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Normal da Fabio

Tiziana Piras

Petrarca nello Zibaldone di Leopardi.

Sommario

Il giudizio di Leopardi su Petrarca cambia radicalmente dopo il lavoro d’interpretazione delle Rime (novembre 1825 – ottobre 1826): da auctoritas della poesia, Petrarca diventa poeta dalla fama immeritata: «io non trovo in lui se non pochissime, ma veramente pochissime bellezze poetiche».[1] Per ripercorrere la trasformazione dell’opinione leopardiana su Petrarca si sono letti e incrociati i riferimenti espliciti alla poesia dell’aretino che Leopardi dissemina nei saggi,[2] nello Zibaldone di Pensieri,[3] e nell’epistolario. I motivi che si ritiene abbiano piú influito sulla variazione del giudizio sono essenzialmente due: il consolidarsi in Leopardi di una propria poetica che determina il lento distacco dai modelli fondanti dai quali aveva preso le mosse; lo studio interpretativo per l’edizione divulgativa delle Rime che sottrae al recanatese le illusioni dilettevoli create dall’aver vissuto quella poesia nell’intimità del proprio sentire.

Petrarca nello Zibaldone fino al 1825.

Già nel 1816 Leopardi sottolinea la singolare fortuna che l’opera poetica di Petrarca ha goduto presso i lettori. Infatti per il recanatese il genere preferito dai lettori di ogni tempo è l’epica, mentre la poesia sentimentale trova riscontri positivi e duraturi solo in casi particolari, come appunto è accaduto per Petrarca che fu apprezzato insieme agli epici Ariosto e Tasso.[4] Ma è ovviamente nello Zibaldone di Pensieri che il nome del poeta aretino ricorre piú volte, legato agli argomenti piú diversi.

Un profilo del ruolo di Petrarca nella storia della letteratura italiana si legge già nelle prime pagine dello Zibaldone, dove Leopardi traccia la nascita e lo sviluppo della letteratura assumendo un particolare punto di vista: la perfezione in letteratura è raggiunta solo dai classici greci e latini, e gli autori italiani che hanno saputo imitare la loro grandezza poematica sono pochissimi e tutti distribuiti nei primi secoli della letteratura e nel Cinquecento: la letteratura italiana nacque nel Trecento per affermarsi nel Cinquecento e corrompersi nei secoli successivi, fino ad estinguersi nell’era moderna (l’Ottocento). Cosí, se il Quattrocento conserva ancora l’idea del bello incorrotta, cioè la perfetta imitazione della natura congiunta allo studio erudito dei classici latini e greci, il Cinquecento la traduce nelle opere dei suoi scrittori, avendo ereditato sia la letteratura del Trecento sia la conoscenza profonda dei latini e dei greci riscoperti dall’Umanesimo. Nel Seicento, invece, il gusto si perverte, e quel che è peggio dimentica Dante e Petrarca, riscoperti insieme ai loro padri nel primo Settecento. Il primo Settecento, anche se assiste alla rinascita del gusto del bello con lo studio della letteratura esemplare del passato, non ha la capacità di produrre nessun capolavoro per lo sterile esercizio d’imitazione condotto dagli scrittori nei loro testi, che toglie ogni spontaneità all’opera d’arte, spontaneità che al contrario possiedono Dante, Petrarca, Ariosto e tutti i cinquecentisti. Nella seconda metà del XVIII secolo e all’inizio dell’Ottocento si assiste quindi a un ulteriore declino della letteratura per la riproduzione dei modelli stranieri e soprattutto per la perdita dell’originalità: gli scrittori moderni sono dei vecchi che conoscono tutti gli artifici dell’arte e ne schivano gli inganni che essa tende ai neofiti, a costo però della spontaneità, che invece era patrimonio dei classici, simili a fanciulli in preda a ogni sorta di vizio come Petrarca, che pecca di concettualismo. Ma, se i classici potevano cadere negli inganni dell’arte, essi rimangono i soli ad avere prodotto opere originali per la naturalezza con la quale potevano imitare la natura, cosicché le opere moderne potranno essere senza difetti, perfette ma non originali.[5]

 

Il trecento fu il principio della nostra letteratura, non già il colmo, imperocché non ebbe se non tre scrittori grandi: il quattrocento non fu corruzione né raffinamento del trecento, ma un sonno della letteratura (che avea dato luogo all’erudizione) la quale restava ancora incorrotta e peccava ancora piú tosto di poco. Poliziano, Pulci. Il cinquecento fu vera continuazione del trecento e il colmo della nostra letteratura. Di poi venne il raffinamento del seicento, che nel settecento s’è solamente mutato in corruzione d’altra specie, ma il buon gusto nel volgo dei letterati non è tornato piú, né tornerà secondo me, perché dal niente si può passare al buono, ma dal troppo buono o sia dal corrotto stimo che non si possa. (Zib. 2-3)

 

D’altronde la letteratura italiana, originalissima appena nata con Dante e Petrarca, vide estinguersi subito questa sua originalità per il progresso delle scienze, per lo studio e l’imitazione degli antichi durante l’Umanesimo e per il perfezionamento e la maturazione della scrittura e della poesia. Questa maturazione si ebbe soprattutto a causa del passaggio dalla Repubblica alla Monarchia, che con l’estinzione della libertà costrinse gli spiriti a distogliersi dall’azione della politica per rifugiarsi nelle parole. Cosí nel Cinquecento, monarchico, le lettere risorsero dalla stasi del Quattrocento, prendendo una forma regolare ma poco originale e inventiva, per poi cadere nel convenzionale e nella povertà immaginativa, con l’unica eccezione dell’Alfieri.[6] Ma il Cinquecento è comunque per il recanatese il secolo aureo della lingua e della letteratura italiana – a dispetto del giudizio contrario dei critici del suo tempo che propendono per il Trecento – per i risultati pregevoli raggiunti dalla quasi totalità dei letterati, non solo toscani, per lo piú sconosciuti ai lettori, abituati a foggiare i loro testi sull’esempio tanto dei padri della lingua italiana appena formata, quanto degli autori della ben compiuta e matura lingua latina e greca. Ed è proprio grazie allo studio approfondito e alla corretta applicazione della retorica greca e latina che gli scrittori del Cinquecento raggiungono una certa perfezione nello stile. Ma in quale dei due principali generi della letteratura la conseguono? Risponde Leopardi: nella prosa, perché la poesia pecca per l’uso sovrabbondante di ridondanze, di epiteti, di sinonimi, di rare forme dialettali. Tant’è che è lecito parlare di compiutezza dello stile poetico solo con Parini o Monti, seppure Dante e Petrarca[7] ne siano un primigenio esempio illustre. Dei tre grandi del Trecento, poi, solo Boccaccio si cimentò nella prosa e come iniziatore del genere non potè raggiungere la perfezione.[8]

 

Il secolo del cinquecento è il vero e solo secolo aureo e della nostra lingua e della nostra letteratura.

Quanto alla lingua moltissimi disconvengono da questo ch’io dico, volendo che il suo vero secol d’oro, fosse il trecento. Ma osservino. Quasi tutti gli scrittori del cinquecento, toscani o non toscani, hanno bene e convenientemente adoperata la nostra lingua, e tutti piú o meno possono servire di norma al bello scrivere, e sarebbe ammirato e studiato uno scrittore d’oggidí che avesse tanti pregi di lingua quanto l’infimo de’ mediocri scrittori di quel tempo.» (Zib. 690-691)

«I difetti dello stile poetico di quel secolo [il Cinquecento], anche negli ottimi, sono infiniti, massime la ridondanza, gli epiteti, i sinonimi accumulati (al contrario delle prose) ec. lasciando i piú essenziali difetti di arguzie, insipidezze ec. anche nell’Ariosto e nel Tasso. E non è dubbio che Dante e Petrarca (sebbene non senza gran difetti di stile) furono nello stile piú vicini alla perfezione che i cinquecentisti, e cosí lo stile poetico del trecento (riguardo a questi due poeti) è superiore al cinquecento: (tanto è vero che la poesia migliore è la piú antica, all’opposto della prosa, dove l’arte può aver piú luogo). E dal trecento in poi lo stil poetico italiano non è stato richiamato agli antichi esemplari, massime latini, né ridotto a una forma perfetta e finita, prima del Parini e del Monti. (Zib. 700-701)

 

Ma come si perfeziona storicamente una lingua letteraria, e in particolare quale svolgimento ha subito quella italiana? Secondo il recanatese la lingua letteraria italiana ai suoi esordi, nei suoi tre massimi scrittori, ha seguito un percorso simile a quello della lingua latina: gli scrittori latini partiti dallo studio della lingua greca variegata, sperimentale e originale, consolidano nella loro lingua gli aspetti regolativi e canonici, superando ben presto i modelli di partenza e raggiungendo un grado di perfezione al quale i primi non avevano potuto aspirare. Cosí è accaduto alla lingua italiana, figlia di quella latina: nel Trecento scrittori come Dante, Petrarca e Boccaccio, seguendo l’andamento della latina, scrivono in maniera ordinata e logica portando la lingua italiana ad un grado di perfezione che verrà poi ripreso dai posteri; mentre gli altri scrittori, ignoranti dei modelli greco e latino, riprendendo nella loro scrittura le strutture del parlato, sono stati presto dimenticati per l’abbondanza di infrazioni alle regole dell’argomentare e del ragionare.[9]

La lingua letteraria, canonica, è cosí anche termometro della civiltà di una nazione, nasce con il suo costituirsi, affermarsi e decadere. La civiltà italiana nei suoi natali è però un caso particolare perché ha avuto due lingue illustri: la prima, la latina, che è morta con la caduta dell’impero romano; la seconda, l’italiana, parto della prima e perciò nettamente distinta da quella parlata e dai dialetti, che è ancora attuale per i moderni.[10] Ma se la letteratura determina il grado di civiltà di un popolo, il riconoscerlo, osserva amaramente Leopardi, è però sempre un compito arduo per lo smisurato cieco orgoglio degli uomini che considerano il proprio secolo, la propria nazione, il proprio popolo sempre superiore a quello che lo ha preceduto. Tale presunzione è di tutte le età dello spirito umano: basti come esempio la lettera di Petrarca indirizzata a Boccaccio (Seniles V, 2), dove il primo sottolinea la vanagloria dei suoi contemporanei che condannavano le idee e gli scritti di Platone, Aristotele, Cicerone e Virgilio per seguire i nuovi impareggiabili maestri.[11]

Inoltre la lingua letteraria in via di costituzione, e che solitamente con ritardo si trasferisce in scrittura, mostra maggiori differenze tra pronunzia e scrittura di una parola: lo scarto tra suono e grafia è un fenomeno naturale che accompagna il cammino dell’uomo, nei fanciulli che ai loro primi tentativi di scrittura cadono in errore molte volte prima di raggiungere la forma corretta, e nelle civiltà appena nate, che con i primi scriba incolti, copiando o scrivendo sotto dettatura senza capire il significato delle parole, incorrono spesso in travisamenti. Tra le civiltà europee, l’italiana e la spagnola sono per Leopardi quelle che hanno raggiunto prima una lingua perfetta, cioè con poche disarmonie tra scritto e parlato, per le favorevoli condizioni in cui maturarono: nacquero quasi contemporaneamente agli scrittori che realizzarono via via la perfetta corrispondenza tra fonema e grafema; ovviamente la lingua del Trecento, di Dante e Petrarca, era ancora pregna di errori di ortografia derivanti in gran parte dall’uso della grafia latina.[12] Ma solo la lingua francese può essere considerata universale perché ha un vocabolario univoco sia nello scritto sia nel parlato, mentre quella italiana non lo potrà mai essere perché è piuttosto un complesso di lessici e di stili che tra loro non hanno nessun punto di contatto: si prenda ad esempio per la poesia Dante, Petrarca e Parini, per la prosa, Davanzati, Boccaccio e Della Casa. Tale diversità non porta giovamento alla lingua italiana, anzi ha dei risvolti negativi sconosciuti alla francese: risulta ostica agli stranieri per le particolarità linguistiche che ogni scritto presenta; la differenza tra la lingua letteraria e quella parlata è marcata a tal punto da non permettere agli scrittori di usarle indifferentemente senza incorrere nell’elaborazione di testi a dir poco mediocri.[13]

Pure a proposito di un altro aspetto della formazione della lingua letteraria, e cioè della creazione dei sinonimi, Leopardi cita Petrarca. Secondo il recanatese, i sinonimi non esistono quasi nelle lingue piú antiche, che introducevano parole nuove non per dire in piú modi la stessa cosa ma per distinguere cose diverse, anche se di poco; mentre perdendosi per varie ragioni la sensibilità alle differenze, parole che all’inizio significavano cose diverse vennero pian piano a confondersi nello stesso significato. Quindi il tempo, la scarsa sensibilità del popolo e la sciatteria dei cattivi scrittori e oratori sono le fonti principali dei sinonimi, che non sono ricchezza ma piuttosto debolezza d’una lingua. Ma anche gli scrittori eleganti, e soprattutto i poeti, ne sono causa, che, per distinguersi dal volgo, ricorrono a metafore, arditezze, inversioni di significato, le quali poi passano nella lingua scacciandone le proprietà primitive. Ne segue che gli scrittori piú antichi siano, assai piú dei successivi, depositari della proprietà delle voci e dei modi: non per esattezza e minuziosità, che sono molto maggiori nei moderni, ma perché gli antichi erano piú vicini alle prime determinazioni dei significati delle parole. Dunque la diligenza è in ragione inversa dell’antichità, e la proprietà in ragione diretta: cosí «e Plauto e Terenzio e gli altri antichi latini i piú rozzi, sono tanto piú propri quanto meno eleganti di Cicerone. Cosí i trecentisti ignorantissimi, rispetto ai cinquecentisti ec. Dante rispetto al Petrarca e al Boccaccio ec.»[14]

