose a proposito di
ragione civile, sendo stata la di lui prima professione a beneficio degli
studiosi…, Padova, 1566.
Bibliografia delle
edizioni dell’Interpretazione leopardiana delle Rime di Francesco
Petrarca.
Rime di Francesco
Petrarca colla interpretazione composta dal conte Giacomo Leopardi, vol. I, Stella,
Milano, 1826, voll. II (vol. I, Parte Prima: Sonetti e canzoni in vita di
madonna Laura; vol. II Parte Seconda Sonetti e canzoni in vita di
madonna Laura coi Trionfi e le rime varie); Francesco Petrarca, Le Rime con l’interpretazione di Giacomo Leopardi da
lui corretta e accresciuta per questa edizione alla quale si sono uniti gli
argomenti di A. Marsand e altre giunte,
Stabilimento Lett. - Tipografico G. Cioffi, Napoli, 1841; Rime di Francesco
Petrarca colla interpretazione composta dal conte Giacomo Leopardi, Le Monnier,
Firenze, 1845; Rime di Francesco Petrarca colla interpretazione composta dal
conte Giacomo Leopardi e con note inedite di Francesco Ambrosoli, Barbèra,
Firenze, 18722; Rime di Francesco Petrarca con le note di Giacomo
Leopardi, Società editrice Toscana, San Casciano in Val di Pesa, 1926; Rime
di Francesco Petrarca colla interpretazione composta dal conte Giacomo Leopardi,
Le Monnier, Firenze, 1927; Note al Petrarca, Vallecchi, Firenze, 1929; Francesco Petrarca, Le Rime, Cremonese, Roma, 1958; Francesco Petrarca, Rime con l’interpretazione
di Giacomo Leopardi, introduzione di Adelia Noferi, Milano, Longanesi,
1976; Le Rime di Francesco Petrarca con l’interpretazione di Giacomo
Leopardi,
introduzione di Giovanni Nencioni, Le Monnier, Firenze 1989; Francesco Petrarca, Canzoniere,
introduzione di Ugo Foscolo, Note di Giacomo Leopardi, Cura di Ugo Dotti,
Milano, Feltrinelli, 1992.
Bibliografia della critica
sull’Interpretazione di Leopardi delle Rime di Francesco
Petrarca.
Fabio Collutta, Il “Petrarca” del Leopardi e la censura milanese,
in «Rivista letteraria», a. IV (1932), n. 4; Giorgio
Berzero, L’Interpretazione di Giacomo Leopardi delle Rime del
Petrarca, in Nuove pagine di critica, Esposito, Chiavari, 1933; Domenico De Robertis, Il Petrarca di
Leopardi, in «Il Tempo», 27 agosto 1976; Bruno
Biral, La lettera allo Stella sul Petrarca, in Leopardi e la letteratura italianadal Duecento al Seicento, [Atti del iv convegno internazionale di studi
leopardiani (Recanati 13-16 settembre 1976)], Olsckhi, Firenze, 1978; Ruggero Ruggieri, Sinonimia e
parafrasi nel commento leopardiano al Canzoniere del Petrarca, in Leopardi e la letteratura italianadal Duecento al Seicento, [Atti del iv convegno internazionale di studi
leopardiani (Recanati 13-16 settembre 1976)], Olsckhi, Firenze, 1978; Lucia Barbieri,
Su Leopardi interprete delle “Rime”, in Terzo quaderno
veronese di filologia, lingua e letteratura italiana, curata da Gilberto
Lonardi, Verona, 1988; Antonella Marini,
Segni della poetica leopardiana nel Commento alle “Rime” del Petrarca,
in «La Rassegna
della letteratura italiana», a. 1988, gennaio-aprile, n. 1; Emilio Pasquini, Leopardi e il
commento a Petrarca, in Leopardi e Bologna, [Atti del convegno di
studi per il secondo bicentenario leopardiano (Bologna 18-19 maggio 1998)] a
cura di Marco Antonio Bazzocchi, Olsckhi, Firenze, 1999; Rossella Bessi, Leopardi commenta
Petrarca, in «La Rassegna
della letteratura italiana», a. 1999, gennaio-giugno, n. 1.
[1] Lettera Ad Antonio Fortunato Stella, 13 settembre
1826. Per l’epistolario si è consultata l’edizione Giacomo Leopardi,
Tutte le opere, con introduzione e a
cura di Walter Binni, con la collaborazione di Enrico Ghidetti, Firenze, 19896,
vol. I.
[2] Nello specifico: Lettera
ai compilatori della Biblioteca Italiana: scritta a Recanati il 7 maggio
1816 e pubblicata postuma; Della fama di
Orazio presso gli antichi: il discorso fu pubblicato con un titolo
leggermente diverso (Della fama avuta da
Orazio presso gli antichi) il 15 dicembre 1816 nello «Spettatore italiano»;
Discorso di un italiano intorno alla
poesia romantica: scritto tra il marzo e l’agosto del 1818 in risposta alle Osservazioni del cavalier Lodovico di Breme
sulla poesia moderna (stampate nelle edizioni del 1 e del 15 gennaio 1818
dello «Spettatore italiano»), fu edito postumo nel 1906. Per i saggi si è
utilizzata l’edizione: Giacomo Leopardi, Tutte le opere cit.
[3] Per lo Zibaldone
di pensieri si è tenuta presente l’edizione critica e annotata a cura di
Giuseppe Pacella, Milano, 1991, voll. III.
[4] La riflessione è contenuta nel saggio Della fama avuta da Orazio presso gli
antichi, pubblicato nello «Spettatore italiano» del 15 dicembre 1816: «E
chi farà matura considerazione sopra i Lirici e gli Epici di ciascun popolo,
verrà chiaro che i secondi tengono d’ordinario nella comune estimazione piú
alto grado che i primi, non solo perché la perfezione, se è sí difficilissima e
necessaria in ogni genere di poesia, difficilissima e necessarissima è nella
lirica; ma ancora perché il volgo (e quando dico volgo, intendo non la plebe,
ma la massima parte de’ letterati, arbitra della fama degli Scrittori) suol
dare piú sublime luogo all’epica che alla lirica poesia. Il Petrarca, che appo
noi sta degnissimamente allato dell’Ariosto e del Tasso, è raro esempio, né la
sua maniera di poesia può confondersi con quella di Orazio.» (Si cita
dall’edizione Binni-Ghidetti, vol. I, pp. 894-895). Anteriore di alcuni mesi è
un altro richiamo a Petrarca e ai suoi celeberrimi versi su Omero «questo cantò
gli errori e le fatiche / del figliuol di Laerte e d’una diva, / primo pintor
delle memorie antiche.» (Trionfo della Fama III, 13-15) a sostegno
dell’inutilità di tradurre nuovamente i poeti greci come pubblicizzato dalla
«Biblioteca italiana», e alla quale Leopardi aveva inoltrato una lettera di
protesta, datata 7 maggio 1816, mai pubblicata dalla rivista. Le traduzioni
erano per il recanatese doverose nel Trecento, quando i poeti greci,
soprattutto Omero, non erano conosciuti dalla maggior parte dei letterati
italiani ignoranti del greco, ma non ai suoi tempi dove pregevoli traduzioni
erano già state eseguite e talvolta in maniera cosí mirabile (l’Illiade
del Monti) che difficilmente sarebbero state superate da quelle annunciate di
Bernardo Bellini.
[5] Vedi Zib. 3-4: «Il quattrocento restò dal fare, ma conservava l’idea del bello
incorrotta; però benché non facesse, pure apprezzava il fatto anzi lo cercava:
quindi l’infinito studio de’ Classici e l’erudizione dominante nel secolo. Il
cinquecento col capitale acquistato nel 400 e coll’istradamento del 300 tornò a
fare. Ma il seicento perché era non debole ma corrotto, non solamente non sapea
far bene, ma disprezzava il ben fatto anzi gli dispiacea. Quindi la
dimenticanza di Dante del Petrarca ec. che non si stampavano piú. Nel principio
del settecento ripigliammo non le forze, ma solo il buon gusto e l’amore degli
studi classici, e la prima metà di questo secolo somiglia però al quattrocento,
né si fa molto conto di quest’epoca di risorgimento perché non produsse (come
il 400) nessun lavoro d’arte […] Ricadute le nostre lettere (nella imitazione e
studio degli stranieri) son comparsi nella seconda metà del 700 e principio
dell’800 i nostri ultimi lavori d’arte. Questi sono di quegli scrittori che
nella corruzione si conservano illesi, non possono essere stimati da molti ec.
Ma adesso l’arte è venuta in un incredibile accrescimento, tutto è arte e poi
arte, non c’è piú quasi niente di spontaneo, la stessa spontaneità si cerca a
tutto potere ma con uno studio infinito senza il quale non si può avere, e
senza il quale a gran pezza l’aveano (spezialmente nella lingua) Dante il
Petrarca l’Ariosto ec. e tutti i bravi trecentisti e cinquecentisti. Questo
avviene perché ora si viene da un tempo corrotto […] e poi quella dei tempi
passati, perché adesso conosciamo tutti i vizi delle arti e ce ne vogliamo
guardare, e non siamo piú semplici come erano i greci e i latini e i
trecentisti e i cinquecentisti perché siamo passati pel tempo di corruzione e
siamo divenuti astuti nell’arte, e schiviamo i vizi con questa astuzia e
coll’arte non colla natura come faceano gli antichi i quali senza saperne piú
che tanto pure perché l’arte era in sul principio e non ancora corrotta non gli
schivavano ma non ci cadevano. Erano come fanciulli che non conoscono i vizi,
noi siamo come vecchi che li conosciamo ma pel senno e l’esperienza gli
schiviamo. E però abbiamo moltissimo piú senno e arte che gli antichi, i quali
per questo cadevano in infiniti difetti (non conoscendoli) in cui adesso non
cadrebbe uno scolaro. Vizi d’Omero concetti del Petrarca, grossezze di Dante,
seicentisterie dell’Ariosto del Tasso del Caro traduzione dell’Eneide ec. E
però adesso le nostre opere grandi (pochissime perché ancora siamo nella
corruzione onde pochissimi emergono) saranno tutte senza difetti,
perfettissime, ma in somma non piú originali, non avremo piú Omero Dante
l’Ariosto. Esempio manifesto del Parini Alfieri Monti ec.» Nei pensieri
1056-1059 il recanatese ritorna nuovamente sulla forma imperfetta della
letteratura italiana moderna rispetto a quella latina e greca allargando il
discorso ai generi dove anche Petrarca non può essere considerato un perfetto
poeta sentimentale quanto piuttosto un poeta autobiografico: «Ora lascerò stare che in quelle medesime parti di
letteratura che piú soprastanno, e piú furono coltivate in Italia; in quelle
medesime dove noi primeggiamo su tutti i forestieri, la nostra letteratura è
ben lungi ancora dalla perfezione e raffinatezza della greca e latina, che in
queste tali parti sono, e furon prese effettivamente a modelli, da’ nostri
scrittori: e per conseguenza propriamente parlando, sono ancora imperfette. Ma
la nostra eloquenza, e piú la nostra filosofia (e nella filosofia trovava
povera la lingua latina Lucrezio) non sono solamente imperfette, ma neppure
incominciate. Quanti altri generi di letteratura, (prendendo questa parola nel
piú largo senso), e di poesia come di prosa, o ci mancano affatto, o sono in
culla, o sono difettosissimi! Lasciando gl’infiniti altri, la lirica italiana,
quella parte in cui l’Italia, a parere del Verri (Pref. al Senof. del
Giacomelli), e della universalità degl’italiani, è senza emola, eccetto
il Petrarca che spetta piuttosto all’elegia, chi può mostrare all’Europa senza
vergogna? Gli sforzi del Parini (veri sforzi e stenti, secondo me) mostrano e
quanto ci mancasse, e quanto poco si sia guadagnato.»
[6] Vedi Zib. 392-393: «Oltre il progresso dei lumi esatti; dello studio e imitazione degli
esemplari tanto nazionali che antichi; della regolarità della lingua, dello
scrivere e della poesia ridotti ad arte ec. un’altra gran cagione dell’estinguersi
che fece subitamente l’originalità vera e la facoltà creatrice nella
letteratura italiana, originalità finita con Dante e il Petrarca, cioè subito
dopo la nascita di essa letteratura, può essere l’estinzione della libertà, e
il passaggio dalla forma repubblicana, alla monarchica, la quale costringe lo
spirito impedito, e scacciato o limitato nelle idee e nelle cose, a rivolgersi
alle parole. Il cinquecento fu, si può dir, tutto monarchico in Italia e fuori,
quanto al governo. E le lettere italiane risorsero dal sonno del quattrocento,
sotto Cosimo e Lorenzo de’ Medici fondatori della monarchia toscana e
distruttori di quella repubblica. E in questo risorgimento (come poi sotto Leon
X) le lettere presero una forma regolare, una forma tutta diversa da quella del
trecento, e (quel che è piú) da quella che sogliono sempre prendere nel loro
risorgimento o nascere. La letteratura italiana non è stata piú propriamente
originale e inventiva. L’Alfieri è un’eccezione, dovuta al suo spirito libero,
e contrario a quello del tempo, e alla natura de’ governi sotto cui visse.»
Confronta poi a questo proposito le stanze 11 e 12 di Ad Angelo Mai (vv. 151-180): «Da te fino
a quest’ora uom non è sorto, / O sventurato ingegno, / Pari all’italo nome,
altro ch’un solo, / Solo di sua codarda etate indegno / Allobrogo feroce, a cui
dal polo / Maschia virtú, non già da questa mia / Stanca ed arida terra, /
Venne nel petto; onde privato, inerme, / (Memorando ardimento) in su la scena /
Mosse guerra a’ tiranni: almen si dia / Questa misera guerra / E questo vano
campo all’ire inferme / Del mondo. Ei primo e sol dentro all’arena / Scese, e
nullo il seguí, che l’ozio e il brutto / Silenzio or preme ai nostri innanzi a
tutto. // Disdegnando e fremendo, immacolata / Trasse la vita intera, / E morte
lo scampò dal veder peggio. / Vittorio mio, questa per te non era / Età né
suolo. Altri anni ed altro seggio / Conviene agli alti ingegni. Or di riposo /
Paghi viviamo, e scorti / Da mediocrità: sceso il sapiente / E salita è la
turba a un sol confine, / Che il mondo agguaglia. O scopritor famoso, / Segui;
risveglia i morti, / Poi che dormono i vivi; arma le spente / Lingue de’
prischi eroi; tanto che in fine / Questo secol di fango o vita agogni / E sorga
ad atti illustri, o si vergogni.»
[7]Precisa Leopardi in Zib. 59-60 che la
perfezione di alcuni versi del Petrarca è stata riconosciuta ed esaltata anche
da Alfieri il quale pose ad epigrafe della Virginia
i versi 136-137 del Trionfo della
Pudicizia: «Quella miserabile lussuria di epiteti, sinonimi, riempiture,
chevilles, ec. che forma il comunissimo orpello de’ nostri classici
cinquecentisti (e credo anche del Poliziano) però non paragonabili ai latini ma
piú ai greci quanto allo stile, non si trova o piú rara assai in Dante e nel
Petrarca dove anzi trovi una misuratezza infinita di parole e castigatezza di
ornati e significazione conveniente e opportunità di tutte le voci ec. come in
quello del Petrarca messo dall’Alfieri avanti alla sua Virginia: Virginia
appresso al fero padre armato Di disdegno di ferro e di pietate. Trionfo
Castità. Cosí anche le rime del Petrarca sono molto piú spontanee, e con ciò
tutto quello che dipende nel verso dalla necessità della rima che alle volte fa
aggiungere intieri versi che si potrebbono torre di netto ec. come nei
cinquecentisti.»
[8] Vedi Zib. 695-696: «Collo studio, e la giusta applicazione delle norme greche e latine, lo
stile del cinquecento generalmente aveva acquistato tal nobiltà e dignità, e
tant’altra copia di pregi, che quasi era venuto alla perfezione, eccetto
principalmente una certa oscurità ed intralciamento, derivante in gran parte
dalla troppa lunghezza de’ periodi, e dalla troppa copiadelle figure di dizione, e dall’eccessivo ed
eccessivamente continuato concatenamento delle sentenze; vizio tutto proprio di
quel secolo, il quale voleva forse con ciò dare al discorso quella gravità che
ammirava ne’ latini, ma che si doveva conseguire con altri mezzi (quali sono
quegli altri molti che lo stesso secolo ha ottimamente adoperati) […]»; Zib.
698: «Secondariamente il pregio letterario del cinquecento è meno conosciuto, e
stimato assai meno del vero, perché non si conosce la somma e singolare
ricchezza di quel secolo. Eccetto gli scrittori toscani registrati in buona
parte dalla Crusca fra’ testi di lingua, e perciò ricercati per farne serie, e
per lusso, e simili motivi, e ristampati per uso di lingua, gli altri toscani,
non adoperati dall’antica Crusca, e la massima parte de’ cinquecentisti non
toscani, non sono letti quasi da nessuno, conosciuti di pregio da pochissimi
dotti, di nome solo da pochissimi altri, e ignorati di nome e di tutto dalla
moltitudine dei letterati, da tutto il resto degli odierni italiani, e da tutti
quanti gli stranieri. […]»; Zib. 1385-1386: «Ora una lingua senza prosa, come può dirsi
formata? La prosa è la parte piú naturale, usuale, e quindi principale di una
lingua, e la perfezione di una lingua consiste essenzialmente nella prosa. Ma
il Boccaccio primo ed unico che applicasse nel 300 la prosa italiana alla
letteratura, senza la quale applicazione la lingua non si forma, non può servir
di modello alla prosa. E notate ancora che dunque il Boccaccio ch’era pure sí
grande ingegno, scrivendo dopo i 2 grandi maestri sopraddetti, e dopo tanti
altri prosatorelli italiani, s’ingannò di grosso intorno alla stessa indole
della lingua italiana, intorno alla forma che le conveniva applicandola alla
letteratura, vale a dire insomma alla sua forma conveniente, o le ne diede una
ch’ella ha poi del tutto abbandonata, e che le divenne subito affatto
sconveniente. Dunque la lingua italiana, almeno quanto alla prosa, ch’è il
principale, non era ancora formata; il Boccaccio non valse a formarla, anzi
errò di gran lunga. Come dunque la lingua italiana fu formata dai detti tre?
come fu formata nel 300. se il principale prosatore italiano di quel secolo, e
l’unico che appartenga alla letteratura, non conobbe la sua forma conveniente,
e se non può servire di modello a veruna prosa?»
[9]Zib. 2578-2579: «La lingua latina ebbe un modello d’altra lingua regolata, ordinata, e
stabilita, su cui formarsi. Ciò fu la greca, la quale non n’ebbe alcuno. Tutte
le cose umane si perfezionano grado per grado. L’aver avuto un modello, al
contrario della lingua greca, fu cagione che la lingua latina fosse piú
perfetta della greca, e altresí che fosse meno libera. […] Cosí è accaduto alla
lingua italiana. La ragione è ch’ella fu molto e da molti scritta nel 300,
secolo d’ignoranza, e che anche allora fu applicata alla letteratura in modo
sufficiente per far considerare quel secolo come classico, dare autorità a
quegli scrittori, presi in corpo e in massa, e farli seguire da’ posteri. […]
Ma quel secolo ignorante non conosceva la greca, pochissimo la latina, massime
la latina buona e regolata. […] Quei pochi che conobbero un poco di latino,
scrissero con ordine piú ragionato, come fecero principalmente i frati,
Passavanti, F. Bartolommeo, Cavalca ec. Dante, e piú ancora il Petrarca e il
Boccaccio che meglio di tutti conoscevano il buono e vero latino, meno di tutti
aberrarono dall’ordine dialettico dell’orazione. Questi principalmente diedero
autorità presso i posteri a’ loro scrittori contemporanei, la massima parte
ignoranti, non solo di fatto, ma anche di professione laici e illetterati, e
che non pretendevano di scrivere se non per bisogno, come i nostri castaldi. I
quali abbondarono di sragionamenti, e disordini gramaticali d’ogni sorta.»
[10] Vedi Zib. 2694-2695: «Formata una volta una lingua illustre, cioè una lingua ordinata,
regolare, stabilita e grammaticale, ella non si perde piú finché la nazione a
cui ella appartiene non ricade nella barbarie. La durata della civiltà di una
nazione è la misura della durata della sua lingua illustre e viceversa. E
siccome una medesima nazione può avere piú civiltà, cioè dopo fatta civile,
ricadere nella barbarie, e poi risorgere a civiltà nuova, ciascuna sua civiltà
ha la sua lingua illustre nata, cresciuta, perfezionata, corrotta, decaduta e
morta insieme con lei. Il qual rinnuovamento e di civiltà e di lingua illustre,
ha, nella storia delle nazioni conosciute, o vogliamo piuttosto dire, nella
storia conosciuta, un solo esempio, cioè quello della nazione italiana. Perché
niuna delle altre nazioni state civili in antico, sono risorte a civiltà
moderna e presente, e niuna delle nazioni presentemente civili, fu mai civile
(che si sappia) in antico, se non l’italiana. Cosí niun’altra nazione può
mostrare due lingue illustri da lei usate e coltivate generalmente, (come può
far l’italiana) se non in quanto la nostra antica lingua, cioè la latina, si
diffuse insieme coi nostri costumi per l’Europa a noi soggetta, e fece per
qualche tempo italiane di costumi e di lingua e letteratura le Gallie, le
Spagne, la Numidia
(che non è piú risorta a civiltà) ec.». Confronta Zib. 3011-3014.
[11]Zib. 4120-4121: «Non solo, come ho detto altrove, nessun secolo barbaro si credette esser
tale, ma ogni secolo si credette e si crede essere il non plus ultra dei
progressi dello spirito umano, e che le sue cognizioni, scoperte ec. e massime
la sua civilizzazione difficilmente o in niun modo possano essere superate dai
posteri, certo non dai passati. V. la p. 4124. Cosí non v’è nazione né
popoletto cosí barbaro e selvaggio che non si creda la prima delle nazioni, e
il suo stato, il piú perfetto, civile, felice, e quel delle altre tanto
peggiore quanto piú diverso dal proprio.» Zib. 4124: «A proposito […]
della opinione avuta da tutti i secoli (e cosí dalle nazioni) anche i piú
barbari, di essere superiori in civiltà, in perfezione, anche in letteratura
(benché ignorantissimi), a tutti i secoli precedenti, e a ciascun d’essi, anche
civilissimo e letteratissimo, vedi un bel luogo del Petrarca, citato e tradotto
elegantemente da Perticari nel Trattato degli Scrittori del 300, lib.1.
capit.16. p.92.93.»
[12] Vedi Zib. 1284-1285: «Ma anche senza considerare nei primitivi alfabeti, o alfabeto, veruna
imperfezione, ripeto che l’applicare le parole pronunziate ai segni allora
inventati, dovè necessariamente patire le stesse difficoltà, che si patiscono
nel discendere dalla teorica alla pratica. Osserviamo i fanciulli che
incominciano a scrivere, ancorché sappiano ben leggere; ovvero gl’ignoranti che
sanno però ben formare tutte le lettere, e scrivono sotto la dettatura. Quanti
spropositi derivati dalla poca pratica che hanno di applicare quel tal segno a
quel tal suono, e di analizzare la parola che odono, risolvendola ne’ suoni
elementari, per applicare a ciascun suono elementare il suo segno. […]. Appena
riescono essi a copiar bene, cioè trasferire non da suono a segno, ma da segno a
segno. Cosí i fanciulli principianti di scrittura, se hanno da scrivere sotto
dettatura, o scrivere senza esemplare sotto gli occhi, quelle parole che
pensano. Cosí anche gli uomini fatti, e che sanno ben parlare, ma non avvezzi a
scrivere o leggere, ommettono, traslocano, cambiano, aggiungono tante lettere,
fanno la loro parola scritta cosí diversa dalla parlata, ch’essi stessi si
vergognerebbero di pronunziar la loro scrittura nel modo in cui ella giace. Ma
essi credono che corrisponda alla pronunzia. […] Lo scrittore che scrive
traslatando nella carta le parole che la mente gli suggerisce, scrive sotto la
sua propria dettatura. Quanto dunque dovè tardare prima di perfezionarsi nel
rappresentare con segni ciascun suono che concepiva! E gl’infiniti errori
prodotti dalla necessaria imperizia de’ primi scrittori, dovettero perpetuarsi
in gran parte nelle scritture, e confondere e guastare non poche parole, le
loro forme, i loro significati, ec.» Zib. 1659: «L’italiana e la
spagnuola sono in ciò le piú perfette fra le moderne, forse perché furono
coltivate prima delle altre, e passarono in mano delle persone istruite, quando
erano ancor molli, e prima che il modo di scriverle fosse già determinato
dall’uso quotidiano degl’ignoranti e negligenti. L’ortografia italiana era
molto imperfetta, com’è naturale, ne’ trecentisti, e nello stesso Dante,
Petrarca ec.» Confronta Zib. 1660, 2460-2462, 4417.