Leopardi, oltre a menzionare Petrarca nel suo profilo della storia della lingua e della letteratura italiana, si avvale della sua figura anche per chiarire alcuni aspetti della propria posizione rispetto ai principi fondanti della poetica Romantica, diffusisi in Italia tra l’altro con le celebri Osservazioni del Cavaliere Lodovico Di Breme sulla poesia moderna.[15] Queste in particolare indussero il recanatese a molte considerazioni che espresse nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica.[16] Il saggio parte da un’affermazione condivisa con i Romantici: se la poesia ha nei tempi moderni il compito d’ingannare l’immaginazione e non piú l’intelletto, come avveniva in antico per spiegare i fenomeni naturali, rimane però inalterato il suo fine, cioè il diletto. Il poeta moderno, quindi, per incontrare il gusto dei lettori, dovrà scegliere le piacevoli illusioni nell’epifania del verisimile e soprattutto nel patrimonio di figure greche e latine che appartengono all’immaginazione degli italiani, contrariamente ai Romantici, che le vorrebbero sostituire con quelle della razionalità filosofica o delle saghe nordiche, ostiche alla comprensione del grande pubblico nazionale. Il proporre le favole antiche non vuol dire ingannare i lettori moderni, oramai esperti dei segreti della natura. Solo gli antichi, per il loro stato d’ignoranza, potevano trarre vero piacere dall’imitazione della natura con la parola. Al poeta moderno non rimane che imitare la natura attraverso gli occhi degli antichi, unici ad avere creato diletto nei lettori con la fantastica riproduzione della stessa, nella libertà dalle pastoie della ragione nemica di ogni illusione. La presunzione quindi dei Romantici di sostituire la natura con l’incivilimento non potrà che uccidere la poesia. Essi sono convinti che il gusto dei moderni sia piú legato all’intelletto che alla fantasia; e in generale che la poesia contemporanea sia migliore di quella antica. Ma il valutare migliore ciò che appartiene al proprio tempo è una moda che colpí anche il Seicento fino a quando non si tornò ai classici, Dante, Petrarca.[17] Dunque per il recanatese il poeta moderno non può che percorrere un’unica strada per imitare la natura, quella di studiare i predecessori greci e latini, anche se ammette la possibilità, per lui altamente improbabile, che possa nascere ancora un vero poeta, che sarà solo simile in genere a Virgilio e a Tasso, ma non potrà mai raggiungere la perfezione di Omero, Anacreonte, Pindaro, Dante, Petrarca e Ariosto.[18] Il reiterato compulsare la poesia antica e l’utilizzo della mitologia del poeta moderno non significa imitare ma rielaborare nella propria poetica il materiale immaginifico messo a disposizione da chi viveva in una condizione irripetibile, della quale d’altronde erano consapevoli i primi poeti italiani, come Petrarca, che ha frequentato assiduamente i latini, ha intinto la sua penna nel serbatoio delle immagini da quelli costruite e ha elaborato una propria insuperata poesia, un esempio assoluto di imitazione della natura.[19] Continua Leopardi: i Romantici oggi gridano a pieni polmoni che la poesia dev’essere “patetica”, non nel senso di malinconica ma in quello di “profondità e vastità del sentimento” e non si accorgono che la poesia sentimentale degli antichi già lo era. La differenza poi che essi indicano tra il sentimentale moderno, nato dal cuore, e quello antico, generato dalla fantasia, non sussiste perché il poeta antico imitando la natura provoca emozioni ancora piú profonde del cuore. I poeti antichi sono sentimentali perché la natura è sentimentale, ed essi sono maestri nell’imitarla; i Romantici, costruendo con il ragionamento una poesia provocatrice di forti emozioni, non ottengono di certo lo stesso coinvolgimento dell’immagine omerica di una notte serena illuminata dalla luna.[20] Si chiede Leopardi: non è lo stesso cavaliere Di Breme ad indicare Petrarca come poeta italiano sentimentale per eccellenza, seppure questi sia nato in un secolo incivile preda delle superstizioni?[21] E forse il Di Breme non lo giudicherà poeta nelle sue composizioni civili per quel ridurre dei Romantici tutta la poesia a sentimentale escludendo gli altri generi?[22] Il Discorso si conclude con l’esortazione del recanatese a soccorrere le sorti dell’Italia rinverdendo il primato delle lettere attraverso lo studio della cultura classica e rinfocolando l’amore della patria negli italiani moderni cosí imbelli da doversi vergognare d’essere compatrioti «del Dante e del Petrarca e dell’Ariosto e dell’Alfieri e di Michelangelo e di Raffaello e del Canova».[23]

Alle Osservazioni Leopardi dedica pure alcuni dei primi pensieri dello Zibaldone; uno di questi in particolare, il 21, chiama in causa Petrarca e la “bella negligenza” della sua poesia: il poeta non solo deve prendere a modello la natura, ma la deve ricalcare nei propri versi con naturalezza per procurare diletto nei lettori, come hanno fatto gli antichi: la poesia dev’essere cioè scevra degli orpelli retorici e stilistici che dimostrano solo la perizia dello scrittore come teorizzano i moderni.

 

Quello che nei poeti dee parer di vedere, oltre gli oggetti imitati, è una bella negligenza, e questa è quella che vediamo negli antichi, maestri di questa necessarissima e sostanziale arte, questa è quella che vediamo nell’Ariosto, Petrarca ec. questa è quella che pur troppo manca anche ai migliori e classici tra i moderni, questa è quella che col sentimentale e col sistema del Breme, e nelle poesie moderne de’ francesi, non si ottiene, e poi non si ottiene; ché questo stesso sentimentale scopre una certa diligenza ec. scopre insomma il poeta che parla ec. (Zib. 21)

 

Che la poesia del Petrarca segua l’andamento di quella antica è confermato dalla confessione fatta al recanatese da un italiano colto ma ignorante del greco, il quale ammise di non trovare nessuna armonia nella lirica petrarchesca se non «nelle ottave, e in qualcuno de’ nostri metri che chiamiamo anacreontici.» Il sentire l’armonia dei versi e provarne diletto è per Leopardi legato all’assuefazione, all’abitudine che l’orecchio si forma nel sentire i versi e i ritmi ripetuti nella quotidianità.[24]

Alla bellezza della lingua petrarchesca concorre oltre a ciò l’eleganza che i poeti raggiungono con l’impiego di parole discoste dall’uso comune ma ancora comprensibili ai lettori: quella del trecentesco però risente di un sapore familiare dovuto alla sua impossibilità di attingere a forme inconsuete in una lingua letteraria, quella italiana, appena nata. La familiarità è piú evidente nei poeti che nei prosatori perché i primi sono storicamente piú numerosi dei secondi, tanto da poter essere considerati i padri della lingua letteraria, e per la maggiore difficoltà da essi incontrata nel trovare forme inconsuete adatte alla lingua poetica, pur attingendo alla stessa lingua dei secondi.[25]

Quindi per il Leopardi l’eleganza della lingua non è sicuramente data dall’uso di forestierismi che i letterati moderni sogliono inserire nella loro scrittura direttamente dalla lingua parlata. Inoltre, essi accolgono nella loro scrittura con leggerezza tali termini, non studiano la loro etimologia, il loro senso metaforico e non li comparano con altri simili per verificare se la sfumatura con la quale li usano sia la piú corretta. Questo appiattimento dello scrivere moderno è il frutto dell’ignoranza, del plauso che viene tributato dai lettori a scrittori non degni di questo nome che conoscono poche opere straniere, e non le confrontano con quelle dei nazionali che ignorano, e che derivano la loro lingua dal parlato quotidiano. Una lingua scritta è quindi volgare quando questa non si scosta da quella corrente, mentre risulta elegante quando impiega termini che sono usciti dall’ordinario, ma sono ancora compresi facilmente dai lettori e da questi riconosciuti come propri di una lingua letteraria. Continua Leopardi: l’eleganza di una parola non è però immutabile nel tempo – sono invece costanti le leggi che la regolano – e muta proporzionalmente all’uso proprio, ma non abituale, per la quale viene impiegata nella scrittura: ad esempio “vario” se usato nel senso di “diversi” e “parecchi”, seppure sia corretto nel significato, e vi siano esempi illustri (Tasso), è impoetico, quotidiano, mentre è poetico nel verso petrarchesco «Varie di lingue et d’arme, et de le gonne», dove assume il significato proprio di “vario”, nel senso di molteplice.[26] O come il sostantivo “favola” che derivando dal latino “fabula” ha conservato anche il significato di “racconto falso”, e se utilizzato dagli scrittori in questa accezione è elegante, ad esempio nell’emitischio della prima terzina proemiale del Canzoniere: «al popol tutto / Favola fui gran tempo».[27] O come “tanto”, del verso petrarchesco «Te solo aspetto, et quel che tanto amasti», che, non determinando la quantità di un oggetto o di un sentimento «essendo indefinito, fa maggiore effetto che non farebbe molto, moltissimo eccessivamente, sommamente[28] Sono invece ineleganti le locuzioni “noi altri” e “voi altri”, testimoni della sopravvivenza di quelle latine “nos ceteri” e “vos ceteri”, che erano nate per distinguere nella lingua parlata il “noi” e il “voi” dato alla singola persona, cioè per differenziare nella scrittura l’uso singolare da quello plurale dei pronomi “noi” e “voi”.[29] Al contrario risulta elegante un altro uso pleonastico di “altro” accompagnato dalla preposizione privativa “senza”, divenuto poi caratteristico della lingua italiana.[30] L’uso di tale ridondanza è comune anche negli scrittori greci piú raffinati e il recanatese, che può essere a ragione considerato un poeta greco, la preferisce nei suoi Canti a quella equivalente “senza alcuno”, come ne Il pensiero dominante (v. 84) «Pose a tanto patir senz’altro frutto»; o in Sopra un basso rilievo antico sepolcrale (v. 92) «E dire a quella addio senz’altra speme»; o ne La ginestra (v. 204) «Maturità senz’altra forza atterra», seppure nel v. 175 s’incontri anche l’altra forma «Quegli ancor piú senz’alcun fin remoti». Rifacendosi poi all’autorità dello scrittore latino Seneca, Leopardi fa derivare l’uso negli scrittori italiani, come Petrarca, del verbo “andare” nel significato di “essere”: «E ’l giorno andrà pien di minute stelle»; «Sí ch’i’ vo già de la speranza altero»; «D’invidia molta ir pieno» e «Poi che del suo piacer mi fe’ gir grave».[31]

Per Leopardi la poesia dell’aretino è comunque l’unica poesia lirica che l’Italia possa contare. In una lettera a Pietro Giordani, scritta a Recanati il 19 febbraio 1819, riprende una discussione interrotta con il corrispondente dopo l’incontro di settembre dell’anno prima, e cioè che l’Italia non abbia dei poeti squisitamente lirici, mentre sembra che i tempi siano maturi per la loro nascita. Infatti, dei quattro poeti lirici, il Chiabrera, il Testi, il Filicaia e il Guidi, considerati da Leopardi i piú rappresentativi del genere, solo il secondo può meritarsi l’appellativo di lirico. Il motivo dell’assenza della lirica, continua nello Zibaldone,[32] risiede nella mancanza dell’eloquenza che solo Petrarca ha saputo infondere nella sua poesia e mirabilmente nelle tre canzoni O aspettata, Spirto gentil, Italia mia. Tra i cinquecentisti il Tasso è stato eloquente scrivendo di se stesso, delle sofferenze che la vita gli ha inflitto, anche se è stato eguagliato, a parere di Giordani, da Lorenzino dei Medici nella sua Apologia, mentre il Della Casa, imitandolo, non ha ottenuto che uno stile affettato.[33] Ma l’arte di esprimersi con efficacia persuasiva, interessando e commovendo, la si ritrova sia nella prosa sia nella poesia; ma se nella poesia eloquente il lettore può trovare quelle emozioni e quelle immagini indefinite che lo appagano, e che contraddistinguono la vera poesia, nella prosa oratoria tale lettore rimarrà sempre inappagato, come già rilevava Cicerone.[34]

 

Quanto alla lirica, io dopo essermi annoiato parecchi giorni colla lettura de’ nostri lirici piú famosi, mi sono certificato colla esperienza di quello che parve al Parini, e pare a voi, secondo che mi diceste a voce, e credo che oramai sia divenuta sentenza comune, se non altro, degli intelligenti, che anche questo genere capitalissimo di componimento abbia tuttavia da nascere in Italia, e convenga crearlo. Ma fra i quattro principali che sono il Chiabrera il Testi il Filicaia il Guidi, io metto questi due molto ma molto sotto i due primi; e nominatamente del Guidi mi maraviglio come abbia potuto venire in tanta fama che anche presentemente si ristampi con diligenza e piú volte. E perché il Chiabrera con molti bellissimi pezzi, non ha solamente un’Ode che si possa lodare per ogni parte, anzi in gran parte non vada biasimata, perciò non dubito di dar la palma al Testi il quale giudico che se fosse venuto in età meno barbara, e avesse avuto agio di coltivare l’ingegno suo piú che non fece, sarebbe stato senza controversia il nostro Orazio, e forse piú caldo e veemente e sublime del latino […].Ma non è maraviglia che l’Italia. non abbia lirica, non avendo eloquenza, la quale è necessaria alla lirica a segno che se alcuno m’interrogasse qual composizione mi paia la piú eloquente fra le italiane, risponderei senza indugiare, le sole composizioni liriche italiane che si meritino questo nome, cioè le tre Canzoni del Petrarca, O aspettata, Spirto gentil, Italia mia.