[13] Vedi Zib. 321-322: «Una delle prime cagioni della universalità della lingua francese, è la
sua unicità. Perché la lingua italiana (cosí sento anche la tedesca, e forse
piú) è piuttosto un complesso di lingue che una lingua sola, potendo tanto
variare secondo i vari soggetti, e stili, e caratteri degli scrittori ec. che
quei diversi stili paiono quasi diverse lingue, non avendo presso che alcuna
relazione scambievole. Dante - Petrarca e Parini ec. Davanzati - Boccaccio,
Casa ec. […]. Dal che come seguono infiniti e principalissimi vantaggi, cosí
anche parecchi svantaggi. 1. che lo straniero trova la nostra lingua difficilissima,
e intendendo un autore, e passando a un altro, non l’intende. (Cosí nei greci)
2. che potendosi scrivere o parlare italiano senza essere elegante ec. ec. ec.
lo scrittore italiano volgare scrive ordinariamente malissimo; cosí il parlatore
ec. Al contrario del francese, dove la strada essendo una, e chiusa da parte e
parte, non parla francese chi non parla bene; e perciò quasi tutti i francesi
scrivono e parlano elegantemente, ma sempre di una stessa eleganza, e quanto al
piú e il meno, le differenze sono cosí piccole, che se i francesi le sentono
nei loro diversi scrittori, agli esteri son quasi impercettibili. Laddove le
differenze de’ buoni stili italiani, saltano agli occhi di chicchessia. Cosí
anche dei greci.». In precedenza, sempre in tema di lingua universale, Leopardi
aveva indicato come una delle caratteristiche delle lingue greca e
italianala comune facoltà di
costruire sempre nuovi vocaboli ed espressioni che la rendono vastissima tanto
da permettere ad ogni scrittore di scegliersi una lingua caratterizzante,
portando ad esempio la diversità delle lingue di Dante e dell’Alfieri se
paragonate a quelle del Petrarca. Vedi Zib. 243-245: «L’universalità di una lingua deriva
principalmente, dalla regolarità geometrica e facilità della sua struttura,
dall’esattezza, chiarezza materiale, precisione, certezza de’ suoi significati
ec. cose che si fanno apprezzare da tutti, essendo fondate nella secca ragione,
e nel puro senso comune, ma non hanno che far niente colla bellezza, ricchezza
(anzi la ricchezza confonde, difficulta, e pregiudica), dignità, varietà,
armonia, grazia, forza, evidenza, le quali tanto meno conferiscono o importano
alla universalità di una lingua […] La lingua greca sebbene ricchissima ec. ec.
ec. tuttavia era semplicissima nella sua nativa costruzione, […] laddove la
latina era estremamente figurata, e la proprietà de’ suoi composti le dava una
facilità e precisione materialissima di significati, sebbene nuocesse non poco
alla varietà la quale non può risultare dalla copia de’ composti ma delle
radici, come nel latino e italiano. […] La lingua greca benché ricchissima
nondimeno con un piccolo vocabolario può comporre tutto il discorso, e questi
vocabolari possono esser molti e diversi, cosa dimostrata dal fatto, e dal
vedersi negli scrittori greci piú che in quelli d’altra lingua, che la facilità
acquistata nel leggere e intendere uno scrittore, non vi giova interamente nel
passare a un altro, dovendovi quasi familiarizzare con un altro linguaggio.
Questo appartiene esclusivamente alla lingua, ma anche bisogna notare che la
lingua greca come l’italiana, si presta a ogni sorta di stili, e non ha
carattere determinato, ma lo riceve dal soggetto e dallo scrittore, laonde il
suo carattere varia, anche in questo senso, e per questo motivo, secondo le
diverse opere, come la lingua di Dante o dell’Alfieri paragonata con quella del
Petrarca ec.» Leopardi dedica molti pensieri alla possibile costituzione di una
lingua universale, elaborando una propria teoria che ha anticipato la
discussione moderna sulla possibilità di una lingua unica per la comunicazione
tra diverse etnie. A titolo d’esempio, vedi sull’argomento le opere di Stefano Gensini, a partire dal saggio Leopardi filosofo del linguaggio e la
tradizione italiana in Leopardi e il
pensiero moderno, a cura di Carlo Ferrucci, Milano, 1989, pp. 182-198.
[14] Vedi Zib. 1481-1486: «I cattivi parlatori e i trascurati scrittori, sono dunque secondo me, le
prime e principali origini dei sinonimi in qualunque lingua. […] Anche gli
scrittori eleganti, e massime i poeti furono in causa di questo effetto: perché
l’eleganza consiste nel pellegrino e diviso dal volgo; e quindi gli usi
metaforici, quindi gli ardiri, le inversioni di significato ec. ec. che messe
in uso dagli scrittori eleganti, passarono poi col tempo a prender luogo di
proprietà, scacciando le proprietà primitive, e confondendo il significato
delle parole proprie, con quello delle parole usate metaforicamente o in
qualunque altro modo, nello stesso senso. Anche i parlatori eleganti o affettati
sono da considerarsi in questo proposito. Queste osservazioni spiegano il
perché sia sempre maravigliosa, e caratteristica negli antichi scrittori la
proprietà della favella. Ciò non avviene di gran lunga perch’essi fossero piú
diligenti. […] Ma l’esser gli scrittori antichi piú vicini alle prime
determinazioni de’ significati e formazioni delle parole, e il formarne essi
stessi, non per lusso, che gli antichi non conoscevano, ma per bisogno, o per
utile, fanno ch’essi si riguardino e siano veri modelli della proprietà delle
voci e dei modi. E infatti la diligenza che vien dall’arte come pur la produce,
è in ragione inversa dell’antichità. Ora la proprietà degli scrittori è in
ragion diretta; e Plauto e Terenzio e gli altri antichi latini i piú rozzi, sono
tanto piú propri quanto meno eleganti di Cicerone. Cosí i trecentisti
ignorantissimi, rispetto ai cinquecentisti ec. Dante rispetto al Petrarca e al
Boccaccio ec. […] Posto dunque che una parola non è mai o quasi mai sinonima di
un’altra della stessa lingua primitivamente, e che le parole non divengono
sinonime se non col tempo, e a causa principalmente sí degli scrittori eleganti
e de’ poeti, sí molto piú de’ cattivi scrittori e parlatori; ne segue che
siccome tutte le lingue, eccetto le primitive, derivano da corruzione di altre
lingue, e sono loro posteriori nel tempo ec. cosí le lingue figlie generalmente
parlando denno abbondare di veri ed effettivi sinonimi piú delle rispettive
madri. Cosí appunto è avvenuto all’italiana rispetto alla latina, sua madre. I
sinonimi esistono realmente nella lingua italiana, vi esistono fin da principio
(benché da principio non tanti): la lingua italiana ha, non deve negarsi,
verissimi sinonimi, e ne ha in grandissima copia, forse piú che altra lingua
colta; e ne ha piú assai che non n’ebbe la buona latina. Tutte le lingue
moderne colte, generalmente parlando, hanno assai piú sinonimi veri e perfetti
che le lingue antiche. Effetto del tempo che distrugge a poco a poco le piccole
e sfuggevoli differenze fra i significati di parole, che tuttavia non furono
inventate per lusso, ma per vera utilità. Nessuna o quasi nessuna nuova parola
che si venga oggi formando e introducendo nelle diverse lingue, è sinonima di
altre che già vi si trovino. […] Ciò mostra che i sinonimi non sono mai tali da
principio, e che la sinonimia non è primitiva. Ma le parole che già da gran
tempo appartengono a ciascuna lingua, o appartenessero alle loro madri, o no,
son divenute, e divengono di mano in mano sinonime, e tali diverranno anche
molte recentissimamente formate: e ciò massimamente per la trascuranza del
favellare e scrivere, e per l’abuso, che siamo forzati di chiamar uso, e
riconoscerlo per padrone legittimo.»
[15] Le Osservazioni
furono pubblicate nello «Spettatore italiano» in due puntate, il 1 e il 15
gennaio 1818.
[16] Leopardi, per nulla d’accordo con le tesi sostenute
dal cavaliere spedí all’editore Stella in due riprese (datate marzo e agosto
1818) le proprie confutazioni, che intitolò Discorso
di un italiano intorno alla poesia romantica. L’editore non le pubblicò e
solo nel 1906 potettero essere lette dai critici. Aggiungiamo qui che Leopardi
cita la figura di Petrarca anche in altri articoli‑saggi quali La lettera ai compilatori della Biblioteca
Italiana scritta in risposta all’annuncio dato dalla rivista di un’edizione
complessiva di traduzione italiana di tutti i poeti greci e latini curata da
Bernardo Bellini. La risposta, datata 7 maggio 1816 e mai pubblicata dalla
Redazione, contiene i motivi di dissenso del recanatese, dove tra l’altro nota
che se era lecito tradurre i versi antichi nel Trecento, quando Petrarca
chiamava Omero «Primo pintor delle memorie antiche» (Trionfo della fama III, v. 14), oggi è solo una moda deleteria a
quella poesia. (Binni-Ghidetti, vol. I, p. 877). Nel saggio Della fama avuta da Orazio presso gli
antichi, pubblicato nello «Spettatore italiano» del 15 dicembre 1816,
Leopardi invece riflette sulla fortuna che l’opera poetica di Petrarca ha
goduto presso i lettori: paragonandola alla sorte che ebbe quella di Orazio
rispetto all’epica di Virgilio, indica l’epica come genere preferito dai
lettori, mentre la poesia sentimentale si affermerebbe solo come caso
eccezionale, appunto quello di Petrarca che convisse con gli epici Ariosto e
Tasso. (Binni-Ghidetti, vol. I, p. 877).
[17] Si cita il Discorso
di un italiano intorno alla poesia romantica, nell’edizione Binni-Ghidetti,
vol. I, p. 923 «Sto a vedere che per iscriver cose da contemporanei, non da
bisavoli, dovranno adattarsi alla depravazione e comporre piuttosto da barbari
che da vecchi, e che nel seicento, come faceva benissimo l’Achillini quando
esclamava, “Sudate, o fochi, a
preparar metalli”, cosí operava pessimamente il Menzini, quando e
fuggiva con ogni studio quello che il suo tempo cercava […] Sto a vedere che si
portarono pedantescamente e da sciocchi il Gravina e il Maffei e gli altri che
coll’opera e cogli scritti loro cacciarono finalmente quella peste dall’Italia,
ed operarono che si tornasse a leggere e stampare Dante e il Petrarca i quali
non erano né contemporanei né confacenti al gusto di quell’età. Crediamo noi
che non ci avesse anche allora chi gridasse che quello era il gusto moderno, e
quell’altro un gusto da passati, e beffasse la gente sana come abbietta e
schiava e superstiziosa, e divota dell’anticaglie, e vaga della ruggine e della
muffa, e ghiotta dello stantío?»
[18]Discorso…,
p. 931: «E qui non voglio compiangere l’età nostra, […] né pronosticare dei
tempi che verranno quello che l’esperienza dei passati e del presente dimostra
purtroppo chiaro, che qualunque sarà poeta eccellente somiglierà Virgilio e il
Tasso, non dico in ispecie ma in genere; un Omero un Anacreonte un Pindaro un
Dante un Petrarca un Ariosto appena è credibile che rinasca.»
[19]Discorso…,
p. 932: «L’osservanza cieca e servile delle regole e dei precetti, l’imitazione
esangue e sofistica, in somma la schiavitú e l’ignavia del poeta, sono queste
le cose che noi vogliamo? sono queste le cose che si vedono e s’ammirano in
Dante nel Petrarca nell’Ariosto nel Tasso? dei quali, e massimamente dei tre
primi, è stato detto mille volte che sono e similissimi agli antichi, e
diversissimi.»
[20] E in Zib. 205 ribadirà che Ossian, seppure
traduca in versi le stesse disgrazie e gli stessi dolori dell’uomo, e la stessa
frivolezza delle cose che cantarono i greci con Omero, i latini con Virgilio e
gli italiani con Petrarca, è meno malinconico, meno coinvolgente, immerge in
minor grado «l’anima in un abisso di
pensieri indeterminati de’ quali non sa vedere il fondo né i contorni» (Zib.
170) non perché la sua poesia nasca dalla filosofia, dalla razionalità, ma a
causa del clima, della terra settentrionale in cui nacque, che influenza,
secondo Leopardi, anche la poesia di Byron che dopo averla letta l’ha lasciato
«freddissimo, e senza entusiasmo nessuno» (Zib. 262).
[21]Discorso…,
p. 935: «Ma il Petrarca, al quale il Breme non
conosce poeta che nel genere sentimentale meriti di essere anteposto, quel miracolo d’ineffabile sensibilità,
non visse in un tempo che non c’era né psicologia né analisi né scienza altro
che misera e tenebrosa, quando la stampa era ignota, ignoto il nuovo mondo, il
commercio scambievole delle nazioni e delle province ristretto e scarso e
difficile, l’industria degli uomini addormentata da piú secoli in poi, le
credenze peggio che puerili, i costumi aspri, quasi tutta l’Europa o barbara o
poco meno? […] quando quello stesso secolo che produsse in Dante il secondo
Omero, produsse nel Petrarca il maraviglioso l’incomparabile il sovrano poeta
sentimentale, chiamato cosí non dico dai nostri ma dai romantici.»