 

Il recanatese sviscera poi da un’altra angolatura il sentimento della compassione, che la vera poesia lirica è chiamata a suscitare nei lettori. La compassione spesso è fonte di amore e nasce per gli oggetti belli, o che diventano tali grazie al compatimento. In quest’ultimo caso la compassione è durevole. Cosí i soggetti poetici dovranno essere amabili per muovere a compassione il lettore, che d’altronde immaginerà attraente anche il poeta; se accadesse il contrario il lettore ne sarebbe disgustato: è infatti inimmaginabile pensare a un Petrarca brutto mentre parla di se stesso, delle sue sventure e dei suoi amori sfortunati.[35]

Per Leopardi, da ultimo, le rime del Petrarca riconosciute esemplari dal consesso dei letterati hanno generato nei posteri un plateale fenomeno di scoperta imitazione. Esempio lampante sono le Rime di Eustachio Manfredi, in particolare le canzoni, dove il settecentesco ha imitato pedissequamente Petrarca «e anche affettatamente e servilmente come dove dice: Canzone O tra quante il sol mira altera e bella Pel giorno natalizio di Ferdinando di Toscana: Rade volte addivien, ch’altrui sublimi Fortuna ad alto onor senza contrasti, (Rade volte addivien ch’all’alte imprese Fortuna ingiuriosa non contrasti: Petrarca Spirto gentil ec.) e altrove.»[36] Però qualunque scrittore emuli un altro nelle sue opere, se viene smascherato, sarà considerato sempre inferiore e ricordato per essere un buon contraffattore dell’imitato; anche se era costume soprattutto in Italia iniziare la propria carriera letteraria ricalcando i classici, tant’è che anche Tasso cominciò poetando alla maniera del Petrarca, ma le sue imitazioni non sono ricordate che come esercizio di bella scrittura e non eguagliarono certo il maestro.[37] Continua Leopardi: l’imitazione è anche una particolare forma di assuefazione inconsapevole, rientrando in quella naturale predisposizione che l’uomo ha di assimilare come propria la lettura piú recente e di riprodurla nella scrittura. Anche il recanatese n’è stato vittima: «avendo letto fra i lirici il solo Petrarca, mi pareva che dovendo scriver cose liriche, la natura non mi potesse portare a scrivere in altro stile ec. che simile a quello del Petrarca. Tali infatti mi riuscirono i primi saggi che feci in quel genere di poesia. I secondi meno simili, perché da qualche tempo non leggeva piú il Petrarca. I terzi dissimili affatto, per essermi formato ad altri modelli, o aver contratta, a forza di moltiplicare i modelli, le riflessioni ec. quella specie di maniera o di facoltà, che si chiama originalità[38] Quando la facoltà d’imitazione è applicata consapevolmente a un testo, è al contrario positiva, perché è studio profondo della lingua, è riformulazione originale e artistica di una lingua a un’altra, tant’è che i letterati italiani risultano essere superiori agli altri nel tradurre e conoscere la lingua latina perché l’hanno saputa meglio imitare nelle loro opere a partire proprio da Petrarca.[39]

Un altro modo di chiamare a testimone Petrarca nello Zibaldone è quello di indicarlo come esempio in argomenti filosofici. Per Leopardi l’istinto fondamentale dell’uomo è quello del piacere, infinito in estensione, che trova appagamento nella immaginazione dell’ambiente che lo circonda e non nella realtà. Il contrasto tra l’aspirazione continua al piacere e la frustrazione della conoscenza dell’habitat, che la scienza inevitabilmente comporta, è fonte di pena e di noia. Quindi l’uomo, secondo la teoria di Leopardi, è portato a ricercare il piacere nelle illusioni, nelle belle immaginazioni che la poesia crea. Naturalmente queste sono tanto maggiori nei poeti classici, i greci, i latini, gli italiani come Petrarca che nei versi «Verso occidente, et che ’l dí nostro vola / A gente che di là forse l’aspetta», con l’avverbio “forse” riesce a rendere palpabile tutte le fantasie dilettose che gli uomini si creavano nell’incerta conoscenza degli antipodi. Una volta misurata la grandezza dei poli e trasferita la loro sagoma sull’arido mappamondo, qualunque sua rappresentazione fantastica è sparita nella mente degli uomini e con essa il piacere provato nel concepirla, nel tradurla in parole, nel condividerla e tramandarla ad altri uomini. La matematica quindi è l’opposto del piacere perché analizza, misura e circoscrive la natura che non vuole confini per essere dilettevole. L’animo umano si appaga di sensazioni piccole ma indeterminate, dai contorni sfilacciati, evanescenti piuttosto che di grandi, determinate, dai contorni visibili, reali. La scienza come la matematica è quindi nemica del piacere, la certezza distrugge la grandezza dell’incertezza tutta esemplarmente racchiusa in quel “forse” del Petrarca.[40] A proposito dei diversi uffici dei campi del sapere e del loro riconoscimento sociale, il recanatese constata che gli scopi che i poeti e i filosofi perseguono nella loro ricerca sono diversi: i primi ricercano il bello; i secondi il vero. Per ottenere buoni risultati, entrambi sono partecipi mediocremente della scienza dell’altro. I moderni, contrariamente agli antichi, però considerano la poesia e la filosofia come due facoltà facilmente esercitabili da ogni uomo, senza considerare che queste facoltà sono per l’intelletto le piú ardue; perciò il lavoro dei poeti e dei filosofi non viene adeguatamente riconosciuto dalla società, al contrario di quello del matematico, del medico, del pittore, del musico, come ben riassume Petrarca nel verso «Povera et nuda vai philosophia».[41] Con i versi petrarcheschi «Quante volte diss’io / Allor pien di spavento: / Costei per fermo nacque in paradiso» Leopardi invece riflette su come la forte impressione che produce la bellezza induca allo spavento perché lo spettatore ritiene impossibile fare a meno dell’oggetto contemplato e, insieme, ritiene impossibile possederlo come vorrebbe, cioè diventando una cosa sola con esso. Il desiderio, in particolare quello d’amore che è cosí forte, atterrisce col pensiero di tutte le pene che esso produrrà non potendo essere soddisfatto e non vedendosi come esso possa finire. Oggi invero ciò accade solo ai giovani inesperti, poiché gli adulti sanno che l’amore passa facilmente o può essere soddisfatto e cosí in genere è facile ottenere ciò che si brama. Solo i fanciulli vivono con spavento i desideri forti.[42]

L’Interpretazione leopardiana delle Rime di Petrarca

Nel novembre 1825 l’editore Stella commissiona a Leopardi il commento delle Rime di Petrarca per la collana Biblioteca amena ed istruttiva per le donne gentili. Il recanatese si pone al lavoro, ma ben presto si rende conto che commentare un poeta, e precisamente il poeta che ha ammirato e preso a modello, non è cosa per niente facile: il rendere la lingua del trecento in quella a lui contemporanea vuol dire toglierle tutta l’immaginazione che la consacra come poetica. Il fitto scambio di missive tra Leopardi e lo Stella da novembre 1825 a settembre del 1826 mette in luce le fasi alterne della realizzazione del progetto editoriale. Leopardi ha preso l’impegno con l’editore e la sua onestà intellettuale gli impone di portare a termine il progetto nel migliore dei modi, consigliando anche l’editore sul modo di articolare la stampa dell’Interpretazione.[43] Nella lettera del 6 gennaio 1826 gli consiglia di dividere la pubblicazione in otto volumetti, quattro per le Rime in vita di madonna Laura e quattro per quelli in morte, per agevolare la lettura. Il consiglio viene accolto e l’Interpretazione uscirà in nove volumetti, non in otto, perché ne sarà aggiunto uno dedicato ai Trionfi e alle Rime sparse. Una volta decisa la veste editoriale, Leopardi si preoccupa dell’aspetto squisitamente filologico del testo da pubblicare e decide di seguire quello del Marsand che però riforma nella punteggiatura, per lui chiaramente errata. Lo Stella, confermata la scelta, chiede a Leopardi di aggiungere anche una vita del Petrarca: il recanatese rifiuta decisamente, osservando che molte e esaurienti biografie erano già state pubblicate, e riassumere poi una di queste per inserirla in una collana amena avrebbe significato essere parziali.

 

Nella vita del Petrarca non si può essere breve. Faremo sempre o una testa piú grande del corpo, o uno schizzo incompleto, superficiale e inutile.[44]

 

Poi rivolge la sua attenzione ai commenti pubblicati per operare i confronti necessari e chiede con insistenza all’editore di spedirgli il Petrarca illustrato del Marcheselli, da poco pubblicato a Firenze. Dopo molte insistenze riceve i volumi, li consulta e scrive indignato allo Stella che glieli rispedirà per l’assenza di commenti e per gli errori grammaticali che vi ha trovato, chiara denuncia dell’ignoranza del curatore.

 

Con mio dispiacere le dico che tutta l’illustrazione del Petrarca di Firenze consiste in un volume di bibliografia petrarchesca. Neppure una sillaba di commento o note. Non ho tagliata ne anche una carta, e serbo qui l’opera intatta, a sua disposizione. La stampa è orrida. Che senza il segnacaso, non può essere che o nominativo (il che è fuori del caso nostro) o pure accusativo; e non mai dativo.[45]

 

Leopardi continua il “fatale e amaro Petrarca” preoccupandosi dell’impaginazione dell’Interpretazione che per essere utile ai lettori dovrà seguire immediatamente i versi.

 

Se le dame e i cavalieri saranno obbligati a voltare piú di una pagina per trovare la spiegazione del passo che avranno per le mani, tutta la facilità che abbiamo voluto procurar loro con questa interpretazione, sarà vanissima, inutilissima, svanirà interamente, e la sua edizione non avrà incontro maggiore delle altre.[46]

 

Escono i primi volumi e l’insoddisfazione per il lavoro si accresce: scrive alla sorella Paolina:

 

Ti mando il primo tometto del Petrarca; ne sto aspettando altri due, e te li manderò: gli altri usciranno a momenti, perché il mio lavoro è ormai finito. Vedrai che sorte di fatiche toccano alle volte ai poveri letterati. Ma questa per me è la prima, e sarà certamente l’ultima di questo genere; e non avrei fatta neppur questa, se non mi ci fossi obbligato con una parola detta inconsideratamente, che mi ha fatto disperare. Pure me ne sono cavato piú presto ch’io non credeva.[47]

 

Mentre all’amico Papadopoli, nell’annunciargli l’uscita dei primi tre volumetti, consiglia di ponderare l’acquisto perché questo commento non lo sente come un suo lavoro.

 

Ma ella è un’opera fatta senza inclinazione alcuna, per soddisfare a un libraio, che ne aspetta molto guadagno. Io non la tengo per mia e tu non ci pensare.[48]

 

Comunque Leopardi continua diligentemente e puntigliosamente le correzioni alla stampa e costringe l’editore a pubblicare, all’uscita di tutti i nove volumi, un fascicoletto con l’errata-corrige complessiva. Nel novembre del 1826 i nove volumetti dell’Interpretazione sono stati pubblicati, ma Leopardi è sempre piú amareggiato nonostante il discreto successo dell’opera. Non solo il pubblico femminile degli abbonati alla collana ha letto e apprezzato l’opera, ma anche molti letterati gli riservano lodi, insieme agli insegnanti di lingua e letteratura italiana agli stranieri.

 

Qui in Bologna, in Romagna e in Toscana, non solo le donne, ma i primi letterati hanno fatto un’accoglienza diversa a quel mio comento; non l’hanno giudicato indegno del loro proprio uso; hanno detto che non era possibile di spiegare un autore né piú pienamente e chiaramente, né con piú risparmio di parole; ed alcuni mi hanno confessato di avere, coll’aiuto di quello, intesi per la prima volta parecchi luoghi che fino allora non avevano intesi mai, o vero avevano intesi a rovescio. In fine sono arrivati a dire che quello dovrebbe servir di modello a tutti i correnti; e in Bologna se ne sarebbe intrapresa subito una ristampa se non si fosse saputo che io mi vi sarei opposto con tutto il mio potere.[49]

 

So che a Roma il suo Petrarca è adottato da quei privati che danno lezioni di lingua e letteratura italiana ai tanti inglesi ec. Che passano colà l’inverno.[50]

 

Le critiche accompagnano ogni successo e l’Interpretazione non ne è certo esente: nella lettera allo Stella del 13 settembre Leopardi si difende dalle accuse di scolasticità mossegli da alcuni che hanno considerato il suo annotare i casi dei nomi o i generi dei verbi come un affronto alla loro preparazione culturale, mentre il suo intento era quello di appianare le difficoltà della costruzione linguistica. Per ribattere pubblicamente alle critiche, il recanatese propone all’editore, che accetterà, di scrivere una brevissima risposta da porre alla fine dell’ultimo volumetto. In questa replica, con un tono tra sarcastico e risentito, ribatte punto per punto a quanti hanno voluto criticarlo: da coloro che si aspettavano un’esegesi del pensiero di Petrarca, a coloro che, osservando che Petrarca non è oscuro, in sostanza ritengono superflua la sua fatica. Insomma, dopo aver chiesto perdono a tutti, a coloro che si aspettavano un approfondimento maggiore e a coloro che si sentivano quasi offesi dalle spiegazioni linguistiche fornite, Leopardi conclude ironico e sdegnato:

 

In ultimo domando perdono a tutto l’esercito innumerabile dei pedanti d’ogni nome e d’ogni bandiera, e a tutto il piccolissimo numero dei loro contrari: a questi, di avere scritta una interpretazione, a quelli, di non averla scritta a lor modo. E a tutti, o che mi perdonino o no, desidero tanta sanità e contentezza, quanta costanza avranno nelle loro opinioni fino alla morte. Cosí sia.[51]

 

L’opera si vende bene e l’editore insiste perché Leopardi accetti l’offerta fatta alcuni mesi addietro di commentare allo stesso modo l’opera del gesuita grammatico Marcantonio Mambelli, detto Cinonio; la risposta di Leopardi è negativa con riserva: se del commento l’editore ha assoluto bisogno per consolidare la sua posizione sul mercato è disposto ad assecondare il suo progetto a patto che il lavoro esca sotto pseudonimo: non vuole correre il rischio di entrare a far parte della schiera dei pedanti, di quegli scrittori cosí esecrati da lui stesso nelle sue opere.