[22]Discorso…,
p. 939: «Ma quel ridurre pressoché tutta la poesia ch’è imitatrice della
natura, al sentimentale, come se la natura non si potesse imitare altrimenti
che in maniera patetica; come se tutte le cose rispetto agli animi nostri
fossero sempre patetiche; […] come se non ci fosse piú gioia non ira non
passione quasi veruna, non leggiadria né dolcezza né forza né dignità né
sublimità di pensieri, non ritrovato né operazione veruna immaginativa senza un
colore di malinconico; questa cosa con che nome si deve chiamare? Dunque le
cetre dei poeti avranno per l’avvenire una corda sola? e ciaschedun poema
assolutamente e tutti rispettivamente saranno unisoni? dunque non ci saranno
epopee, non canzoni trionfali, non inni non odi non canti di nessuna sorta se
non patetici? […] Ma che diremo dei cantori passati? Dunque Virgilio non fu
poeta fuorché nel quarto dell’Eneide, e nell’episodio di Niso ed Eurialo, e che
so io? Dunque il Petrarca dove non parlò d’amore non fu poeta?»
[23]Discorso…,
p 945: «vedo negletti e avuti a schifo i nostri sovrani scrittori, e i greci e
i latini antecessori nostri, e accolte, e ingozzate ghiottissimamente, e lodate
e magnificate quante poesie quanti romanzi quante novelle quanto sterco
sentimentale e poetico ci scola giú dalle alpi e c’è vomitato sulle rive dal
mare; vedo languido e pressoché spento l’amore di questa patria: vedo gran
parte degl’italiani vergognarsi d’essere compatriotti di Dante e del Petrarca e
dell’Ariosto e dell’Alfieri e di Michelangelo e di Raffaello e del Canova. Ora
chi potrebbe degnamente o piangere o maledire questa portentosa rabbia, per
cui, mentre i Lapponi e gl’Islandesi amano la patria loro, l’Italia, l’Italia
dico, non è amata, anzi è disprezzata, anzi sovente è assalita e addentata e
insanguinata da’ suoi figli?»
[24] Vedi Zib. 1209-1210: «Tutti coloro che non sanno il latino o il greco, di qualunque nazione
sieno, non sentono armonia veruna ne’ versi latini o greci, se pur non sono
assuefatti lungamente ad udirne per qualsivoglia circostanza, ed allora
notandone appoco [appoco] le minute parti, e le minute corrispondenze, e
relazioni, e regolarità, non si formano l’orecchio a sentirne e gustarne
l’armonia. Il qual processo è necessario anche a chi meglio intenda il latino
ed il greco. Il nostro volgo trova una certa armonia negl’inni ecclesiastici
ec. e nessuna ne troverebbe in Virgilio. Perché? perché gl’inni ecclesiastici
somigliano sí per la struttura, l’andamento e il metro, sí bene spesso per la
rima, ai versi italiani che il volgo pure è avvezzo a udire e cantare per le
strade. E poi, perch’egli è avvezzo ad udire appunto quei tali barbari versi e
metri latini. Un italiano assai colto, ma non avvezzo a legger poesia nostra,
leggendogli una canzone del Petrarca, mi disse quasi vergognandosi, che trovava
privo d’armonia quel metro, e che il suo orecchio non ne era punto dilettato.
Il qual metro somiglia a quello delle odi greche composte di strofe, di
antistrofe, e d’epodo, ed ha un’armonia cosí nobile e grave, ed atto alla
lirica sublime. Soggiunse ch’egli non sentiva il diletto dell’armonia fuorché
nelle ottave, e in qualcuno de’ nostri metri che chiamiamo anacreontici. Notate
ch’egli non aveva punto quell’orecchio che si chiama cattivo.»
[25] Vedi Zib. 2838-2839: «Onde accade che questi tali poeti e scrittori sappiano di familiare anche
ai posteri, quando le loro parole e forme, già divenute abbastanza lontane
dall’uso comune, hanno pure acquistato quel che bisogna ad essere
elegantissime, perloché già elle come tali s’adoprano dagli scrittori e poeti
della nazione, ne’ piú alti stili. Ma non essendo elle ancora eleganti a’ tempi
di que’ poeti e scrittori, questi dovettero assumere un tuono e uno stile
adattato a parole non eleganti, e un’aria, una maniera, nel totale, domestica e
familiare, le quali cose ancora restano, e queste qualità ancora si sentono,
come nel Petrarca, benché l’eleganza sia sopravvenuta alle loro parole e a’
loro modi che non l’avevano, com’è sopravvenuta, e somma, a quei del Petrarca.
Queste considerazioni si possono fare, e questi effetti si scorgono,
massimamente ne’ poeti, non solo perché gli scrittori primitivi di una lingua e
i fondatori di una letteratura sono per lo piú poeti, ma perché mancando ad
essi la detta materia dell’eleganza niente meno che a’ prosatori, questa
mancanza e lo stile familiare che ne risulta è molto piú sensibile in essi che
nella prosa, la quale non ha bisogno di voci o frasi molto rimote dall’uso
comune per esser elegante di quella eleganza che le conviene, e deve sempre
tener qualche poco del familiare. Quindi avviene che lo stile del Boccaccio,
benché familiare anch’esso, massime ad ora ad ora, pur ci sa meno familiare, e
ci rende piú il senso dell’eleganza e della squisitezza che quello del
Petrarca, e dimostra meno sprezzatura, ch’è però nel Petrarca bellissima. Cosí
è: la condizione del poeta e del prosatore in quel tempo, quanto ai materiali
che si trovano aver nella lingua, è la stessa (a differenza de’ tempi nostri
che abbiamo appoco appoco acquistato un linguaggio poetico tutto distinto): il
prosatore si trova dunque aver poco meno del suo bisogno, e quasi anche tanto
che gli basti a una certa eleganza: il poeta che non si trova aver niente di
piú, bisogna che si contenti di uno stile e di una maniera che si accosti alla
prosa.» Nei pensieri 3012-3014 Leopardi sottolinea come la ricerca del
peregrino per l’eleganza della lingua poetica non sia stata condotta dai poeti
nel bacino dei dialetti, e nei rari casi che avvenne come nei poemi di Dante,
questi non ebbero seguito se non nelle successive elaborazioni di Fazio degli
Uberti, autore del Dittamondo, di
Federico Frezzi, che compose il poema allegorico Quadriregio e del settecentesco Alfonso Varano da Camerino, autore
delle Visioni; ma certamente Petrarca
non considerò come esempio di raffinatezza quella lingua: «In verità i dialetti
particolari sono scarso sussidio e fonte al linguaggio poetico, e all’eleganza
qualunque. Lo vediamo noi italiani in Dante, dove le voci e inflessioni
veramente proprie di dialetti particolari d’Italia fanno molto mala riuscita,
né la poesia nostra, né verun savio tra’ nostri o poeti o prosatori ha mai
voluto imitar Dante nell’uso de’ dialetti, non solo generalmente, ma neppure in
ordine a quelle medesime voci e pronunzie o inflessioni da lui adoperate. […]
Il che non accadde a’ poemi di Dante, il quale non fu mai in Italia neppur
poeta di scuola, come Omero in Grecia presso i grammatisti medesimi, o
certo presso i grammatici (vedi il Laerz. del Wetstenio, tom. 2. p.583.
not. 5.); né il dialetto o linguaggio poetico italiano è o fu mai quello di
Dante. Dico generalmente parlando, e non d’alcuni pochi e particolari poeti,
suoi decisi imitatori, come Fazio degli Uberti, l’autore del Quadriregio
Federico Frezzi, ed alcuni dell’ultimo secolo, come il Varano. Neppur la lingua
del Petrarca è quella di Dante, né da lui fu presa, né punto si serve de’
particolari dialetti.» (Zib. 3012; 3014).
[26] V. 42 della canzone O
aspectata in ciel beata et bella. Vedi
Zib. 2508-2513; 2522: «Quanto poi
all’eleganza, quelle voci e modi, non essendo piú pellegrini, non sono piú
eleganti. Anzi non c’è cosa piú volgare e ordinaria di quelle voci e modi
forestieri. Come accade appunto in Italia oggidí, che non si può né parlare né
scrivere in un italiano piú volgare e corrente, che parlando e scrivendo in un
italiano alla francese. […] Perocché esse l’introducono ed influiscono
direttamente, non negli scritti de’ grandi letterati e degli uomini di vero e
raffinato buon gusto (come ho detto di quel primo barbarismo) ma nella favella
quotidiana, e da questa passa il barbarismo nei libri degli scrittorelli che
non istudiano, non sanno, non conoscono, e neanche cercano, né si vogliono
affaticare ad indagare altra lingua da quella che son soliti di parlare, e
sentire a parlar giornalmente, e non si saprebbero esprimere in altro modo, né
possiedono altre voci e forme di dire. […] Di piú formandosi a scrivere sui
soli o quasi soli libri stranieri divulgati nella loro nazione, non conoscono
altre voci, frasi, e maniere di stile, che quelle di que’ libri, o non si
vogliono impazzire a scambiarle coll’equivalenti nazionali, che non hanno punto
alla mano. E cosí imbrattano sempre piú la lingua e letteratura nazionale di
cose forestiere, anche oltre all’uso della favella ordinaria de’ loro
compatrioti. Introdotto cosí, e fondato e propagato in una lingua il barbarismo
per la seconda volta, la stessa sua propagazione lo rende inelegante al
contrario della prima volta. Perocché allora la lingua volgare non è quella che
si chiama cosí e ch’è veramente nazionale, ma è quella barbara e maccheronica
che si parla e scrive ordinariamente, e però chi scrive alla forestiera, scrive
volgarissimo, e quindi inelegantissimo. Dov’è da notare che allora il
barbarismo non è contrario all’eleganza come forestiero: ché anzi il forestiero
bene inteso da’ nazionali, e non affettato, è sempre elegante. Ma per l’opposto
è inelegante come volgare. […] Ecco che la purità della favella è divenuta
quasi sinonimo dell’eleganza della medesima: e questo con verità e con ragione,
ma non per altro, se non perch’essa purità è divenuta pellegrina. Cosí quelle
voci e modi che una volta perché familiari alla nazione non erano eleganti,
anzi fuggite dagli scrittori di stil nobile ed elevato, o che tali pretendevano
di essere; divengono già elegantissime e graziosissime perché da una parte si
riconoscono ancora facilmente per nazionali, e quindi sono intese subito da
tutti, come per una certa memoria fresca, e non riescono affettate, dall’altra
parte non sono piú correnti nell’uso quotidiano. E cosí anche le parole e
maniere una volta trivialissime e plebee nella nazione, aspirano all’onor di
eleganti, e lo conseguiscono, come si potrebbe mostrare per mille esempi di
voci e frasi individue. In somma oggi, p.e. fra noi, chi scrive con purità, scrive
elegante, perché chi scrive italiano in Italia scrive pellegrino, e chi scrive
forestiero in Italia scrive volgare. […]». «Spesso una parola è inelegante, o
(se si tratta di verso) impoetica in un senso, ed elegante e poetica in un
altro, solamente perché in quello è volgare, e in questo no, o poco
frequentemente usata. Come chi dicesse varii in poesia per diversi, parecchi,
non peccherebbe contro la buona lingua, avendovene molti esempi, e fra gli
altri del Tasso (Discorso sopra vari accidenti della sua vita), ma sarebbe poco
elegante, per esser questo significato della detta parola molto volgare e
familiare. Ma chi dicesse, come il Petrarca, VARIE di lingue e d’armi e de le
gonne, o come Virgilio Mille trahit VARIOS adverso sole colores, non s’allontanerebbe
punto dall’eleganza, per la ragione contraria. E notate ch’io non parlo
solamente de’ sensi metaforici, i quali possono render poetica una voce
usualissima, ed anche impoetichissima, ma parlo eziandio de’ significati
propri, come dimostra l’addotto esempio, o de’ poco meno che propri. E quel che
dico delle voci, dico delle frasi ec.»
[27]Zib. 497-499; 1916-1917: «Favella e favellare derivano
evidentemente da fabula e fabulari mutato al solito il b
in v, come da fabula diciamo pure favola; onde è come se
dicessimo fabella e fabellare. Qui non c’è niente di notabile o
strano: la cosa va da se, e sarà stata notata da tutti gli Etimologi. Ma che ha
da far la favella e il favellare col favoleggiare e colle favole? Qui appunto
consiste il singolare e l’osservabile in questa derivazione. Perocché l’antico
e primitivo significato di fabula, non era favola, ma discorso,
da for faris, quasi piccolo discorso, onde poi si trasferí al
significato di ciancia nugae, e finalmente di finzione e racconto
falso. […] Poi fu trasferito alla significazione di favola. Il detto
senso di fabula, fabulator, fabulo, fabulor, confabulor etc. è evidente
negli scrittori latini di tutti i buoni secoli, massime però ne’ piú antichi e
piú puri. […] Ma dopo, e massimamente ne’ bassi tempi il significato usuale e
comune di fabula nelle scritture non era altro che favola. E
tuttavia la nostra lingua ha ritenuto espressamente questa parola (la quale,
come ho detto, è la stessa nostra di favella) nel suo antichissimo,
primitivo e proprio valore. Certo non è andata a pescare questo significato
nelle antichissime memorie, e nei primi scrittori. Bisogna dunque che la detta
significazione tal qual era da principio sia pervenuta di mano in mano, e
conservata e continuata senza interruzione fino alla nascita e alle origini
della nostra lingua. Ora ciò non può essere stato se non per mezzo del volgo
latino; tanto piú che gli scrittori, quando anche avessero conservata in uso la
detta significazione sino all’ultimo, non avrebbero mai potuto essi soli comunicarla
al volgo, e renderla volgare, usuale, comune, propria e primitiva in una lingua
nascente, quando il significato piú comune di quella parola fosse stato un
altro.» «Molte parole che in una lingua sono triviali e volgari, molte
applicazioni o di parole o di frasi che in quel tal senso sono ordinarissime
nella lingua da cui si prendono, riescono elegantissime e nobilissime ec.
trasportandole in un’altra lingua, a causa del pellegrino. Questo è ciò che
accade a noi spessissimo trasportando nell’italiano, voci o frasi latine. […]
Se in latino sono comuni e plebee, in italiano possono essere del tutto divise
dal volgo e nobilissime. Elegantemente il Petrarca nel Proemio: Ma ben veggi’or
sí come al popol tutto / Favola fui gran tempo. E pur questa
frase potè ben essere molto, se non altro usitata, anche nel parlar latino,
dove sappiamo che fabulare, e fabula si adopravano comunemente
per parlare chiacchierare, giacché n’è derivato il nostro favellare
e favella. […] Ma favola in nostra lingua oggi non vuol dir
propriamente altro che novella falsa; ond’è che presa questa voce nel
detto senso riesce elegantiss. e di piú riceve presso noi un’intelligenza
quanto significativa, tanto diversa da quella che le davano i latini nella
frase simile, dove usurpavano fabula, per favella o ciancia.»
[29] Vedi Zib. 2864; 2891-2892: «Proprietà comune alle tre figlie della lingua
latina. Aggiungere pleonasticamente per idiotismo, e per proprietà di lingua
l’aggettivo plur. altri o altre ai pronomi plurali nos e vos.
Noi altri, voi altri; nous autres, vous autres;
nosotros, vosotros. Nel che l’italiano e il francese è libero di farlo o non farlo, lo
spagnuolo no ec. E presso i primi, massimamente i francesi, par che
quest’usanza sia del dir familiare. Ella è presso noi della scrittura
familiare, frequentissima nel discorso domestico, e quasi continua in quello
del volgo, come nello spagnuolo, quando voi ha significato veramente
plurale.» «È indubitato, secondo me, che quest’uso nacque dall’altra pessima
usanza, introdotta nel latino fin dai primissimi tempi dell’impero, di dar del voi
alle persone singolari. Onde è probabile che allora, o poco dipoi, o certo nel
volgar latino quando che sia, s’introducesse questo costume di aggiungere
l’aggettivo altri al voi e al noi (giacché il noi
anche negli ottimi tempi in latino e in greco, si usava in senso singolare)
quando questi pronomi avevano ad aver senso plurale, per distinguerli da quando
avevano ad averlo singolare. E cosí introdotto quest’uso nel volgar latino, passò
in tutte tre le lingue figlie. E con ragione; perché in esse ancora si
manteneva e si mantiene quell’altra pessima usanza che, secondo me, lo
produsse. Stante la quale, l’uso di questo idiotismo è quasi necessario per
evitar mille equivoci e dubbi sí nello scrivere, sí nel parlare, quando molte
persone sono presenti, o quando nello scrivere si suppongono ec.: […] Infatti
noi nel parlar familiare non lo abbandoniamo quasi mai, né gli spagnuoli lo
possono abbandonare. Ma anche gli spagnuoli tacciono l’otros se parlano
a persona singolare, o di se stessi singolarmente, ne’ quali casi dicono vos
e nos. Lo tacciono ancora quando il vos e il nos fa
ufficio delle nostre particelle o pronomi ci e vi, come nous
e vous in francese. Del resto in nessuna delle tre lingue si direbbe voi
altri o noi altri in senso singolare. È notabile che l’uso di nos
in senso singolare, fu piú proprio delle lingue antiche che delle moderne,
nelle quali anzi, quanto al parlare o allo scrivere familiare, a cui solo
spetta il noi altri, esso uso è intieramente abolito. Vedendosi dunque
che pur tutte tre queste lingue usano familiarmente questo idiotismo di noi
altri senza abbisognarne punto per distinzione, confermasi ch’esso
idiotismo derivi dalla lingua latina, la quale ne avea bisogno per distinguere
il nos plurale dal nos singolare.» In linea con il giudizio che le
locuzioni “noi altri”e “voi altri” sono proprie della lingua parlata o al
massimo della lingua scritta d’uso, Leopardi non le utilizza una sola volta nei
Canti.
[30] Vedi Zib. 3587: «Diciamo volgarmente e con eleganza scriviamo, senz’altro pensare,
senz’altro dire o fare, senz’altro preparativo, senz’altra cura senz’altro
curarsene e simili, per senza nulla pensare, senza niun preparativo, niuna cura
ec. Nelle quali frasi la voce altro ridonda, e s’usa per pleonasmo, venendo in
somma quelle locuzioni a dire senza pensare […], senza preparativo, cura, […]
senza curarsene ec. […] Or confrontisi questo mero idiotismo italiano, e
proprio tutto della lingua, e perciò elegante collo stessissimo idiotismo
usitato nella lingua greca ed attica da’ piú eleganti e studiati scrittori.» Continua
Leopardi che un altro uso superfluo di “altro” è quello preceduto
dall’aggettivo “ogni”, comunque elegante – come testimonia il verso
petrarchesco «la qual ogni altra salma» (canzone Perché
la vita è breve) – già citato ad esempio dai compilatori del
Vocabolario della Crusca (Confronta Zib. 3588). Il pleonasma
“ogni altro” viene usato da Leopardi varie volte nei Canti. Nel maschile: «Vano ogni
altro desir creduto avea.» (Il
primo amore, v. 78); «D’ogni altro
danno, accresce» (XXXIV, La ginestra,
121). Al femminile: «Oh
di costei ch’ogni altra gloria
vinse» (Sopra il monumento di Dante, v. 176); «Poi quando intorno è spenta ogni
altra face» (Il sabato del villaggio,
v. 31); «D’ogni altra
leggiadria» (XXVI, Il pensiero
dominante, v. 134); «Vo dove ogni altra cosa» (Imitazione, v. 10).
[31] I versi delle Rime
citati da Leopardi sono: il v. 38della
sestina A qualunque animale alberga in terra (ripetuto nei
pensieri 3902 e 4140), l’ultimo verso del sonetto Quando fra l’altre donne ad ora ad ora, il verso 82 della canzone Sí
è debile il filo a cui s’attene,
il verso 39 della canzone Lasso me, ch’i’
non so in qual parte pieghi. L’osservazione
linguistica è contenuta in Zib. 3004, 3902 e 4140: «Frequentissimo nell’italiano scritto, e piú nello
spagnuolo scritto e parlato si è l’uso del verbo andare, andar (non ir), in
senso di essere. Ecco Seneca tragico (ap. Forc. in eo is, col. 3. princip.),
Non ibo inulta. Notate che noi abbiam preso indubitatamente quest’uso dagli
spagnuoli (infatti esso è frequentissimo nei nostri secentisti con cento altri
spagnuolismi: nei 500 o 300isti, non si trova, ch’io mi ricordi, o mai o quasi
mai). E Seneca appunto è spagnuolo.» «Andare per essere del che altrove. Petr.
Sestina 1 verso penult. E ’l giorno andrà (sarà) pien di minute stelle Prima
ch’ec.» «Sí ch’io vo già della speranza altiero. Petr. Son. Quando fra l’altre
dame. V. anche Sestina A qualunque animale, v. penult. e Canz. Sí è debile il
filo, stanza 6. v.2 e Canz. Lasso me, st.4. v.9.»
[32] Vedi Zib. 29-30: «Chi mi chiedesse qual sia secondo me il piú eloquente pezzo italiano,
direi le due canzoni del Petrarca Spirto gentil ec. e Italia mia ec. se
concedessi qualche cosa al Tasso ch’era in verità eloquente, e principalmente
parlando di se stesso, ed eccetto il Petrarca, è il solo italiano veramente
eloquente. La sventura in gran parte lo fece tale, e l’occorrergli spessissimo
di difendersi ec. e in qualunque modo parlar di se, perch’io sosterrò sempre
che gli uomini grandi quando parlano di se diventano maggiori di se stessi, e i
piccoli diventano qualche cosa, essendo questo un campo dove le passioni e
l’interesse e la profonda cognizione ec. non lasciano campo all’affettazione e
alla sofisticheria cioè alla massima corrompitrice dell’eloquenza e della
poesia, non potendosi cercare i luoghi comuni quando si parla di cosa propria,
dove necessariamente detta la natura e il cuore, e si parla di vena, e di
pienezza di cuore. Onde quello che si dice della utilità derivante agli
scrittori dal trattare materie presenti, a miglior dritto si dee dire del
parlare di se stesso comunque paia a prima vista che il parlar di se non debba
interessar gran fatto gli uditori, cosa falsissima.»
[33] Vedi Zib. 60-61: «A ciò che ho detto in altro pensiero intorno all’eloquenza di chi parla
di se stesso si può aggiungere e l’esempio continuo di Cicerone che piglia
nuove forze ogni volta che parla di se come fa tuttora, e quello di Lorenzino
de’ Medici nella sua Apologia che Giordani crede il piú gran pezzo d’eloquenza
italiana e non vinto da nessuno straniero. Ora questo è un’Apologia di se
stesso. Ed è mirabile com’egli che scriveva per se e non poteva andar dietro
alle sofisticherie, abbia trasportata come un Atlante l’eloquenza greca e
latina tutta nel suo scritto dove la vedete viva e tal quale, e tuttavia vi par
nativa e non punto traslatizia con una disinvoltura negli artifizi piú fini
dell’eloquenza insegnati e praticati ugualmente dagli antichi, una padronanza
negligenza ec. cosí nello stile e condotta ordine ec. interno, come
nell’esterno, cioè la lingua ec. inaffettatissima e tutta italiana nella
costruzione ec. quando lo stile e la composizione e i modi anche particolari e
tutto è latino e greco. E ciò mentre gli altri miserabili cinquecentisti
volendo seguire la stessa eloquenza e maestri ec. come il Casa, facevano quelle
miserie di composizione di stile di lingua affettatissima e piú latina che
italiana. Onde i due soli eloquenti del cinquecento sono Lorenzino qui e il
Tasso qua e là per tutte le sue opere che ambedue parlano sempre di se e il
Tasso piú dov’è piú eloquente e bello e nobile ec. cioè nelle lettere che sono
il suo meglio. La migliore orazione di Demostene è quella per la corona.»
[34] Vedi Zib. 1573-1575: «Dice Cicerone […] che gli uomini di gusto nell’eloquenza non si appagano
mai pienamente né delle loro opere né delle altrui, e che la mente loro semper
divinum aliquid atque infinitum desiderat, a cui le forze dell’eloquenza
non arrivano. Questo detto è notabilissimo riguardo all’arte, alla critica, al
gusto. […] Osservo però che non solo gli studi soddisfanno piú di
qualunque altro piacere, e ne dura piú il gusto, e l’appetito ec. ma che fra
tutte le letture, quella che meno lascia l’animo desideroso del piacere, è la
lettura della vera poesia. La quale destando mozioni vivissime, e riempiendo
l’animo d’idee vaghe e indefinite e vastissime e sublimissime e mal chiare ec.
lo riempie quanto piú si possa a questo mondo. Cosí che Cicerone non avrebbe
forse potuto dire della poesia ciò che disse dell’eloquenza. Ben è vero che
questa è proprietà del genere, e non del poeta individualmente, e non deriva
dall’arte sua, ma dalla materia che tratta. Certo è che un poeta con assai meno
arte ed abilità di un eloquente, può lasciare un assai minor vôto nell’animo,
di quello che possa il piú grande oratore; e produr ne’ lettori quel sentimento
che Cicerone esprime, in assai minor grado.»