 

Signore ed Amico carissimo. Eccomi a dirle del Cinonio. Trovo che questo lavoro sarà dei lunghi e noiosissimo, altrettanto e piú che il Petrarca, senza stimolo alcuno di fama o di lode all’autore. Ciò non ostante, giudicando Ella che esso debba riuscirle utile, eccomi a servirla. Ma avendo io già pubblicata col mio nome un’opera affatto pedantesca, com’è il comento al Petrarca, mi prendo la confidenza di porle in considerazione che il pubblicarne un’altra dello stesso genere, non potrà essere senza che il Pubblico mi ponga onninamente e per viva forza in quella classe dalla quale colle mie parole e cogli altri miei scritti ho tanto cercato di separarmi; nella classe di quelli che deprimono e rendono frivola, nulla, ridicola agli occhi degli stranieri, la nostra letteratura, e con ciò servono mirabilmente alle intenzioni dell’oscurantismo; nella classe dei pedanti. Io la prego però di volere avere al mio nome questa compassione di salvarlo da questo epiteto, nel quale esso incorrerà inevitabilmente se la nuova opera sarà annunziata per mia. Quando Ella si debba pubblicare anonima o sotto altro nome, non sarà però scritta con minor cura, attenzione, minutezza di quella ch’io userei nell’opera dove fosse maggiormente interessato il mio onore. Ella mi conosce, credo, abbastanza per essere persuasa che io non saprei neppure scrivere senza usar tutta la diligenza che mi è possibile per fare il meglio ch’io so.[52]

 

Petrarca nello Zibaldone dal novembre 1825 al giugno 1826.

Durante la stesura dell’Interpretazione i pensieri dello Zibaldone[53] che richiamano la figura e l’opera di Petrarca si fanno piú rari e riguardano essenzialmente aspetti della lingua letteraria italiana e dei legami da questa instaurati con le lingue greca e latina. Cosí Leopardi rileva una costruzione del verbo tipica della lingua greca passata nell’italiana e di cui è esempio il verso petrarchesco «Poi che s’accorse chiusa da la spera», dove il verbo di percezione regge al posto dell’infinito il participio con funzione predicativa.[54] A questa costruzione ne aggiunge un’altra dalla lingua latina, dello scrittore Floro, dove in due luoghi usa la particella “inde” con valore di moto a luogo, “onde vai” e transitata nella lingua italiana con “onde” per “dove” e “altronde” al posto di “altrove”. Gli esempi riportati a supporto della tesi si leggono già nei primi pensieri (511-512, 1421, 2865) e sono in gran parte ripresi dal Forcellini o dal vocabolario della Crusca, mentre negli ultimi due (3430, 4162) il recanatese cita due luoghi petrarcheschi: «Et io contra sua voglia altronde ’l meno» e «là onde anchor come in suo albergo vène».[55] Conseguentemente nell’Interpretazione il primo verso viene reso: «per altra via, per altra parte» e il secondo «colà dove. Vuol dire nel cuore».

Ma piú numerosi sono i pensieri dove il recanatese richiama i versi petrarcheschi per esemplificare costruzioni grammaticali particolari come quella del genitivo per l’accusativo manifeste nei versi: «degnò mostrar del suo lavoro in terra»; «Cosí avestú riposti / De’ be’ vestigi sparsi»; «Fammi sentir de quell’aura gentile»; «Per non provar de l’amorose tempre!»; «De la sua gratia sopra me non piove»; «m’àn fatto habitador d’ombroso bosco».[56] Costruzioni parzialmente accolte o del tutto taciute nell’Interpretazione.[57] O per verificare l’uso inusuale, ricercato, “elegante” di aggettivi, parole, preposizioni e verbi. Cosí nel 4140 il verso «disperse dal bel viso inamorato» e «move da lor inamorato riso» vengono citati per l’uso di “innamorato” al posto di “che innamora”; il verso «Senza sospetto di trovar fra via» per “tra via, fra via” al posto di “in via”; il verso «Poi fuggite dinanzi a la mia pace» per “poi” al posto di “nondimeno”. Nel 4160 i versi 34 e 37 «Et non se transformasse in verde selva, / Ma io sarò sotterra in secca selva» per l’uso latino di chiamare “selva” la “pianta, l’albero” e per traslato: nel primo caso “alloro”, nel secondo “legno”. Nel 4182 il verso «Che ’l furor litterato a guerra mena» per “litterato” al posto di “letterario”; i versi 4-5 «Nel Signor, che mai fallito / Non ha promessa a chi si fida in lui» per “fallire la promessa” al posto di “mancare promessa”. Inoltre in quest’ultimo pensiero c’è il richiamo generico alla canzone-frottola Mai non vo’ piú cantar com’io soleva, come esempio di componimento di origine popolare, costituito da filastrocche, da proverbi, da motti sentenziosi, spesso legati tra loro.[58]

In un solo caso riprende e amplia precedenti argomentazioni linguistiche con l’autorità delle rime dell’aretino. Infatti se nei pensieri 4000 e 4090 il recanatese ritorna su “altro” nel significato di “alcuna cosa” e quindi di “nulla”,[59] nel 4182 completa le osservazioni antecedentemente fatte in 3587-3588[60] sull’idiotismo “senz’altro”, aggiungendo che può assumere anche il significato di “senza nessuno”, ne riprende l’esempio «Altro voler o disvoler m’è tolto» insieme ad altri due: «Senz’altra pompa, di godersi in seno», e in «Sí che s’altro accidente nol distorna».[61] Ma nell’Interpretazione però il recanatese preferisce rendere le locuzioni con “alcuna volontà propria; altra volontà”, “senza alcuna pompa” e “qualche accidente” e non con “nessuna volontà”, “nessuna pompa” e “nessun accidente”.

Petrarca nello Zibaldone dopo il giugno 1826.

Prima di esaminare i richiami a Petrarca negli ultimi pensieri dello Zibaldone, vogliamo porre l’attenzione sul progetto che l’editore Stella propone a Leopardi dopo l’uscita dell’Interpretazione, il Dizionario filosofico, mai iniziato, che ci aiuta a collocare le ultime tessere del rapporto tra il recanatese e l’aretino. Il lavoro preparatorio è tutto in uno scambio di lettere tra i due: Leopardi si lamenta che rileggere i propri pensieri, ordinarli per materia e riscriverli con uno stile unitario è un’impresa molto faticosa e dispendiosa in termini di tempo, ma conclude che comunque inizierà il lavoro stilando per prima cosa degli Indici degli argomenti.[62] Incoraggiato dalla risposta dell’editore, annuncia di aver iniziato il lavoro e di aver redatto anche degli elenchi, che potrebbero essere pubblicati separatamente, di argomenti sulla lingua vista da diverse angolature, da quella storica alla filosofica.[63] La revisione cursoria del materiale avviene cosí tra il luglio 1827 e l’ottobre dello stesso anno, con l’Indice che porta in calce le datazioni cronologiche e topiche: «cominciato agli undici di Luglio del 1827, in Firenze» e «Finito questo dí quattordici ottobre del 1827, in Firenze»; e l’indicazione dei passi riletti: «Questo Indice si intende dalla pagina 1 del Zibaldone di Penseri alla pagina 4295».

Sotto la voce “Francesco Petrarca”, Leopardi raccoglie circa un terzo delle ricorrenze totali.[64] In questi pensieri la figura di Petrarca viene ridimensionata, pur rimanendo sempre nodale nella nostra lingua e letteratura nazionale. Il recanatese sceglie i pensieri che rilevano le caratteristiche del suo stile;[65] la sua formazione esemplata sui testi dei poeti latini, testi che in alcuni versi delle tre canzoni «O aspectata in ciel beata et bella, Spirto gentil, che quelle membra reggi e Italia mia, benché ’l parlar sia indarno» supera per la bellezza delle immagini;[66] il rapporto che intrattennero con le sue opere i letterati del Cinquecento, per alcuni dei quali era soltanto l’unico lirico da imitare mentre altri, come il Della Casa, si staccarono da questo giudizio;[67] la sua efficace esortazione perché i potenti cristiani liberassero il sepolcro di Cristo, tenendo vivo quell’odio verso i Turchi che le Crociate avevano fomentato nei cristiani e che si prolungherà fino alla Gerusalemme del Tasso.[68] Ma non omette i pensieri dove rileva che solo Dante ebbe la consapevolezza che la lingua italiana, sebbene in via di consolidamento, poteva esprimere degnamente materie gravi come la letteratura, al contrario di Petrarca che la considerava forma propria per un pubblico minore composto da donne e da cavalieri.[69]

Negli ultimi pensieri dello Zibaldone, dal 4183 al 4526, le Rime vengono essenzialmente citate come esemplificazioni di costruzioni verbali passate dal greco all’italiano o di significati particolari di verbi o aggettivi. Nel primo caso Leopardi osserva che l’uso dell’imperfetto indicativo in luogo del congiuntivo nel periodo ipotetico dell’irrealtà è tipico del greco, che ricorre all’indicativo storico sia nella protasi sia nell’apodosi, come nei versi «ch’ogni altra sua voglia / Era a me morte, et a lei fama rea».[70] Nel Pensiero si legge “infamia” per “fama” e questa diversa lezione trova spiegazione nella nota dell’Interpretazione ai versi 95-97: «e quando piú ne avesse saputo, non sarebbe però stata verso di me altra da quel che fu, ché il trattarmi ella altrimenti non sarebbe potuto essere senza morte dell’anima mia né senza infamia sua propria.» Nel 4495 il recanatese invece riporta il verso «E vedrà il vaneggiar di questi illustri» come esempio di “vaneggiare” nel significato di “essere vano” e il verso «L’aere gravato, et l’importuna nebbia» per l’uso di “gravato” per “grave”.[71] Nell’Interpretazione “gravato” viene coí spiegato: «carico di vapori; torbido, nuvoloso».

È probabilmente un ritorno alla memoria del lavoro fatto per l’Interpretazione il pensiero 4417, dove il recanatese riprende, condividendola, un’osservazione di Perticari a proposito dell’autografo del Canzoniere, secondo la quale in esso si trovavano versi «pieni sempre di chiarissimi errori, che accusano la mano del Petrarca non essere stata troppo obbediente all’intelletto di lui.»[72]

Se esaminiamo l’elenco dei passi dello Zibaldone redatto per il Dizionario filosofico, ci accorgiamo che la figura di Petrarca viene nominata perché citata in frammenti di saggisti che il recanatese stava leggendo, ricopiando e commentando per fini personali, per articoli, per risposte agli autori, o perché esempi lampanti di tematiche già in precedenza discusse. A quest’ultima categoria appartengono il 4440, dove il recanatese rimarca l’assenza di poesia di stile nel suo secolo per ragioni opposte a quelle che la determinarono nei greci e nei latini; e i pensieri 4246[73] e 4491, che ritornano invece sull’argomento dell’imitazione in poesia, e nelle arti in genere, deleteria per la fama dei grandi scrittori:

 

Il Petrarca, tanto imitato, di cui non v’è frase che non si sia mille volte sentita, a leggerlo, pare egli stesso un imitatore: que’ suoi tanti pensierini pieni di grazia o d’affetto, quelle tante espressioni racchiudenti un pensiero o un sentimento, bellissime ec. che furono suoi propri e nuovi, ora paiono trivialissimi, perché sono in fatti comunissimi. (Zib. 4491)

 

Brani del Discorso sul testo e su le opinioni diverse e prevalenti intorno alla storia della critica della Commedia di Dante scritto da Foscolo occupano i pensieri 4378-4387 e sono puntualmente discussi e sviscerati dal recanatese con riferimento alla sua teoria sulla lingua e letteratura italiana. Nell’ultimo pensiero Leopardi, rifacendosi al paragrafo 203 del discorso foscoliano e riprendendo alcune considerazioni precedenti sulla genesi della prosodia italiana, approfondisce l’origine delle differenze tra quella della poesia di Dante rispetto a quella di Petrarca.[74] L’ultimo frammento, trascritto nel pensiero 4249 (ultimo dell’Indice), è forse il piú interessante, perché ribadisce l’opinione negativa che Leopardi aveva maturato su Petrarca durante il lavoro interpretativo delle Rime e palesato all’editore Stella:

 

Io le confesso che, specialmente dopo maneggiato il Petrarca con tutta quell’attenzione ch’è stata necessaria per interpretarlo, io non trovo in lui se non pochissime, ma veramente pochissime bellezze poetiche, e sono totalmente divenuto partecipe dell’opinione del Sismondi, il quale nel tempo stesso che riconosce Dante per degnissimo della sua fama, ed anche di maggior fama se fosse possibile, confessa che nelle poesie del Petrarca non gli è riuscito di trovar la ragione della loro celebrità. I miei pensieri verserebbero tutti sopra questo punto, ed Ella ben vede che tali pensieri non sono per far fortuna in Italia a questi tempi. Il platonismo poi del Petrarca a me pare una favola perché piú d’un luogo de’ suoi versi dimostra evidentissimamente che il suo amore era come quello di tanti altri, sentimentale sí, ma non senza il suo scopo carnale.[75]

 

Nel pensiero, riportando un severo giudizio di lord Chesterfield «Petrarca è, a mio parere, un poeta di canzonette malato d’amore, assai ammirato peraltro dagli italiani […], che meritava la sua “Laura” piú di quanto meritasse il “lauro”» con cui era stato incoronato a Roma, il recanatese afferma di condividere questa opinione, che certamente avrebbe incontrato pochi sostenitori in Italia.[76]

Si conclude cosí la parabola delle opinioni diverse che Leopardi nutrí su Petrarca nel corso del tempo, parabola cominciata con una sconfinata ammirazione e poi via via modificatasi in seguito a riflessioni e analisi piú mature, fino a giungere a un aperto ridimensionamento. Maturando uno stile suo proprio e approfondendo, attraverso l’Interpretazione, gli aspetti linguistici della poesia del Petrarca, se ne venne distaccando poiché in questo lavoro di analisi la poesia del Petrarca venne perdendo l’incanto poetico e immaginativo che fin lí aveva avuto per lui. Ciò non toglie che Petrarca conservi per Leopardi un valore fondamentale nella storia della lingua e della letteratura italiana.