[35] Vedi Zib. 220-221: «La compassione spesso è fonte di amore, ma quando cade sopra oggetti
amabili o per se stessi, o in modo che aggiunta la compassione lo possano
divenire. E questa è la compassione che interessa e dura e si riaffaccia piú
volte all’anima. Maggiori calamità in un oggetto anche innocentissimo ma non
amabile, come in persona vecchia e brutta, non destano che una compassione
passeggera, la quale finisce ordinariamente colla presenza dell’oggetto, o
dell’immagine che ce ne fanno i racconti ec. (E l’anima non se ne compiace, e
non la richiama.) I quali ancora bisogna che sieno ben vivi ed efficaci per
commuoverci momentaneamente, laddove poche parole bastano per farci compatire
una giovane e bella, ancorché non conosciuta, al semplice racconto della sua
disgrazia. Perciò Socrate sarà sempre piú ammirato che compianto, ed è un
pessimo soggetto per tragedia. E peccherebbe grandemente quel romanziere che
fingesse dei brutti sventurati. Cosí il poeta ec. Il quale ancora in
qualsivoglia caso o genere di poesia, si deve ben guardare dal dar sospetto
ch’egli sia brutto, perché nel leggere una bella poesia noi subito ci figuriamo
un bel poeta. E quel contrasto ci sarebbe disgustosissimo. Molto piú s’egli
parla di se, delle sue sventure, de’ suoi amori sfortunati, come il Petrarca
ec.»
[36] Vedi Zib. 28: «Il Manfredi non ha altro che chiarezza e facilità e gentilezza ed
eleganza, senz’ombra ombra di forza in nessun luogo, sí che quando il soggetto
la richiede resta veramente compassionevole e misero e impotente come nelle
Quartine per Luigi XIV.[…] Nei Canti del Paradiso c’è mirabile chiarezza e
facilità di esprimere e di spiegare e dare ad intendere in versi
lucidissimamente e senza dare nel prosaico o nel basso, cose intralciate e
difficili. Nelle Canzoni massimamente ha imitato il Petrarca e anche
affettatamente e servilmente…» I versi del Manfredi citati da Leopardi sono
l’81 e l’82 della canzone O tra quante il sol mira altera e bella. Pel
giorno natalizio di Ferdinando di Toscana (Eustachio Manfredi, Rime,
Bologna, 1723, p. 46) dove è ripreso il
distico (vv. 85-86) «Rade volte adiven ch’a l’alte imprese / Fortuna ingiurïosa non
contrasti» di Spirto
gentil, che quelle membra reggi.
[37] Vedi Zib. 143: «Che vuol dire che fra tanti imitatori che si sono trovati di opere e di
scrittori classici, nessuno è pervenuto ad occupare un grado di fama non dico
uguale, ma neppur vicino a quello dell’imitato? Non è già verisimile che
essendo piú facile l’inventis addere, e il perfezionare una cosa inventata, che
l’inventarla già perfetta, ed essendoci stati molti imitatori di sommo ingegno,
massimamente in Italia in un tempo dove l’imitare era cosa di moda, e perciò
diveniva occupazione anche dei migliori (come Sanazzaro imitator di Virgilio,
il Tasso del Petrarca ec.), non si sia mai data nessun’imitazione che almeno
agguagli l’opera imitata, e per conseguenza meritasse un posto compagno a
quello dell’originale. Ma il fatto sta che in materia di letteratura o di arti,
basta accorgersi dell’imitazione, per metter quell’opera infinitamente al di
sotto del modello, e che in questo caso, come in molti altri, la fama non ha
tanto riguardo al merito assoluto ed intrinseco dell’opera, quanto alla
circostanza dello scrittore o dell’artefice. Laonde, o imitatori qualunque vi
siate, disperate affatto di arrivare all’immortalità, quando bene le vostre copie
valessero effettivamente molto piú dell’originale.»
[38] Vedi Zib. 2184-2185: «Non solo l’uomo è opera delle circostanze, in quanto queste lo
determinano a tale o tal professione ec. ec. ma anche in quanto al genere, al
modo, al gusto di quella tal professione a cui l’assuefazion sola e le
circostanze l’hanno determinato. P.e. io finché non lessi se non autori
francesi, l’assuefazione parendo natura, mi pareva che il mio stile naturale
fosse quello solo, e che là mi conducesse l’inclinazione. Me ne disingannai,
passando a diverse letture, ma anche in queste, e di mese in mese, variando il
gusto degli autori ch’io leggeva, variava l’opinione ch’io mi formava circa la
mia propria inclinazione naturale. E questo anche in menome e determinatissime
cose, appartenenti o alla lingua, o allo stile, o al modo e genere di
letteratura. Come, avendo letto…»
[39] Vedi Zib. 1067-1068: «Quanta sia la superiorità degl’italiani nell’attitudine a conoscere e
gustare la lingua latina, si può argomentare proporzionatamente dalla superiorità
riconosciuta in loro, nel bello scriver latino, ossia nella imitazione degli
scrittori latini, quanto alla vera e propria ed ottima lingua latina. E certo
chi è superiore nell’imitare, chi è superiore nel maneggiare e adoperare, è
necessario che lo sia pure nel conoscere e nel gustare, e quella prima
superiorità, suppone questa seconda. Ora di questa superiorità degl’italiani
nello scriver latino, dal Petrarca fino a oggidí…»
[40] Vedi Zib. 246-247; 1464-1465: «Dalla teoria del piacere esposta in questi
pensieri si comprende facilmente quanto e perché la matematica sia contraria al
piacere, e siccome la matematica, cosí tutte le cose che le rassomigliano o
appartengono, esattezza, secchezza, precisione, definizione, circoscrizione,
sia che appartengano al carattere e allo spirito dell’individuo, sia a
qualunque cosa corporale o spirituale. Tant’è. Le cose per se stesse non sono
piccole. Il mondo non è una piccola cosa, anzi vastissima e massimamente rispetto
all’uomo. Anche l’organizzazione de’ piú minuti e invisibili animaluzzi è una
gran cosa. La varietà della natura solamente in questa terra è infinita; che
diremo poi degli altri infiniti mondi? Sicché per una parte si può dire che non
la grandezza delle cose, ma anzi la loro nullità cosí evidente e sensibile
all’uomo, è una pura illusione. Ma basta che l’uomo abbia veduto la misura di
una cosa ancorché smisurata, basta che sia giunto a conoscerne le parti, o a
congetturarle secondo le regole della ragione; quella cosa immediatamente gli
par piccolissima, gli diviene insufficiente, ed egli ne rimane scontentissimo.
Quando il Petrarca poteva dire degli antipodi, e che ’l dí nostro vola A
gente che di là FORSE l’aspetta, quel forse bastava per
lasciarci concepir quella gente e quei paesi come cosa immensa, e
dilettosissima all’immaginazione. Trovati che si sono, certamente non sono
impiccoliti, né quei paesi son piccola cosa, ma appena gli antipodi si son
veduti sul mappamondo, è sparita ogni grandezza ogni bellezza ogni prestigio
dell’idea che se ne aveva. Perciò la matematica la quale misura quando il
piacer nostro non vuol misura, definisce e circoscrive quando il piacer nostro
non vuol confini […], analizza, quando il piacer nostro non vuole analisi né
cognizione intima ed esatta della cosa piacevole […], la matematica, dico,
dev’esser necessariamente l’opposto del piacere.» «L’animo umano è cosí fatto
ch’egli prova molto maggior soddisfazione di un piacer piccolo, di un’idea di
una sensazione piccola, ma di cui non conosca i limiti, che di una grande, di
cui veda o senta i confini. La speranza di un piccolo bene, è un piacere
assolutamente maggiore del possesso di un bene grande già provato (perché se
non è ancora provato, sta sempre nella categoria della speranza.) La scienza
distrugge i principali piaceri dell’animo nostro perché determina le cose, e ce
ne mostra i confini, benché in moltissime cose, abbia materialmente ingrandito
d’assaissimo le nostre idee. Dico materialmente, e non già spiritualmente,
giacché p.e. la distanza dal sole alla terra, era assai maggiore nella mente
umana, quando si credeva di poche miglia, né si sapeva quante, di quello che
ora che si sa essere di tante precise migliaia di miglia. Cosí la scienza è
nemica della grandezza delle idee, benché abbia smisuratamenteingrandito
le opinioni naturali. Le ha ingrandite come idee chiare, ma una piccolissima idea
confusa, è sempre maggiore di una grandissima, affatto chiara.
L’incertezza se una cosa sia o non sia del tutto, è pur fonte di una grandezza,
che vien distrutta dalla certezza che la cosa realmente è. Quanto maggiore era
l’idea degli Antipodi, quando il Petrarca diceva forse esistono, di
quello che appena fu saputo ch’esistevano. […] La maggiore anzi la sola
grandezza di cui l’uomo possa confusamente appagarsi, è l’indeterminata, come
risulta pure dalla mia teoria del piacere. Quindi l’ignoranza la quale sola può
nascondere i confini delle cose, è la fonte principale delle idee ec.
Indefinite.» Si ricordi a proposito i versi 87-100 di Ad Angelo Mai: «[…] Ahi ahi, ma conosciuto il mondo / Non cresce,
anzi si scema, e assai piú vasto / L’etra sonante e l’alma terra e il mare / Al
fanciullin, che non al saggio, appare. / Nostri sogni leggiadri ove son giti /
Dell’ignoto ricetto / D’ignoti abitatori, o del diurno / Degli astri albergo, e
del rimoto letto / Della giovane Aurora, e del notturno / Occulto sonno del
maggior pianeta? / Ecco svaniro a un punto, / E figurato è il mondo in breve
carta; / Ecco tutto è simile, e discoprendo, / Solo il nulla s’accresce. […].»
[41] Verso 10, sonetto La
gola e ’l sonno et l’otïose piume. Vedi Zib. 3382-3385: «È tanto mirabile quanto vero,
che la poesia la quale cerca per sua natura e proprietà il bello, e la
filosofia ch’essenzialmente ricerca il vero, cioè la cosa piú contraria al
bello; sieno le facoltà le piú affini tra loro, tanto che il vero poeta è
sommamente disposto ad esser gran filosofo, e il vero filosofo ad esser gran
poeta, anzi né l’uno né l’altro non può esser nel gener suo né perfetto né
grande, s’ei non partecipa piú che mediocremente dell’altro genere, quanto
all’indole primitiva dell’ingegno, alla disposizione naturale, alla forza
dell’immaginazione. […] La poesia e la filosofia sono entrambe del pari, quasi
le sommità dell’umano spirito, le piú nobili e le piú difficili facoltà a cui
possa applicarsi l’ingegno umano. E malgrado di ciò, e dell’esser l’una di
loro, cioè la poesia, la piú utile veramente di tutte le facoltà, sí la poesia,
come la filosofia sono del pari le piú sfortunate e dispregiate di tutte le
facoltà dello spirito. Tutte l’altre dànno pane, molte di loro recano onore
anche durante la vita, aprono l’adito alle dignità ec.: tutte l’altre, dico,
fuorché queste, dalle quali non v’è a sperar altro che gloria, e soltanto dopo
la morte. Povera e nuda vai, filosofia. Della sorte ordinaria de’ poeti
mentre vivono, non accade parlare. Chi s’annunzia per medico, per legista, per
matematico, per geometra, per idraulico, per filologo, per antiquario, per
linguista, per perito anche in una sola lingua; il pittore eziandio e lo scultore
e l’architetto; il musico, non solo compositore ma esecutore, tutti questi son
ricevuti nelle società con piacere, trattati nelle conversazioni e nella vita
civile con istima, ricercati ancora, onorati, invitati, e quel ch’è piú
premiati, arricchiti, elevati alle cariche e dignità. Chi s’annunzia solo per
poeta o per filosofo, ancorch’egli lo sia veramente, e in sommo grado, non
trova chi faccia caso di lui, non ottiene neppure ch’altri gli parli con
leggiere testimonianze di stima. La ragione si è che tutti si credono esser
filosofi, ed aver quanto si richiede ad esser poeti, sol che volessero metterlo
in opera, o poterlo facilissimamente acquistare e adoperare. Laddove chi non è
matematico, pittore, musico ec. non si crede di esserlo, e riguarda come
superiori per questo conto a lui ed al comune degli uomini, quei che lo sono.»
[42]Versi 53-55
della canzone Chiare, fresche
et dolci acque. Vedi Zib. 3443-3446: «Quante volte diss’io Allor pien
di spavento, Costei per fermo nacque in paradiso. Petr. Canz. Chiare fresche e
dolci acque.[…] È proprio, dico, della impressione che fa la bellezza su quelli
d’altro sesso che la veggono o l’ascoltano o l’avvicinano, lo spaventare; e
questo si è quasi il principale e il piú sensibile effetto ch’ella produce a
prima giunta, o quello che piú si distingue e si nota e risalta. E lo spavento
viene da questo, che allo spettatore o spettatrice, in quel momento, pare
impossibile di star mai piú senza quel tale oggetto, e nel tempo stesso gli
pare impossibile di possederlo com’ei vorrebbe; perché neppure il possedimento
carnale, che in quel punto non gli si offre affatto al pensiero, anzi questo
n’è propriamente alieno; ma neppur questo possedimento gli parrebbe poter
soddisfare e riempiere il desiderio ch’egli concepisce di quel tale oggetto;
col quale ei vorrebbe diventare una cosa stessa […]: ora ei non vede che questo
possa mai essere. La forza del desiderio ch’ei concepisce in quel punto,
l’atterrisce per ciò ch’ei si rappresenta subito tutte in un tratto, benché
confusamente, al pensiero le pene che per questo desiderio dovrà soffrire;
perocché il desiderio è pena, e il vivissimo e sommo desiderio, vivissima e
somma, e il desiderio perpetuo e non mai soddisfatto è pena perpetua.Ora a lui
pare e che quel desiderio non sarà mai soddisfatto (o non ne vede il come, e
gli par cosa troppo ardua e difficile e improbabile), e ch’esso non sarà mai
per estinguersi da se medesimo, come quando proviamo un dolor vivissimo, ci
pare a prima giunta ch’ei sarà perpetuo, e che ne sia impossibile la
consolazione, e che niuna cosa mai lo consolerà. Tutto questo accade principalmente
(ed oggimai unicamente) ai giovani prima d’entrar nel mondo, o sul loro primo
ingresso (talvolta, e non di rado, ancora ai fanciulli). I quali e son piú
suscettibili di vivezza d’impressione e di vivezza di desiderio ec., e sono
inesperti del quanto presto e facilmente l’amore o si dilegui o si
soddisfaccia, e del come; e che al mondo non v’ha cosa veramente amabile; e di
quanto sia facile ottenere ogni cosa ch’ei brama da quegli oggetti ch’ei stima
inaccessibili ec. ec.»
[43] Ne L’autore dell’Interpretazione a chi
legge (Binni-Ghidetti, vol. I, pp. 985-986) Leopardi chiarisce che ha
chiamato Interpretazione il commento perché è in realtà quasi una
traduzione della lingua antica e oscura in una moderna e chiara. Sottolinea
inoltre che, di fronte a interpretazioni diverse di altri commentatori, sceglie
sempre quella che gli sembra vera o, se nessuna lo soddisfa, espone la propria.
Non salta mai una difficoltà, anche quando tutti i commentatori l’aggirano, e
accompagna i lettori (privilegiando il pubblico femminile e gli stranieri) con
quel minimo di notizie storiche e di spiegazioni linguistiche che ritiene
necessarie alla comprensione delle rime petrarchesche.
[53] Possiamo indicare approssimativamente come Pensieri
scritti nel periodo di composizione dell’Interpretazione quelli che
vanno dal 4150 (il 4149 è datato Bologna, 3 novembre 1825) al 4182 (datato
Bologna, 5 luglio 1826).
[54] Il verso petrarchesco è il 5 del sonetto In mezzo di duo amanti honesta altera. Vedi Zib. 4177: «Poi che s’accorse chiusa dalla spera Dell’amico piú
bello. Petrar. Son. 79. della I. Parte: In mezzo di duo amanti onesta, altera.
Grecismo manifesto. Notisi che il Petrarca non sapeva il greco.»
[55] I versi citati sono rispettivamente il v. 8 del sonetto Io sentia dentr’al cor già venir meno e il v. 6 del sonetto – Occhi
piangete: accompagnate il core. Vedi Zib. 511; 1421; 2865; 3430;
4162: «In questi luoghi di Floro: Postquam rogationis dies aderat, ingenti
stipatus agmine (Tib. Gracchus) rostra conscendit: nec deerat obvia manu tota
INDE (e non ha detto, né anche accennato da che luogo) nobilitas, et tribuni in
partibus (III. 14.): e: Quum se in Aventinum recepisset (C. Gracchus), INDE
quoque obvia Senatus manu, ab Opimio consule oppressus est (III. 15.) l’inde
non par che si possa intendere se non per ibi o illuc, eo, ec. E in questo
senso si può paragonare l’uso di questa particella fatto da Floro, a quello che
i nostri antichi fecero dell’onde, quinci, quindi. V. la Crusca. e allo Spagnuolo
donde che val sempre dove. E bisogna notare che in questo senso Floro congiunge
la particella inde col nome obvius. E non perciò pare che significhi, o possa
significare moto da luogo, ma stato, o moto a luogo. (come gli antichi
italiani, onde vai, per dove vai)». «Ancor noi oltre ove ch’è ubi, abbiamo pur
dove che vale il medesimo, ma è quasi de ubi, cioè unde. Siccome gli spagnuoli
per ubi dicono donde (e adonde) che è quasi de unde. E noi pure oltre onde cioè
unde, abbiamo donde, che per altro vale, non ubi, ma unde.» «Altronde per
altrove (del che ho detto, se non erro, parlando di un luogo di Floro, e dello
spagn. donde, cioè unde, detto, come ora si dice, per ubi) trovasi in Giusto
de’ Conti Son. 22. e Canz. 2.
st. ult. in Angelo di Costanzo son. 44. e in molti
altri, sí esso, come onde o donde per dove ec. massime ne’ trecentisti, in
alcuno de’ quali espressamente mi ricordo di aver trovato uno o piú di tali
esempi ultimamente.» «Altronde per altrove, e indi fors’anche quasi ivi o colà,
delle quali cose ho detto altrove. V. Petrarca Son. Io sentia dentr’al cor già
venir meno.» «Onde per dove, quo. Petr. Son. Occhi piangete, v.6.»
[56] I versi citati sono rispettivamente: il verso 18della canzone Gentil
mia donna, i’ veggio; i vv. 59-60 della canzone Se ’l pensier che mi strugge; il v. 31
della canzone Amor, se vuo’ ch’i’torni al
giogo anticho; il v. 37 della canzone
Quando il soave mio fido conforto; l’ultimo verso del sonetto 166 S’i’ fussi stato fermo a la spelunca; il
v. 33 delle sestine Anzi tre dí creata
era alma in parte. Vedi Zib. 4162; 4179; 4200: «Degnò mostrar del suo lavoro in
terra. Petr. Canz. Gentil mia donna, l’veggio, stanza 2. v.3. […] Cosí avestu
riposti De’ bei vestigi sparsi. Petr. Canz. Se ’l pensier che mi strugge.
Stanz. 5. v.7. 8.» «Fammi sentir di quell’aura gentile. Petr. Canz. Amor, se
vuo’ ch’i’ torni al giogo antico. v.31. cioè stanza 3. v.1. Il genitivo per
l’accusativo. V. ancora Canz. Quando il soave, stanza 4. v.4 e Son. S’io fossi,
v. ult.» «Il genitivo per l’accusativo. Petr. Sestina 6. Anzi tre dí, v.3.»
[57] Nell’Interpretazione i versi sono cosí
commentati: v. 18: «degnossi di mostrare in terra alcuna sua opera; cioè di
creare le cose che noi veggiamo»; vv. 56-59: «E piacesse a Dio che tu serbassi
ancora qualcuno degli sparsi vestigi di Laura»; v. 31: «de quell’aura gentile:
vuol dire della voce di Laura.»; il v. 37 «de
l’amorose tempre: cioè lo stato amoroso»; gli ultimi versi (il v. 14 e il v.
33) non sono commentati.
[58] Nell’Interpretazione cosí è commentata la
composizione: «Questa canzone (che che se ne fosse la causa) è scritta a bello
studio in maniera che ella non s’intenda. Per tanto a noi basterà d’intenderne
questo solo; e io non mi affannerò a ridurla in chiaro a dispetto del proprio
autore. [È una canzone‑frottola, con metro di canzone intessuto di
sentenze e con numerose rime al mezzo.]»
[59] Il verso citato è il 42 della canzone Una donna piú
bella assai che ’l sole. Zib. 4000 e 4090: «A proposito della ridondanza
del pronome altro nell’italiano e nel greco, notata altrove, osservivi
che altro presso noi spesso vale semplicemente alcuna cosa, massime
nella negazione, onde senz’altro vale sovente senz’alcuna cosa,
cioè senza nulla, e altri quando si usa al modo del franc. on
(e dell’ital. l’uomo, uno, la persona, si ec.) vale alcuno, che
pur molte volte si dice ne’ casi stessi. V’ha un luogo nel Petrarca Canz. Una
donna piú bella, stanza 3. v.12. dove altro, ben considerando il
luogo, mi pare (e non credo che niuno fin qui l’abbia inteso) che non
significhi se non alcuna cosa, cioè, poiché sta colla negazione
virtualmente presa, nulla.» “Altro per niuno, del che
altrove. Senz’altro mezzo. […] Nel Petrarca Canz. Una donna piú bella
ec. strofe 3. Altro volere o disvoler m’è tolto; altro sta per alcuna
cosa, nulla, quidquam.»
[61] Rispettivamente: v. 42 della canzone Una donna piú
bella assai che ’l sole., v. 120 del
Trionfo dell’Eternità e v. 7 del sonetto Il successor di Carlo che la
chioma. Zib. 4182:«Senz’altra
pompa, per senza niuna. ib. V.
120. V. anche Son. Il successor di Carlo, v.7. e Canz. Una donna piú bella,
st.3. v.12.»
[62] Lettera Ad Antonio Fortunato Stella (Bologna 13
settembre 1826): «Quanto al Dizionario filosofico, le scrissi che io
aveva pronti i materiali, com’è vero; ma lo stile ch’è la la cosa piú faticosa,
ci manca affatto, giacché sono gittati sulla carta con parole e frasi appena
intelleggibili, se non a me solo. E di piú sono sparsi in piú migliaia di
pagine, contenenti i miei pensieri; e per poterne estrarre quelli che appartenessero
a un dato articolo, bisognerebbe che io rileggessi tutte quelle migliaia di
pagine, segnassi i pensieri che farebbero al caso, li disponessi, gli ordinassi
ec., tutte cose che io farò quando a Lei parrà bene che io mi dia di proposito
a stendere questo Dizionario; ma che non si possono eseguire per il
momento, e per uno o due articoli soli.»
[63] Lettera Ad Antonio Fortunato Stella (Bologna 19
settembre 1826): «Incoraggiato dalle sue parole relative al mio Dizionario,
mi son dato ad estrarre, a porre in ordine ec. i materiali che ho per
quest’opera, la quale dovrebbe anche contenere un buon numero di articoli o
trattatelli relativi a cose di lingua, che siano di un interesse generale,
filosofico o filologico; i quali articoli si potranno pubblicare appartatamente.»
Sulla redazione dell’Indice si veda MarcelloVerdenelli, Cronistoria
dell’Idea leopardiana di «Zibaldone», in «Il Veltro» a. 1987, n. 31 oltre
all’Introduzione di Pacella
premessa all’edizione critica dello Zibaldone di pensieri, già citata. Nell’Indice
sono esplicitamente menzionati gli scrittori: Alfieri (con 6 pensieri);
Ariosto (con 5); Bartoli (con 5); Bembo e Cesari (con 1); Boccaccio (con 14);
Caro (con 5); Chiabrera (con 3); Dante (con 37); Della Casa (con 1); Filicaia
(con 3); Galileo (con 1); Guidi (con 2); Manfredi (con 1); Metastasio (con 2);
Monti (con 6); Pallavicino (con 1); Petrarca (con 24); Tasso (con 15); Testi
(con 2); Zappi (con 1).
Accanto all’Indice
del mio Zibaldone di pensieri Leopardi stila anche due Indici parziali
che sono spogli per argomento dove il primo, intitolato Pensieri di varia
filosofia e di bella letteratura, ordina le prime 100 pagine dello Zibaldone.
In questi elenchi il recanatese riconferma i punti forti del suo giudizio su
Petrarca: nel pensiero 35: «Eloquenza della lirica riconosciuta nel Petrarca,
anteposto per questa parte a Orazio e a tutti gli altri. Copia, semplicità e
familiarità, e generalmente indole dello stile del Petrarca. 23»; nel 37:
«Affettuoso del Petrarca. 24»; nel 52: «I piú eloquenti pezzi italiani sono
certe Canzoni del Petrarca e vari scritti del Tasso. Eloquenza di chi parla di
se medesimo. 29-30»; nel 124: «Dante e Petrarca molto meno ridondanti, e di
rima molto piú spontanei di tutti i cinquecentisti. 59-60»; nel 154: «Differenza
tra la semplicità del Petrarca e quella dei greci. Familiarità dello stile di
quello. 70». La datazione di quest’ultimi Indici è discussa tra gli
studiosi, a tal proposito si rimanda nuovamente all’Introduzione di Pacella e al saggio a piú mani Uno
schedario inedito e gli indici dello Zibaldone pubblicato su «Il Veltro»,
a. 1989, n. 33.