Bibliografia sul Petrarchismo di Leopardi

Angelo Ronzi, Comparazione dell’amore di Petrarca e Leopardi, s. e., Belluno, 1874; Carlo Canetta, Il Petrarca e il Leopardi, in «L’Opinione letteraria», a. I, 11 maggio 1882, n. 19; Antonio Bracchi, La canzone “Italia mia” del Petrarca e quella “All’Italia” del Leopardi, in «Il libro d’oro della Gioventú Italiana», (a. 1891), serie I, aprile, vol. I; Gabriele Pinnarò, Il concetto della vita nella mente del Petrarca e del Leopardi, in «Alessandro Manzoni», a. IV (1896), settembre-ottobre, n. fasc. 18-20; Gaetano Gasperoni, La canzone “All’Italia” del Leopardi in relazione con quella del Petrarca, Tipografia al Rubicone, Savignano sul Rubicone, 1897; G. Alivia, Il sentimento della gloria in Dante, nel Petrarca e nel Leopardi, Satta, Sassari, 1904 (conferenza); Cesare De Lollis, Petrarchismo leopardiano in «Rivista d’Italia», a. VII (1904); Giovanni Rabizzani, Note leopardiane: il Leopardi e il Petrarca, in «Nuova Rassegna di letterature moderne», 1906; Costanzo Lavagno, L’imitazione del Petrarca nella poesia del Leopardi, Aroldi, Casalmaggiore, 1909; Giuseppe De Lorenzo, Dal Petrarca al Leopardi, in Italae vires, Ricciardi, Napoli, 1916; Carmelina Naselli, Il Petrarca nell’Ottocento, Perrella, Napoli, 1923; Mario Vinciguerra, Interpretazione del petrarchismo, Edizioni del Baretti, Torino, 1926; Vincenzo Gerace, Petrarca e Leopardi, in La tradizione e le moderne barbarie. Prose critiche e filosofiche, Campitelli, Foligno, 1927; Cesare De Lollis, Petrarchismo leopardiano, in Saggi sulla forma poetica italiana dell’Ottocento, Laterza, Bari, 1929; Alberto Frattini, Leopardi e Petrarca, in «Italianistica», a. IV (1975), maggio-agosto, n. 2; Neuro Bonifazi, L’immagine della morte dai “Trionfi petrarcheschi” al “Sogno” leopardiano, in Leopardi e la letteratura italiana dal Duecento al Seicento, [Atti del iv convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati 13-16 settembre 1976)], Olsckhi, Firenze, 1978; Emilio Bigi, Leopardi e il petrarchismo, in Leopardi e la letteratura… cit.; Alberto Frattini, Crisi del modello petrarchesco in Leopardi, in Leopardi e la letteratura…cit.; Ettore Bonora, Leopardi e Petrarca, in Leopardi e la letteratura…cit.; Carmine Di Biase, Che cosa devono a Virgilio Petrarca, Leopardi e Manzoni, in «Nostro tempo», 16 maggio 1982; Laura Dall’Albero, Petrarchismo e memoria poetica in Leopardi, in «La Rassegna della letteratura italiana», a. LXXXVII (1983), n. 1-2; Fiorella Gobbini, La poesia poetica del Petrarca e del Leopardi, in «Il letterato», a. 1986, n. 1-3; Luca Dal Monte, Riflessioni di una notte senza luna sull’Italia del Petrarca e del Leopardi, in «Cremona produce», a. 1986, aprile-giugno; Emilio Bigi, Leopardi e il petrarchismo, in Poesia e critica tra fine Settecento e primo Ottocento, Cisalpino-Gogliardica, Milano, 1986; Pier Vincenzo Mengaldo, Leopardi e Petrarca, in «L’Indice dei libri del mese», a. XII (1995), n. 4; Ettore Bonora, Leopardi e Petrarca, in Dall’Arcadia a Leopardi. Studi di letteratura italiana, Mucchi, Modena, 1997; Vittorio Zaccaria, Note sul petrarchismo leopardiano, in «Atti e memorie dell’Accademia galileiana di scienze, lettere ed arti in Padova», a. 1998, n. 111.

Bibliografia delle opere di Petrarca presenti nella Biblioteca di casa Leopardi desunte dal Catalogo della Biblioteca Leopardi in Recanati pubblicato negli «Atti e memorie della R. Deputazione di Storia patria per la Provincia delle Marche», a. 1899, vol. IV.

Francesco Petrarca: Opere con commenti. Venezia, 1515, vol. I; Sonetti e Canzoni, coi commenti di Francesco Philepho, Antonio da Tempo et Niccolò Peranzone, ovvero Riccio Marchesiano, Venezia, 1522; Opere con la esposizione di M. Giovanni Andrea Gesualdo, Venezia, 1533; Cronica delle vite de’ Pontefici ed Imperatori Romani, Venezia, 1534, vol. I; De remediis utriusque fortunae, Venetiis, 1534, vol. I; Opere colla esposizione di Alessandro Velluttelo, Venezia, 1538; Opera de M. Francesco Petrarca de’Rimedi dell’una e l’altra fortuna tradotta per Remigio Fiorentino, Venezia, 1549; Opera omnia. Tomus primus in quo opera Historica ac Philosophica, Basilae, 1554; Rime secondo la lezione del Marsand, con brevi annotazioni, Firenze, 1822; Collezione delle edizioni del Petrarca, e delle opere di Papa Pio ii, Venezia, 1822; Rime col commento di G. Biagioli, Milano, 1823, voll. II.

Marco Mantova Benavides, Annotazioni brevissime sopra le Rime di M. Francesco Petrarca, le quali contengono molte cose a proposito di ragione civile, sendo stata la di lui prima professione a beneficio degli studiosi…, Padova, 1566.

Bibliografia delle edizioni dell’Interpretazione leopardiana delle Rime di Francesco Petrarca.

Rime di Francesco Petrarca colla interpretazione composta dal conte Giacomo Leopardi, vol. I, Stella, Milano, 1826, voll. II (vol. I, Parte Prima: Sonetti e canzoni in vita di madonna Laura; vol. II Parte Seconda Sonetti e canzoni in vita di madonna Laura coi Trionfi e le rime varie); Francesco Petrarca, Le Rime con l’interpretazione di Giacomo Leopardi da lui corretta e accresciuta per questa edizione alla quale si sono uniti gli argomenti di A. Marsand e altre giunte, Stabilimento Lett. - Tipografico G. Cioffi, Napoli, 1841; Rime di Francesco Petrarca colla interpretazione composta dal conte Giacomo Leopardi, Le Monnier, Firenze, 1845; Rime di Francesco Petrarca colla interpretazione composta dal conte Giacomo Leopardi e con note inedite di Francesco Ambrosoli, Barbèra, Firenze, 18722; Rime di Francesco Petrarca con le note di Giacomo Leopardi, Società editrice Toscana, San Casciano in Val di Pesa, 1926; Rime di Francesco Petrarca colla interpretazione composta dal conte Giacomo Leopardi, Le Monnier, Firenze, 1927; Note al Petrarca, Vallecchi, Firenze, 1929; Francesco Petrarca, Le Rime, Cremonese, Roma, 1958; Francesco Petrarca, Rime con l’interpretazione di Giacomo Leopardi, introduzione di Adelia Noferi, Milano, Longanesi, 1976; Le Rime di Francesco Petrarca con l’interpretazione di Giacomo Leopardi, introduzione di Giovanni Nencioni, Le Monnier, Firenze 1989; Francesco Petrarca, Canzoniere, introduzione di Ugo Foscolo, Note di Giacomo Leopardi, Cura di Ugo Dotti, Milano, Feltrinelli, 1992.

Bibliografia della critica sull’Interpretazione di Leopardi delle Rime di Francesco Petrarca.

Fabio Collutta, Il “Petrarca” del Leopardi e la censura milanese, in «Rivista letteraria», a. IV (1932), n. 4; Giorgio Berzero, L’Interpretazione di Giacomo Leopardi delle Rime del Petrarca, in Nuove pagine di critica, Esposito, Chiavari, 1933; Domenico De Robertis, Il Petrarca di Leopardi, in «Il Tempo», 27 agosto 1976; Bruno Biral, La lettera allo Stella sul Petrarca, in Leopardi e la letteratura italiana dal Duecento al Seicento, [Atti del iv convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati 13-16 settembre 1976)], Olsckhi, Firenze, 1978; Ruggero Ruggieri, Sinonimia e parafrasi nel commento leopardiano al Canzoniere del Petrarca, in Leopardi e la letteratura italiana dal Duecento al Seicento, [Atti del iv convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati 13-16 settembre 1976)], Olsckhi, Firenze, 1978; Lucia Barbieri, Su Leopardi interprete delle “Rime”, in Terzo quaderno veronese di filologia, lingua e letteratura italiana, curata da Gilberto Lonardi, Verona, 1988; Antonella Marini, Segni della poetica leopardiana nel Commento alle “Rime” del Petrarca, in «La Rassegna della letteratura italiana», a. 1988, gennaio-aprile, n. 1; Emilio Pasquini, Leopardi e il commento a Petrarca, in Leopardi e Bologna, [Atti del convegno di studi per il secondo bicentenario leopardiano (Bologna 18-19 maggio 1998)] a cura di Marco Antonio Bazzocchi, Olsckhi, Firenze, 1999; Rossella Bessi, Leopardi commenta Petrarca, in «La Rassegna della letteratura italiana», a. 1999, gennaio-giugno, n. 1.



[1] Lettera Ad Antonio Fortunato Stella, 13 settembre 1826. Per l’epistolario si è consultata l’edizione Giacomo Leopardi, Tutte le opere, con introduzione e a cura di Walter Binni, con la collaborazione di Enrico Ghidetti, Firenze, 19896, vol. I.

[2] Nello specifico: Lettera ai compilatori della Biblioteca Italiana: scritta a Recanati il 7 maggio 1816 e pubblicata postuma; Della fama di Orazio presso gli antichi: il discorso fu pubblicato con un titolo leggermente diverso (Della fama avuta da Orazio presso gli antichi) il 15 dicembre 1816 nello «Spettatore italiano»; Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica: scritto tra il marzo e l’agosto del 1818 in risposta alle Osservazioni del cavalier Lodovico di Breme sulla poesia moderna (stampate nelle edizioni del 1 e del 15 gennaio 1818 dello «Spettatore italiano»), fu edito postumo nel 1906. Per i saggi si è utilizzata l’edizione: Giacomo Leopardi, Tutte le opere cit.

[3] Per lo Zibaldone di pensieri si è tenuta presente l’edizione critica e annotata a cura di Giuseppe Pacella, Milano, 1991, voll. III.

[4] La riflessione è contenuta nel saggio Della fama avuta da Orazio presso gli antichi, pubblicato nello «Spettatore italiano» del 15 dicembre 1816: «E chi farà matura considerazione sopra i Lirici e gli Epici di ciascun popolo, verrà chiaro che i secondi tengono d’ordinario nella comune estimazione piú alto grado che i primi, non solo perché la perfezione, se è sí difficilissima e necessaria in ogni genere di poesia, difficilissima e necessarissima è nella lirica; ma ancora perché il volgo (e quando dico volgo, intendo non la plebe, ma la massima parte de’ letterati, arbitra della fama degli Scrittori) suol dare piú sublime luogo all’epica che alla lirica poesia. Il Petrarca, che appo noi sta degnissimamente allato dell’Ariosto e del Tasso, è raro esempio, né la sua maniera di poesia può confondersi con quella di Orazio.» (Si cita dall’edizione Binni-Ghidetti, vol. I, pp. 894-895). Anteriore di alcuni mesi è un altro richiamo a Petrarca e ai suoi celeberrimi versi su Omero «questo cantò gli errori e le fatiche / del figliuol di Laerte e d’una diva, / primo pintor delle memorie antiche.» (Trionfo della Fama III, 13-15) a sostegno dell’inutilità di tradurre nuovamente i poeti greci come pubblicizzato dalla «Biblioteca italiana», e alla quale Leopardi aveva inoltrato una lettera di protesta, datata 7 maggio 1816, mai pubblicata dalla rivista. Le traduzioni erano per il recanatese doverose nel Trecento, quando i poeti greci, soprattutto Omero, non erano conosciuti dalla maggior parte dei letterati italiani ignoranti del greco, ma non ai suoi tempi dove pregevoli traduzioni erano già state eseguite e talvolta in maniera cosí mirabile (l’Illiade del Monti) che difficilmente sarebbero state superate da quelle annunciate di Bernardo Bellini.