[64] La voce “Francesco Petrarca” è citata per 98 volte
nell’Indice analitico posto alla fine dell’edizione critica dello Zibaldone,
mentre Leopardi nel suo Indice ne elenca solo 28.
[65]Vedi Zib.
24; 112-113: «Son proprio esclusivamente del Petrarca, in quanto all’affetto,
non solo la copia, ma anche […] quelle immagini affettuose (come: E la povera
gente sbigottita ec.) [v. 63 della canzone Spirto gentil, che quelle membra
reggi] e tutto quello che forma la vera e animata e calda eloquenza. E
dall’influsso che ha il cuore nella poesia del Petrarca viene la mollezza e
quasi untuosità come d’olio soavissimo delle sue Canzoni, (anche nominatamente
quelle sull’Italia) e che le odi degli altri appetto alle sue paiano asciutte e
dure e aride, non mancando a lui la sublimità degli altri e di piú avendo
quella morbidezza e pastosità che è cagionata dal cuore.» «La gran diversità
fra il Petrarca e gli altri poeti d’amore, specialmente stranieri, per cui tu
senti in lui solo quella unzione e spontaneità e unisono al tuo cuore che ti fa
piangere, laddove forse niun altro in pari circostanze del Petrarca ti farà lo
stesso effetto, è ch’egli versa il suo cuore, e gli altri l’anatomizzano (anche
i piú eccellenti) ed egli lo fa parlare, e gli altri ne parlano.»
[66]Vedi Zib.
23: «Quell’affetto nella lirica che cagiona l’eloquenza, e abbagliando meno
persuade e muove piú, e piú dolcemente massime nel tenero, non si trova in
nessun lirico, né antico né moderno se non nel Petrarca, almeno almeno in quel
grado: e Orazio quantunque forse sia superiore nelle immagini e nelle sentenze,
in questo affetto ed eloquenza e copia non può pur venire al paragone col
Petrarca: il cui stile ha in oltre (io non parlo qui solo delle canzoni amorose
ma anche singolarmente e nominatamente delle tre liriche: O aspettata in ciel
beata e bella, Spirto gentil che quelle membra reggi, Italia mia ec.) ha una
semplicità e candidezza sua propria, che però si piega e si accomoda mirabilmente
alla nobiltà e magnificenza del dire, (come in quel: Pon mente al temerario
ardir di Serse ec.) [v. 91 di O aspectata in
ciel beata et bella] cosí in tutto il corpo e continuatamente, come nelle varie parti e in
quelle dove egli si alza a maggior sublimità e nobiltà che per l’ordinario: si
piega alle sentenze (come in quel: Rade volte addivien che a l’alte imprese
ec.) [v. 85 di Spirto gentil…] quantunque di quelle spiccate
non n’abbia gran fatto in quelle tre canzoni: si piega ottimamente alle immagini
delle quali le tre canzoni abbondano e sono innestate nello stile e formanti il
sangue di esso ec. (come: Al qual come si legge, Mario aperse sí ’l fianco ec.
Di lor vene ove il nostro ferro mise ec.[vv. 44-45 e v. 51 di Italia mia…]
Le man le avess’io avvolte entro i capegliec. [v. 14 di Spirto gentil…]).» A proposito della “familiarità” della lingua poetica del Petrarca
si vedano i pensieri 70, 1809, 2838-2839.
[67]Vedi Zib.
3415-3416: «(Il linguaggio del Casa non è familiare, ed è molto piú distinto
dal prosaico, e cosí il suo stile. Ciò perché ne’ suoi versi egli non si
propose il carattere né del Petr. né di Dante, ma un suo proprio. E quindi
quanto il carattere del suo linguaggio e stile poetico è distinto da quel della
prosa, tanto egli è ancora diverso da quello del linguaggio e stile sí di Dante
e Petrarca, sí degli altri lirici, e poeti quali si vogliano, del suo tempo.)»
Sul rapporto Petrarca e il Cinquecento Leopardi cita inoltre i pensieri: 2517,
2533-2535, 2715, 2724, 3561-3562, 3979, 4246.
[68] Vedi Zib. 3126-3129: «Il soggetto e l’eroe della Gerusalemme furono anche piú che nazionali, e
quindi anche piú degni; e furono attissimi ad interessare. Dico piú che
nazionali, perché non appartennero a una nazione sola, ma a molte ridotte in
una da una medesima opinione, da un medesimo spirito, da una medesima
professione, da un medesimo interesse circa quello che fu il soggetto del
Goffredo. Dico tanto piú degni, perché essendo d’interesse piú generale,
rendevano il poema piú che nazionale, senza però renderlo d’interesse
universale, il che, trattandosi di quello interesse di cui ora discorriamo,
tanto sarebbe a dire quanto di niuno interesse. Dico attissimi a interessare
perché quantunque fosse spento in quel secolo il fervore delle Crociate, durava
però ancora generalmente ne’ Cristiani uno spirito di sensibile odio contro i
Turchi, quasi contro nemici della propria lor professione, perché in quel tempo
i Cristiani, ancorché corrottissimi ne’ costumi e divisi tra loro nella fede,
consideravano per anche la fede Cristiana come cosa propria, e i nemici di lei
come propri nemici ciascuno; e quindi non solo con odio spirituale e per amor
di Dio, ma con odio umano, con passione p. cosí dir, carnale e sensibile, per
proprio rispetto, e per inclinazione odiavano i maomettani non che il
maomettanesimo. E la liberazione del sepolcro di Cristo era cosa di che allora
tutti s’interessavano, siccome in questi ultimi tempi, della distruzione della
pirateria Tunisina e Algerina, benché questa e quella fossero piú nel desiderio
che nella speranza, o certo piú desiderate che probabili: aggiunta però di piú
la differenza de’ tempi, perocché nel cinquecento le inclinazioni e le opinioni
e i desiderii pubblici erano molto piú manifesti, decisi, vivi, forti e
costanti ch’e’ non possono essere in questo secolo. Siccome nel 300 il Petrarca
(Canz. O aspettata), cosí nel 500 tutti gli uomini dotti esercitavano il loro
ingegno nell’esortare o con orazioni o con lettere o con poesie pubblicate per
le stampe, le nazioni e i principi d’Europa a deporre le differenze scambievoli
e collegarsi insieme per liberar da’ cani [ricordo dei versi 142-144 del cap.
II del Trionfo della Fama II: Gite superbi, o miseri Cristiani, /
Consumando l’un l’altro, e non vi caglia / Che ’l sepolcro di Cristo è in man
de’ cani!] il Sepolcro, e distruggere il
nemico de’ Cristiani, e vendicar le ingiurie e i danni ricevutine. Questo era
in quel secolo il voto generale cosí delle persone colte ancorché non dotte,
come ancora, se non de’ gabinetti, certo di tutti i privati politici, che in
quel secolo di molta libertà della voce e della stampa, massimamente in Italia,
non eran pochi; e di questo voto si faceva continuamente materia alle scritture
e allusioni digressioni ec. e di quel progetto o sogno che vogliam dire si
riscaldava l’immaginazione de’ poeti e de’ prosatori, e se ne traeva l’ispiraz.
dello scrivere.»
[69]Vedi Zib.
1525-1527: «Degli stessi tre soli scrittori letterati del trecento, un solo,
cioè Dante, ebbe intenzione scrivendo, di applicar la lingua it. alla
letteratura. Il che si fa manifesto sí dal poema sacro, ch’egli considerava,
non come trastullo, ma come impresa di gran momento, e dov’egli trattò le
materie piú gravi della filosofia e teologia; sí dall’opera, tutta filosofica,
teologica, e insomma dottrinale e gravissima del Convito, simile agli antichi
Dialoghi scientifici ec. […]; sí finalmente dalle opinioni ch’egli manifesta
nel Volgare Eloquio. Ond’è che Dante fu propriamente, com’è stato sempre
considerato, e per intenzione e per effetto, il fondatore della lingua
italiana.Ma gli altri due, non iscrissero italiano che per passatempo,
e tanto è lungi che volessero applicarlo alla letteratura, che anzi non
iscrivevano quelle materie in quella lingua, se non perché le credevano indegne
della lingua letterata, cioè latina, in cui scrivevano tutto ciò con cui miravano
a farsi nome di letterati, e ad accrescer la letteratura. Siccome giudicavano
(ancor dopo Dante, ed espressamente contro il parere e l’esempio suo,
specialmente il Petrarca) che la lingua italiana fosse indegna e incapace delle
materie gravi e della letteratura. Sicché non pur non vollero applicarvela, ma
non credettero di potere, né che veruno potesse mai farlo. Opinione che durò
fin dopo la metà del Cinquecento […] Ed è notissima l’opinione che portava il Petrarca
del suo canzoniere: ed egli lo scrisse in italiano, come anche il Boccaccio le
sue novelle e romanzi, per divertimento delle brigate, come ora si scriverebbe
in un dialetto vernacolo, e per li cavalieri e dame, e genti di mondo, che non
si credevano capaci di letteratura. ec. ec.» Vedi anche Zib. 1579-1580.
[70] Versi 96-97 della canzone Vergine bella, che di
sol vestita. Vedi Zib. 4483: «L’imperfetto indicativo pel congiuntivo. Se io
sapeva (avessi saputo) questo, non andava (non sarei andato) ec. Ch’ogni altra
sua voglia Era (sarebbe stata) a me morte, ed a lei infamia rea. Petr. Canz.
Vergine bella. Anche il piú che perfetto. S’io era ito ec., non mi succedeva
ec. E in francese si j’étais (s’io fossi) ec. ec. – Pretto grecismo.»
[71] Rispettivamente: v. 105 del Trionfo del tempo; verso
d’apertura della sestina L’aere gravato,
et l’importuna nebbia. Zib.
4495: «Pargoleggiare
ec. Vanare-vaneggiare. Per esser vano v. vaneggiare anche nel Petr. Tr. del
Tempo: E vedrai ’l vaneggiar di questi illustri. […] Gravato per grave. Petr.
L’aere gravato e l’importuna nebbia.»
[72]Zib.4417:
«De’ diaschevasti italiani e latini v. Perticari (Scritt. del 300) dove
parla della pessima ortografia autografa del Petrarca Tasso ec., e dove prova
che i latini del buon secolo, copiando o citando Ennio e gli altri antichi, li
riducevano in gran parte alla moderna.» Sulla pessima ortografia del
Petrarca confronta i pensieri 1660 e 2460.
[73]Zib. 4246: «Superstiziosa imitazione e venerazione del Petrarca nel 16. secolo del
che altrove ec.»
[74] Vedi Zib. 4387: «Ben diresti che la divina commedia sia stata verseggiata studiosamente a
vocali. Ma che le modulazioni non prevalessero alle articolazioni de’ versi,
avveniva piú presto in Italia che altrove; perché il Petrarca aveva temprato
l’orecchio alla prosodia Provenzale sonora di finali tronche piú che la Siciliana che a Dante
veniva fluida di melodia. La lingua nondimeno per que’ suoi fondatori fu
scritta, né mai parlata; e quindi i libri non avendo compiaciuto alle
successive pronunzie, gli organi della voce hanno da stare obbedientissimi
all’occhio.»
[75] Lettera ad Antonio Fortunato Stella, 13 settembre
1826.
[76]Zib.4249: «GIUOCO DI MANO, GIUOCO
DI VILLANO, is a very true saying, among the few true sayings of the Italians.
Chesterfield Letters to his son, lett.259. Il conte di Chesterfield era
veramente molto pratico e della lingua, ed anche dei particolari e minuti detti
usuali nel nostro parlar familiare. Né io disapproverei molti
de’ suoi giudizi circa la letteratura e le cose nostre, come p. e. quello circa
il Petrarca (lett.217.), simile al parer del Sismondi: PETRARCA is, in my
mind, a sing-song love-sick Poet; much admired, however, by the Italians: but
an Italian, who should think no better of him than I do, would certainly say,
that he deserved his LAURA better than his LAURO (alludendo alla
coronazione del Poeta in Roma); and that wretched quibble would be reckoned
an excellent piece of Italian wit. Io, con licenza di Milord, non credo che sia vera
quest’ultima cosa, né che fosse vera al tempo suo, ma ben sono della sua
opinione in quanto al Petrarca. […] Il qual giudizio troverà pochi approvatori
in Italia fuori di me. Ma quello dei nostri detti e proverbi, è certamente
falso ec. (Può servire per un articolo sopra i proverbi).»