[5] Vedi Zib. 3-4: «Il quattrocento restò dal fare, ma conservava l’idea del bello incorrotta; però benché non facesse, pure apprezzava il fatto anzi lo cercava: quindi l’infinito studio de’ Classici e l’erudizione dominante nel secolo. Il cinquecento col capitale acquistato nel 400 e coll’istradamento del 300 tornò a fare. Ma il seicento perché era non debole ma corrotto, non solamente non sapea far bene, ma disprezzava il ben fatto anzi gli dispiacea. Quindi la dimenticanza di Dante del Petrarca ec. che non si stampavano piú. Nel principio del settecento ripigliammo non le forze, ma solo il buon gusto e l’amore degli studi classici, e la prima metà di questo secolo somiglia però al quattrocento, né si fa molto conto di quest’epoca di risorgimento perché non produsse (come il 400) nessun lavoro d’arte […] Ricadute le nostre lettere (nella imitazione e studio degli stranieri) son comparsi nella seconda metà del 700 e principio dell’800 i nostri ultimi lavori d’arte. Questi sono di quegli scrittori che nella corruzione si conservano illesi, non possono essere stimati da molti ec. Ma adesso l’arte è venuta in un incredibile accrescimento, tutto è arte e poi arte, non c’è piú quasi niente di spontaneo, la stessa spontaneità si cerca a tutto potere ma con uno studio infinito senza il quale non si può avere, e senza il quale a gran pezza l’aveano (spezialmente nella lingua) Dante il Petrarca l’Ariosto ec. e tutti i bravi trecentisti e cinquecentisti. Questo avviene perché ora si viene da un tempo corrotto […] e poi quella dei tempi passati, perché adesso conosciamo tutti i vizi delle arti e ce ne vogliamo guardare, e non siamo piú semplici come erano i greci e i latini e i trecentisti e i cinquecentisti perché siamo passati pel tempo di corruzione e siamo divenuti astuti nell’arte, e schiviamo i vizi con questa astuzia e coll’arte non colla natura come faceano gli antichi i quali senza saperne piú che tanto pure perché l’arte era in sul principio e non ancora corrotta non gli schivavano ma non ci cadevano. Erano come fanciulli che non conoscono i vizi, noi siamo come vecchi che li conosciamo ma pel senno e l’esperienza gli schiviamo. E però abbiamo moltissimo piú senno e arte che gli antichi, i quali per questo cadevano in infiniti difetti (non conoscendoli) in cui adesso non cadrebbe uno scolaro. Vizi d’Omero concetti del Petrarca, grossezze di Dante, seicentisterie dell’Ariosto del Tasso del Caro traduzione dell’Eneide ec. E però adesso le nostre opere grandi (pochissime perché ancora siamo nella corruzione onde pochissimi emergono) saranno tutte senza difetti, perfettissime, ma in somma non piú originali, non avremo piú Omero Dante l’Ariosto. Esempio manifesto del Parini Alfieri Monti ec.» Nei pensieri 1056-1059 il recanatese ritorna nuovamente sulla forma imperfetta della letteratura italiana moderna rispetto a quella latina e greca allargando il discorso ai generi dove anche Petrarca non può essere considerato un perfetto poeta sentimentale quanto piuttosto un poeta autobiografico: «Ora lascerò stare che in quelle medesime parti di letteratura che piú soprastanno, e piú furono coltivate in Italia; in quelle medesime dove noi primeggiamo su tutti i forestieri, la nostra letteratura è ben lungi ancora dalla perfezione e raffinatezza della greca e latina, che in queste tali parti sono, e furon prese effettivamente a modelli, da’ nostri scrittori: e per conseguenza propriamente parlando, sono ancora imperfette. Ma la nostra eloquenza, e piú la nostra filosofia (e nella filosofia trovava povera la lingua latina Lucrezio) non sono solamente imperfette, ma neppure incominciate. Quanti altri generi di letteratura, (prendendo questa parola nel piú largo senso), e di poesia come di prosa, o ci mancano affatto, o sono in culla, o sono difettosissimi! Lasciando gl’infiniti altri, la lirica italiana, quella parte in cui l’Italia, a parere del Verri (Pref. al Senof. del Giacomelli), e della universalità degl’italiani, è senza emola, eccetto il Petrarca che spetta piuttosto all’elegia, chi può mostrare all’Europa senza vergogna? Gli sforzi del Parini (veri sforzi e stenti, secondo me) mostrano e quanto ci mancasse, e quanto poco si sia guadagnato.»

[6] Vedi Zib. 392-393: «Oltre il progresso dei lumi esatti; dello studio e imitazione degli esemplari tanto nazionali che antichi; della regolarità della lingua, dello scrivere e della poesia ridotti ad arte ec. un’altra gran cagione dell’estinguersi che fece subitamente l’originalità vera e la facoltà creatrice nella letteratura italiana, originalità finita con Dante e il Petrarca, cioè subito dopo la nascita di essa letteratura, può essere l’estinzione della libertà, e il passaggio dalla forma repubblicana, alla monarchica, la quale costringe lo spirito impedito, e scacciato o limitato nelle idee e nelle cose, a rivolgersi alle parole. Il cinquecento fu, si può dir, tutto monarchico in Italia e fuori, quanto al governo. E le lettere italiane risorsero dal sonno del quattrocento, sotto Cosimo e Lorenzo de’ Medici fondatori della monarchia toscana e distruttori di quella repubblica. E in questo risorgimento (come poi sotto Leon X) le lettere presero una forma regolare, una forma tutta diversa da quella del trecento, e (quel che è piú) da quella che sogliono sempre prendere nel loro risorgimento o nascere. La letteratura italiana non è stata piú propriamente originale e inventiva. L’Alfieri è un’eccezione, dovuta al suo spirito libero, e contrario a quello del tempo, e alla natura de’ governi sotto cui visse.» Confronta poi a questo proposito le stanze 11 e 12 di Ad Angelo Mai (vv. 151-180): «Da te fino a quest’ora uom non è sorto, / O sventurato ingegno, / Pari all’italo nome, altro ch’un solo, / Solo di sua codarda etate indegno / Allobrogo feroce, a cui dal polo / Maschia virtú, non già da questa mia / Stanca ed arida terra, / Venne nel petto; onde privato, inerme, / (Memorando ardimento) in su la scena / Mosse guerra a’ tiranni: almen si dia / Questa misera guerra / E questo vano campo all’ire inferme / Del mondo. Ei primo e sol dentro all’arena / Scese, e nullo il seguí, che l’ozio e il brutto / Silenzio or preme ai nostri innanzi a tutto. // Disdegnando e fremendo, immacolata / Trasse la vita intera, / E morte lo scampò dal veder peggio. / Vittorio mio, questa per te non era / Età né suolo. Altri anni ed altro seggio / Conviene agli alti ingegni. Or di riposo / Paghi viviamo, e scorti / Da mediocrità: sceso il sapiente / E salita è la turba a un sol confine, / Che il mondo agguaglia. O scopritor famoso, / Segui; risveglia i morti, / Poi che dormono i vivi; arma le spente / Lingue de’ prischi eroi; tanto che in fine / Questo secol di fango o vita agogni / E sorga ad atti illustri, o si vergogni.»

[7] Precisa Leopardi in Zib. 59-60 che la perfezione di alcuni versi del Petrarca è stata riconosciuta ed esaltata anche da Alfieri il quale pose ad epigrafe della Virginia i versi 136-137 del Trionfo della Pudicizia: «Quella miserabile lussuria di epiteti, sinonimi, riempiture, chevilles, ec. che forma il comunissimo orpello de’ nostri classici cinquecentisti (e credo anche del Poliziano) però non paragonabili ai latini ma piú ai greci quanto allo stile, non si trova o piú rara assai in Dante e nel Petrarca dove anzi trovi una misuratezza infinita di parole e castigatezza di ornati e significazione conveniente e opportunità di tutte le voci ec. come in quello del Petrarca messo dall’Alfieri avanti alla sua Virginia: Virginia appresso al fero padre armato Di disdegno di ferro e di pietate. Trionfo Castità. Cosí anche le rime del Petrarca sono molto piú spontanee, e con ciò tutto quello che dipende nel verso dalla necessità della rima che alle volte fa aggiungere intieri versi che si potrebbono torre di netto ec. come nei cinquecentisti.»

[8] Vedi Zib. 695-696: «Collo studio, e la giusta applicazione delle norme greche e latine, lo stile del cinquecento generalmente aveva acquistato tal nobiltà e dignità, e tant’altra copia di pregi, che quasi era venuto alla perfezione, eccetto principalmente una certa oscurità ed intralciamento, derivante in gran parte dalla troppa lunghezza de’ periodi, e dalla troppa copia delle figure di dizione, e dall’eccessivo ed eccessivamente continuato concatenamento delle sentenze; vizio tutto proprio di quel secolo, il quale voleva forse con ciò dare al discorso quella gravità che ammirava ne’ latini, ma che si doveva conseguire con altri mezzi (quali sono quegli altri molti che lo stesso secolo ha ottimamente adoperati) […]»; Zib. 698: «Secondariamente il pregio letterario del cinquecento è meno conosciuto, e stimato assai meno del vero, perché non si conosce la somma e singolare ricchezza di quel secolo. Eccetto gli scrittori toscani registrati in buona parte dalla Crusca fra’ testi di lingua, e perciò ricercati per farne serie, e per lusso, e simili motivi, e ristampati per uso di lingua, gli altri toscani, non adoperati dall’antica Crusca, e la massima parte de’ cinquecentisti non toscani, non sono letti quasi da nessuno, conosciuti di pregio da pochissimi dotti, di nome solo da pochissimi altri, e ignorati di nome e di tutto dalla moltitudine dei letterati, da tutto il resto degli odierni italiani, e da tutti quanti gli stranieri. […]»; Zib. 1385-1386: «Ora una lingua senza prosa, come può dirsi formata? La prosa è la parte piú naturale, usuale, e quindi principale di una lingua, e la perfezione di una lingua consiste essenzialmente nella prosa. Ma il Boccaccio primo ed unico che applicasse nel 300 la prosa italiana alla letteratura, senza la quale applicazione la lingua non si forma, non può servir di modello alla prosa. E notate ancora che dunque il Boccaccio ch’era pure sí grande ingegno, scrivendo dopo i 2 grandi maestri sopraddetti, e dopo tanti altri prosatorelli italiani, s’ingannò di grosso intorno alla stessa indole della lingua italiana, intorno alla forma che le conveniva applicandola alla letteratura, vale a dire insomma alla sua forma conveniente, o le ne diede una ch’ella ha poi del tutto abbandonata, e che le divenne subito affatto sconveniente. Dunque la lingua italiana, almeno quanto alla prosa, ch’è il principale, non era ancora formata; il Boccaccio non valse a formarla, anzi errò di gran lunga. Come dunque la lingua italiana fu formata dai detti tre? come fu formata nel 300. se il principale prosatore italiano di quel secolo, e l’unico che appartenga alla letteratura, non conobbe la sua forma conveniente, e se non può servire di modello a veruna prosa?»

[9] Zib. 2578-2579: «La lingua latina ebbe un modello d’altra lingua regolata, ordinata, e stabilita, su cui formarsi. Ciò fu la greca, la quale non n’ebbe alcuno. Tutte le cose umane si perfezionano grado per grado. L’aver avuto un modello, al contrario della lingua greca, fu cagione che la lingua latina fosse piú perfetta della greca, e altresí che fosse meno libera. […] Cosí è accaduto alla lingua italiana. La ragione è ch’ella fu molto e da molti scritta nel 300, secolo d’ignoranza, e che anche allora fu applicata alla letteratura in modo sufficiente per far considerare quel secolo come classico, dare autorità a quegli scrittori, presi in corpo e in massa, e farli seguire da’ posteri. […] Ma quel secolo ignorante non conosceva la greca, pochissimo la latina, massime la latina buona e regolata. […] Quei pochi che conobbero un poco di latino, scrissero con ordine piú ragionato, come fecero principalmente i frati, Passavanti, F. Bartolommeo, Cavalca ec. Dante, e piú ancora il Petrarca e il Boccaccio che meglio di tutti conoscevano il buono e vero latino, meno di tutti aberrarono dall’ordine dialettico dell’orazione. Questi principalmente diedero autorità presso i posteri a’ loro scrittori contemporanei, la massima parte ignoranti, non solo di fatto, ma anche di professione laici e illetterati, e che non pretendevano di scrivere se non per bisogno, come i nostri castaldi. I quali abbondarono di sragionamenti, e disordini gramaticali d’ogni sorta.»

[10] Vedi Zib. 2694-2695: «Formata una volta una lingua illustre, cioè una lingua ordinata, regolare, stabilita e grammaticale, ella non si perde piú finché la nazione a cui ella appartiene non ricade nella barbarie. La durata della civiltà di una nazione è la misura della durata della sua lingua illustre e viceversa. E siccome una medesima nazione può avere piú civiltà, cioè dopo fatta civile, ricadere nella barbarie, e poi risorgere a civiltà nuova, ciascuna sua civiltà ha la sua lingua illustre nata, cresciuta, perfezionata, corrotta, decaduta e morta insieme con lei. Il qual rinnuovamento e di civiltà e di lingua illustre, ha, nella storia delle nazioni conosciute, o vogliamo piuttosto dire, nella storia conosciuta, un solo esempio, cioè quello della nazione italiana. Perché niuna delle altre nazioni state civili in antico, sono risorte a civiltà moderna e presente, e niuna delle nazioni presentemente civili, fu mai civile (che si sappia) in antico, se non l’italiana. Cosí niun’altra nazione può mostrare due lingue illustri da lei usate e coltivate generalmente, (come può far l’italiana) se non in quanto la nostra antica lingua, cioè la latina, si diffuse insieme coi nostri costumi per l’Europa a noi soggetta, e fece per qualche tempo italiane di costumi e di lingua e letteratura le Gallie, le Spagne, la Numidia (che non è piú risorta a civiltà) ec.». Confronta Zib. 3011-3014.

[11] Zib. 4120-4121: «Non solo, come ho detto altrove, nessun secolo barbaro si credette esser tale, ma ogni secolo si credette e si crede essere il non plus ultra dei progressi dello spirito umano, e che le sue cognizioni, scoperte ec. e massime la sua civilizzazione difficilmente o in niun modo possano essere superate dai posteri, certo non dai passati. V. la p. 4124. Cosí non v’è nazione né popoletto cosí barbaro e selvaggio che non si creda la prima delle nazioni, e il suo stato, il piú perfetto, civile, felice, e quel delle altre tanto peggiore quanto piú diverso dal proprio.» Zib. 4124: «A proposito […] della opinione avuta da tutti i secoli (e cosí dalle nazioni) anche i piú barbari, di essere superiori in civiltà, in perfezione, anche in letteratura (benché ignorantissimi), a tutti i secoli precedenti, e a ciascun d’essi, anche civilissimo e letteratissimo, vedi un bel luogo del Petrarca, citato e tradotto elegantemente da Perticari nel Trattato degli Scrittori del 300, lib.1. capit.16. p.92.93.»

[12] Vedi Zib. 1284-1285: «Ma anche senza considerare nei primitivi alfabeti, o alfabeto, veruna imperfezione, ripeto che l’applicare le parole pronunziate ai segni allora inventati, dovè necessariamente patire le stesse difficoltà, che si patiscono nel discendere dalla teorica alla pratica. Osserviamo i fanciulli che incominciano a scrivere, ancorché sappiano ben leggere; ovvero gl’ignoranti che sanno però ben formare tutte le lettere, e scrivono sotto la dettatura. Quanti spropositi derivati dalla poca pratica che hanno di applicare quel tal segno a quel tal suono, e di analizzare la parola che odono, risolvendola ne’ suoni elementari, per applicare a ciascun suono elementare il suo segno. […]. Appena riescono essi a copiar bene, cioè trasferire non da suono a segno, ma da segno a segno. Cosí i fanciulli principianti di scrittura, se hanno da scrivere sotto dettatura, o scrivere senza esemplare sotto gli occhi, quelle parole che pensano. Cosí anche gli uomini fatti, e che sanno ben parlare, ma non avvezzi a scrivere o leggere, ommettono, traslocano, cambiano, aggiungono tante lettere, fanno la loro parola scritta cosí diversa dalla parlata, ch’essi stessi si vergognerebbero di pronunziar la loro scrittura nel modo in cui ella giace. Ma essi credono che corrisponda alla pronunzia. […] Lo scrittore che scrive traslatando nella carta le parole che la mente gli suggerisce, scrive sotto la sua propria dettatura. Quanto dunque dovè tardare prima di perfezionarsi nel rappresentare con segni ciascun suono che concepiva! E gl’infiniti errori prodotti dalla necessaria imperizia de’ primi scrittori, dovettero perpetuarsi in gran parte nelle scritture, e confondere e guastare non poche parole, le loro forme, i loro significati, ec.» Zib. 1659: «L’italiana e la spagnuola sono in ciò le piú perfette fra le moderne, forse perché furono coltivate prima delle altre, e passarono in mano delle persone istruite, quando erano ancor molli, e prima che il modo di scriverle fosse già determinato dall’uso quotidiano degl’ignoranti e negligenti. L’ortografia italiana era molto imperfetta, com’è naturale, ne’ trecentisti, e nello stesso Dante, Petrarca ec.» Confronta Zib. 1660, 2460-2462, 4417.

[13] Vedi Zib. 321-322: «Una delle prime cagioni della universalità della lingua francese, è la sua unicità. Perché la lingua italiana (cosí sento anche la tedesca, e forse piú) è piuttosto un complesso di lingue che una lingua sola, potendo tanto variare secondo i vari soggetti, e stili, e caratteri degli scrittori ec. che quei diversi stili paiono quasi diverse lingue, non avendo presso che alcuna relazione scambievole. Dante - Petrarca e Parini ec. Davanzati - Boccaccio, Casa ec. […]. Dal che come seguono infiniti e principalissimi vantaggi, cosí anche parecchi svantaggi. 1. che lo straniero trova la nostra lingua difficilissima, e intendendo un autore, e passando a un altro, non l’intende. (Cosí nei greci) 2. che potendosi scrivere o parlare italiano senza essere elegante ec. ec. ec. lo scrittore italiano volgare scrive ordinariamente malissimo; cosí il parlatore ec. Al contrario del francese, dove la strada essendo una, e chiusa da parte e parte, non parla francese chi non parla bene; e perciò quasi tutti i francesi scrivono e parlano elegantemente, ma sempre di una stessa eleganza, e quanto al piú e il meno, le differenze sono cosí piccole, che se i francesi le sentono nei loro diversi scrittori, agli esteri son quasi impercettibili. Laddove le differenze de’ buoni stili italiani, saltano agli occhi di chicchessia. Cosí anche dei greci.». In precedenza, sempre in tema di lingua universale, Leopardi aveva indicato come una delle caratteristiche delle lingue greca e italiana la comune facoltà di costruire sempre nuovi vocaboli ed espressioni che la rendono vastissima tanto da permettere ad ogni scrittore di scegliersi una lingua caratterizzante, portando ad esempio la diversità delle lingue di Dante e dell’Alfieri se paragonate a quelle del Petrarca. Vedi Zib. 243-245: «L’universalità di una lingua deriva principalmente, dalla regolarità geometrica e facilità della sua struttura, dall’esattezza, chiarezza materiale, precisione, certezza de’ suoi significati ec. cose che si fanno apprezzare da tutti, essendo fondate nella secca ragione, e nel puro senso comune, ma non hanno che far niente colla bellezza, ricchezza (anzi la ricchezza confonde, difficulta, e pregiudica), dignità, varietà, armonia, grazia, forza, evidenza, le quali tanto meno conferiscono o importano alla universalità di una lingua […] La lingua greca sebbene ricchissima ec. ec. ec. tuttavia era semplicissima nella sua nativa costruzione, […] laddove la latina era estremamente figurata, e la proprietà de’ suoi composti le dava una facilità e precisione materialissima di significati, sebbene nuocesse non poco alla varietà la quale non può risultare dalla copia de’ composti ma delle radici, come nel latino e italiano. […] La lingua greca benché ricchissima nondimeno con un piccolo vocabolario può comporre tutto il discorso, e questi vocabolari possono esser molti e diversi, cosa dimostrata dal fatto, e dal vedersi negli scrittori greci piú che in quelli d’altra lingua, che la facilità acquistata nel leggere e intendere uno scrittore, non vi giova interamente nel passare a un altro, dovendovi quasi familiarizzare con un altro linguaggio. Questo appartiene esclusivamente alla lingua, ma anche bisogna notare che la lingua greca come l’italiana, si presta a ogni sorta di stili, e non ha carattere determinato, ma lo riceve dal soggetto e dallo scrittore, laonde il suo carattere varia, anche in questo senso, e per questo motivo, secondo le diverse opere, come la lingua di Dante o dell’Alfieri paragonata con quella del Petrarca ec.» Leopardi dedica molti pensieri alla possibile costituzione di una lingua universale, elaborando una propria teoria che ha anticipato la discussione moderna sulla possibilità di una lingua unica per la comunicazione tra diverse etnie. A titolo d’esempio, vedi sull’argomento le opere di Stefano Gensini, a partire dal saggio Leopardi filosofo del linguaggio e la tradizione italiana in Leopardi e il pensiero moderno, a cura di Carlo Ferrucci, Milano, 1989, pp. 182-198.

[14] Vedi Zib. 1481-1486: «I cattivi parlatori e i trascurati scrittori, sono dunque secondo me, le prime e principali origini dei sinonimi in qualunque lingua. […] Anche gli scrittori eleganti, e massime i poeti furono in causa di questo effetto: perché l’eleganza consiste nel pellegrino e diviso dal volgo; e quindi gli usi metaforici, quindi gli ardiri, le inversioni di significato ec. ec. che messe in uso dagli scrittori eleganti, passarono poi col tempo a prender luogo di proprietà, scacciando le proprietà primitive, e confondendo il significato delle parole proprie, con quello delle parole usate metaforicamente o in qualunque altro modo, nello stesso senso. Anche i parlatori eleganti o affettati sono da considerarsi in questo proposito. Queste osservazioni spiegano il perché sia sempre maravigliosa, e caratteristica negli antichi scrittori la proprietà della favella. Ciò non avviene di gran lunga perch’essi fossero piú diligenti. […] Ma l’esser gli scrittori antichi piú vicini alle prime determinazioni de’ significati e formazioni delle parole, e il formarne essi stessi, non per lusso, che gli antichi non conoscevano, ma per bisogno, o per utile, fanno ch’essi si riguardino e siano veri modelli della proprietà delle voci e dei modi. E infatti la diligenza che vien dall’arte come pur la produce, è in ragione inversa dell’antichità. Ora la proprietà degli scrittori è in ragion diretta; e Plauto e Terenzio e gli altri antichi latini i piú rozzi, sono tanto piú propri quanto meno eleganti di Cicerone. Cosí i trecentisti ignorantissimi, rispetto ai cinquecentisti ec. Dante rispetto al Petrarca e al Boccaccio ec. […] Posto dunque che una parola non è mai o quasi mai sinonima di un’altra della stessa lingua primitivamente, e che le parole non divengono sinonime se non col tempo, e a causa principalmente sí degli scrittori eleganti e de’ poeti, sí molto piú de’ cattivi scrittori e parlatori; ne segue che siccome tutte le lingue, eccetto le primitive, derivano da corruzione di altre lingue, e sono loro posteriori nel tempo ec. cosí le lingue figlie generalmente parlando denno abbondare di veri ed effettivi sinonimi piú delle rispettive madri. Cosí appunto è avvenuto all’italiana rispetto alla latina, sua madre. I sinonimi esistono realmente nella lingua italiana, vi esistono fin da principio (benché da principio non tanti): la lingua italiana ha, non deve negarsi, verissimi sinonimi, e ne ha in grandissima copia, forse piú che altra lingua colta; e ne ha piú assai che non n’ebbe la buona latina. Tutte le lingue moderne colte, generalmente parlando, hanno assai piú sinonimi veri e perfetti che le lingue antiche. Effetto del tempo che distrugge a poco a poco le piccole e sfuggevoli differenze fra i significati di parole, che tuttavia non furono inventate per lusso, ma per vera utilità. Nessuna o quasi nessuna nuova parola che si venga oggi formando e introducendo nelle diverse lingue, è sinonima di altre che già vi si trovino. […] Ciò mostra che i sinonimi non sono mai tali da principio, e che la sinonimia non è primitiva. Ma le parole che già da gran tempo appartengono a ciascuna lingua, o appartenessero alle loro madri, o no, son divenute, e divengono di mano in mano sinonime, e tali diverranno anche molte recentissimamente formate: e ciò massimamente per la trascuranza del favellare e scrivere, e per l’abuso, che siamo forzati di chiamar uso, e riconoscerlo per padrone legittimo.»

[15] Le Osservazioni furono pubblicate nello «Spettatore italiano» in due puntate, il 1 e il 15 gennaio 1818.

[16] Leopardi, per nulla d’accordo con le tesi sostenute dal cavaliere spedí all’editore Stella in due riprese (datate marzo e agosto 1818) le proprie confutazioni, che intitolò Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica. L’editore non le pubblicò e solo nel 1906 potettero essere lette dai critici. Aggiungiamo qui che Leopardi cita la figura di Petrarca anche in altri articoli‑saggi quali La lettera ai compilatori della Biblioteca Italiana scritta in risposta all’annuncio dato dalla rivista di un’edizione complessiva di traduzione italiana di tutti i poeti greci e latini curata da Bernardo Bellini. La risposta, datata 7 maggio 1816 e mai pubblicata dalla Redazione, contiene i motivi di dissenso del recanatese, dove tra l’altro nota che se era lecito tradurre i versi antichi nel Trecento, quando Petrarca chiamava Omero «Primo pintor delle memorie antiche» (Trionfo della fama III, v. 14), oggi è solo una moda deleteria a quella poesia. (Binni-Ghidetti, vol. I, p. 877). Nel saggio Della fama avuta da Orazio presso gli antichi, pubblicato nello «Spettatore italiano» del 15 dicembre 1816, Leopardi invece riflette sulla fortuna che l’opera poetica di Petrarca ha goduto presso i lettori: paragonandola alla sorte che ebbe quella di Orazio rispetto all’epica di Virgilio, indica l’epica come genere preferito dai lettori, mentre la poesia sentimentale si affermerebbe solo come caso eccezionale, appunto quello di Petrarca che convisse con gli epici Ariosto e Tasso. ( Binni-Ghidetti, vol. I, p. 877).

[17] Si cita il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, nell’edizione Binni-Ghidetti, vol. I, p. 923 «Sto a vedere che per iscriver cose da contemporanei, non da bisavoli, dovranno adattarsi alla depravazione e comporre piuttosto da barbari che da vecchi, e che nel seicento, come faceva benissimo l’Achillini quando esclamava, “Sudate, o fochi, a preparar metalli”, cosí operava pessimamente il Menzini, quando e fuggiva con ogni studio quello che il suo tempo cercava […] Sto a vedere che si portarono pedantescamente e da sciocchi il Gravina e il Maffei e gli altri che coll’opera e cogli scritti loro cacciarono finalmente quella peste dall’Italia, ed operarono che si tornasse a leggere e stampare Dante e il Petrarca i quali non erano né contemporanei né confacenti al gusto di quell’età. Crediamo noi che non ci avesse anche allora chi gridasse che quello era il gusto moderno, e quell’altro un gusto da passati, e beffasse la gente sana come abbietta e schiava e superstiziosa, e divota dell’anticaglie, e vaga della ruggine e della muffa, e ghiotta dello stantío?»

[18] Discorso…, p. 931: «E qui non voglio compiangere l’età nostra, […] né pronosticare dei tempi che verranno quello che l’esperienza dei passati e del presente dimostra purtroppo chiaro, che qualunque sarà poeta eccellente somiglierà Virgilio e il Tasso, non dico in ispecie ma in genere; un Omero un Anacreonte un Pindaro un Dante un Petrarca un Ariosto appena è credibile che rinasca.»

[19] Discorso…, p. 932: «L’osservanza cieca e servile delle regole e dei precetti, l’imitazione esangue e sofistica, in somma la schiavitú e l’ignavia del poeta, sono queste le cose che noi vogliamo? sono queste le cose che si vedono e s’ammirano in Dante nel Petrarca nell’Ariosto nel Tasso? dei quali, e massimamente dei tre primi, è stato detto mille volte che sono e similissimi agli antichi, e diversissimi.»

[20] E in Zib. 205 ribadirà che Ossian, seppure traduca in versi le stesse disgrazie e gli stessi dolori dell’uomo, e la stessa frivolezza delle cose che cantarono i greci con Omero, i latini con Virgilio e gli italiani con Petrarca, è meno malinconico, meno coinvolgente, immerge in minor grado «l’anima in un abisso di pensieri indeterminati de’ quali non sa vedere il fondo né i contorni» (Zib. 170) non perché la sua poesia nasca dalla filosofia, dalla razionalità, ma a causa del clima, della terra settentrionale in cui nacque, che influenza, secondo Leopardi, anche la poesia di Byron che dopo averla letta l’ha lasciato «freddissimo, e senza entusiasmo nessuno» (Zib. 262).

[21] Discorso…, p. 935: «Ma il Petrarca, al quale il Breme non conosce poeta che nel genere sentimentale meriti di essere anteposto, quel miracolo d’ineffabile sensibilità, non visse in un tempo che non c’era né psicologia né analisi né scienza altro che misera e tenebrosa, quando la stampa era ignota, ignoto il nuovo mondo, il commercio scambievole delle nazioni e delle province ristretto e scarso e difficile, l’industria degli uomini addormentata da piú secoli in poi, le credenze peggio che puerili, i costumi aspri, quasi tutta l’Europa o barbara o poco meno? […] quando quello stesso secolo che produsse in Dante il secondo Omero, produsse nel Petrarca il maraviglioso l’incomparabile il sovrano poeta sentimentale, chiamato cosí non dico dai nostri ma dai romantici.»

[22] Discorso…, p. 939: «Ma quel ridurre pressoché tutta la poesia ch’è imitatrice della natura, al sentimentale, come se la natura non si potesse imitare altrimenti che in maniera patetica; come se tutte le cose rispetto agli animi nostri fossero sempre patetiche; […] come se non ci fosse piú gioia non ira non passione quasi veruna, non leggiadria né dolcezza né forza né dignità né sublimità di pensieri, non ritrovato né operazione veruna immaginativa senza un colore di malinconico; questa cosa con che nome si deve chiamare? Dunque le cetre dei poeti avranno per l’avvenire una corda sola? e ciaschedun poema assolutamente e tutti rispettivamente saranno unisoni? dunque non ci saranno epopee, non canzoni trionfali, non inni non odi non canti di nessuna sorta se non patetici? […] Ma che diremo dei cantori passati? Dunque Virgilio non fu poeta fuorché nel quarto dell’Eneide, e nell’episodio di Niso ed Eurialo, e che so io? Dunque il Petrarca dove non parlò d’amore non fu poeta?»

[23] Discorso…, p 945: «vedo negletti e avuti a schifo i nostri sovrani scrittori, e i greci e i latini antecessori nostri, e accolte, e ingozzate ghiottissimamente, e lodate e magnificate quante poesie quanti romanzi quante novelle quanto sterco sentimentale e poetico ci scola giú dalle alpi e c’è vomitato sulle rive dal mare; vedo languido e pressoché spento l’amore di questa patria: vedo gran parte degl’italiani vergognarsi d’essere compatriotti di Dante e del Petrarca e dell’Ariosto e dell’Alfieri e di Michelangelo e di Raffaello e del Canova. Ora chi potrebbe degnamente o piangere o maledire questa portentosa rabbia, per cui, mentre i Lapponi e gl’Islandesi amano la patria loro, l’Italia, l’Italia dico, non è amata, anzi è disprezzata, anzi sovente è assalita e addentata e insanguinata da’ suoi figli?»

[24] Vedi Zib. 1209-1210: «Tutti coloro che non sanno il latino o il greco, di qualunque nazione sieno, non sentono armonia veruna ne’ versi latini o greci, se pur non sono assuefatti lungamente ad udirne per qualsivoglia circostanza, ed allora notandone appoco [appoco] le minute parti, e le minute corrispondenze, e relazioni, e regolarità, non si formano l’orecchio a sentirne e gustarne l’armonia. Il qual processo è necessario anche a chi meglio intenda il latino ed il greco. Il nostro volgo trova una certa armonia negl’inni ecclesiastici ec. e nessuna ne troverebbe in Virgilio. Perché? perché gl’inni ecclesiastici somigliano sí per la struttura, l’andamento e il metro, sí bene spesso per la rima, ai versi italiani che il volgo pure è avvezzo a udire e cantare per le strade. E poi, perch’egli è avvezzo ad udire appunto quei tali barbari versi e metri latini. Un italiano assai colto, ma non avvezzo a legger poesia nostra, leggendogli una canzone del Petrarca, mi disse quasi vergognandosi, che trovava privo d’armonia quel metro, e che il suo orecchio non ne era punto dilettato. Il qual metro somiglia a quello delle odi greche composte di strofe, di antistrofe, e d’epodo, ed ha un’armonia cosí nobile e grave, ed atto alla lirica sublime. Soggiunse ch’egli non sentiva il diletto dell’armonia fuorché nelle ottave, e in qualcuno de’ nostri metri che chiamiamo anacreontici. Notate ch’egli non aveva punto quell’orecchio che si chiama cattivo.»

[25] Vedi Zib. 2838-2839: «Onde accade che questi tali poeti e scrittori sappiano di familiare anche ai posteri, quando le loro parole e forme, già divenute abbastanza lontane dall’uso comune, hanno pure acquistato quel che bisogna ad essere elegantissime, perloché già elle come tali s’adoprano dagli scrittori e poeti della nazione, ne’ piú alti stili. Ma non essendo elle ancora eleganti a’ tempi di que’ poeti e scrittori, questi dovettero assumere un tuono e uno stile adattato a parole non eleganti, e un’aria, una maniera, nel totale, domestica e familiare, le quali cose ancora restano, e queste qualità ancora si sentono, come nel Petrarca, benché l’eleganza sia sopravvenuta alle loro parole e a’ loro modi che non l’avevano, com’è sopravvenuta, e somma, a quei del Petrarca. Queste considerazioni si possono fare, e questi effetti si scorgono, massimamente ne’ poeti, non solo perché gli scrittori primitivi di una lingua e i fondatori di una letteratura sono per lo piú poeti, ma perché mancando ad essi la detta materia dell’eleganza niente meno che a’ prosatori, questa mancanza e lo stile familiare che ne risulta è molto piú sensibile in essi che nella prosa, la quale non ha bisogno di voci o frasi molto rimote dall’uso comune per esser elegante di quella eleganza che le conviene, e deve sempre tener qualche poco del familiare. Quindi avviene che lo stile del Boccaccio, benché familiare anch’esso, massime ad ora ad ora, pur ci sa meno familiare, e ci rende piú il senso dell’eleganza e della squisitezza che quello del Petrarca, e dimostra meno sprezzatura, ch’è però nel Petrarca bellissima. Cosí è: la condizione del poeta e del prosatore in quel tempo, quanto ai materiali che si trovano aver nella lingua, è la stessa (a differenza de’ tempi nostri che abbiamo appoco appoco acquistato un linguaggio poetico tutto distinto): il prosatore si trova dunque aver poco meno del suo bisogno, e quasi anche tanto che gli basti a una certa eleganza: il poeta che non si trova aver niente di piú, bisogna che si contenti di uno stile e di una maniera che si accosti alla prosa.» Nei pensieri 3012-3014 Leopardi sottolinea come la ricerca del peregrino per l’eleganza della lingua poetica non sia stata condotta dai poeti nel bacino dei dialetti, e nei rari casi che avvenne come nei poemi di Dante, questi non ebbero seguito se non nelle successive elaborazioni di Fazio degli Uberti, autore del Dittamondo, di Federico Frezzi, che compose il poema allegorico Quadriregio e del settecentesco Alfonso Varano da Camerino, autore delle Visioni; ma certamente Petrarca non considerò come esempio di raffinatezza quella lingua: «In verità i dialetti particolari sono scarso sussidio e fonte al linguaggio poetico, e all’eleganza qualunque. Lo vediamo noi italiani in Dante, dove le voci e inflessioni veramente proprie di dialetti particolari d’Italia fanno molto mala riuscita, né la poesia nostra, né verun savio tra’ nostri o poeti o prosatori ha mai voluto imitar Dante nell’uso de’ dialetti, non solo generalmente, ma neppure in ordine a quelle medesime voci e pronunzie o inflessioni da lui adoperate. […] Il che non accadde a’ poemi di Dante, il quale non fu mai in Italia neppur poeta di scuola, come Omero in Grecia presso i grammatisti medesimi, o certo presso i grammatici (vedi il Laerz. del Wetstenio, tom. 2. p.583. not. 5.); né il dialetto o linguaggio poetico italiano è o fu mai quello di Dante. Dico generalmente parlando, e non d’alcuni pochi e particolari poeti, suoi decisi imitatori, come Fazio degli Uberti, l’autore del Quadriregio Federico Frezzi, ed alcuni dell’ultimo secolo, come il Varano. Neppur la lingua del Petrarca è quella di Dante, né da lui fu presa, né punto si serve de’ particolari dialetti.» (Zib. 3012; 3014).

[26] V. 42 della canzone O aspectata in ciel beata et bella. Vedi Zib. 2508-2513; 2522: «Quanto poi all’eleganza, quelle voci e modi, non essendo piú pellegrini, non sono piú eleganti. Anzi non c’è cosa piú volgare e ordinaria di quelle voci e modi forestieri. Come accade appunto in Italia oggidí, che non si può né parlare né scrivere in un italiano piú volgare e corrente, che parlando e scrivendo in un italiano alla francese. […] Perocché esse l’introducono ed influiscono direttamente, non negli scritti de’ grandi letterati e degli uomini di vero e raffinato buon gusto (come ho detto di quel primo barbarismo) ma nella favella quotidiana, e da questa passa il barbarismo nei libri degli scrittorelli che non istudiano, non sanno, non conoscono, e neanche cercano, né si vogliono affaticare ad indagare altra lingua da quella che son soliti di parlare, e sentire a parlar giornalmente, e non si saprebbero esprimere in altro modo, né possiedono altre voci e forme di dire. […] Di piú formandosi a scrivere sui soli o quasi soli libri stranieri divulgati nella loro nazione, non conoscono altre voci, frasi, e maniere di stile, che quelle di que’ libri, o non si vogliono impazzire a scambiarle coll’equivalenti nazionali, che non hanno punto alla mano. E cosí imbrattano sempre piú la lingua e letteratura nazionale di cose forestiere, anche oltre all’uso della favella ordinaria de’ loro compatrioti. Introdotto cosí, e fondato e propagato in una lingua il barbarismo per la seconda volta, la stessa sua propagazione lo rende inelegante al contrario della prima volta. Perocché allora la lingua volgare non è quella che si chiama cosí e ch’è veramente nazionale, ma è quella barbara e maccheronica che si parla e scrive ordinariamente, e però chi scrive alla forestiera, scrive volgarissimo, e quindi inelegantissimo. Dov’è da notare che allora il barbarismo non è contrario all’eleganza come forestiero: ché anzi il forestiero bene inteso da’ nazionali, e non affettato, è sempre elegante. Ma per l’opposto è inelegante come volgare. […] Ecco che la purità della favella è divenuta quasi sinonimo dell’eleganza della medesima: e questo con verità e con ragione, ma non per altro, se non perch’essa purità è divenuta pellegrina. Cosí quelle voci e modi che una volta perché familiari alla nazione non erano eleganti, anzi fuggite dagli scrittori di stil nobile ed elevato, o che tali pretendevano di essere; divengono già elegantissime e graziosissime perché da una parte si riconoscono ancora facilmente per nazionali, e quindi sono intese subito da tutti, come per una certa memoria fresca, e non riescono affettate, dall’altra parte non sono piú correnti nell’uso quotidiano. E cosí anche le parole e maniere una volta trivialissime e plebee nella nazione, aspirano all’onor di eleganti, e lo conseguiscono, come si potrebbe mostrare per mille esempi di voci e frasi individue. In somma oggi, p.e. fra noi, chi scrive con purità, scrive elegante, perché chi scrive italiano in Italia scrive pellegrino, e chi scrive forestiero in Italia scrive volgare. […]». «Spesso una parola è inelegante, o (se si tratta di verso) impoetica in un senso, ed elegante e poetica in un altro, solamente perché in quello è volgare, e in questo no, o poco frequentemente usata. Come chi dicesse varii in poesia per diversi, parecchi, non peccherebbe contro la buona lingua, avendovene molti esempi, e fra gli altri del Tasso (Discorso sopra vari accidenti della sua vita), ma sarebbe poco elegante, per esser questo significato della detta parola molto volgare e familiare. Ma chi dicesse, come il Petrarca, VARIE di lingue e d’armi e de le gonne, o come Virgilio Mille trahit VARIOS adverso sole colores, non s’allontanerebbe punto dall’eleganza, per la ragione contraria. E notate ch’io non parlo solamente de’ sensi metaforici, i quali possono render poetica una voce usualissima, ed anche impoetichissima, ma parlo eziandio de’ significati propri, come dimostra l’addotto esempio, o de’ poco meno che propri. E quel che dico delle voci, dico delle frasi ec.»

[27] Zib. 497-499; 1916-1917: «Favella e favellare derivano evidentemente da fabula e fabulari mutato al solito il b in v, come da fabula diciamo pure favola; onde è come se dicessimo fabella e fabellare. Qui non c’è niente di notabile o strano: la cosa va da se, e sarà stata notata da tutti gli Etimologi. Ma che ha da far la favella e il favellare col favoleggiare e colle favole? Qui appunto consiste il singolare e l’osservabile in questa derivazione. Perocché l’antico e primitivo significato di fabula, non era favola, ma discorso, da for faris, quasi piccolo discorso, onde poi si trasferí al significato di ciancia nugae, e finalmente di finzione e racconto falso. […] Poi fu trasferito alla significazione di favola. Il detto senso di fabula, fabulator, fabulo, fabulor, confabulor etc. è evidente negli scrittori latini di tutti i buoni secoli, massime però ne’ piú antichi e piú puri. […] Ma dopo, e massimamente ne’ bassi tempi il significato usuale e comune di fabula nelle scritture non era altro che favola. E tuttavia la nostra lingua ha ritenuto espressamente questa parola (la quale, come ho detto, è la stessa nostra di favella) nel suo antichissimo, primitivo e proprio valore. Certo non è andata a pescare questo significato nelle antichissime memorie, e nei primi scrittori. Bisogna dunque che la detta significazione tal qual era da principio sia pervenuta di mano in mano, e conservata e continuata senza interruzione fino alla nascita e alle origini della nostra lingua. Ora ciò non può essere stato se non per mezzo del volgo latino; tanto piú che gli scrittori, quando anche avessero conservata in uso la detta significazione sino all’ultimo, non avrebbero mai potuto essi soli comunicarla al volgo, e renderla volgare, usuale, comune, propria e primitiva in una lingua nascente, quando il significato piú comune di quella parola fosse stato un altro.» «Molte parole che in una lingua sono triviali e volgari, molte applicazioni o di parole o di frasi che in quel tal senso sono ordinarissime nella lingua da cui si prendono, riescono elegantissime e nobilissime ec. trasportandole in un’altra lingua, a causa del pellegrino. Questo è ciò che accade a noi spessissimo trasportando nell’italiano, voci o frasi latine. […] Se in latino sono comuni e plebee, in italiano possono essere del tutto divise dal volgo e nobilissime. Elegantemente il Petrarca nel Proemio: Ma ben veggi’or sí come al popol tutto / Favola fui gran tempo. E pur questa frase potè ben essere molto, se non altro usitata, anche nel parlar latino, dove sappiamo che fabulare, e fabula si adopravano comunemente per parlare chiacchierare, giacché n’è derivato il nostro favellare e favella. […] Ma favola in nostra lingua oggi non vuol dir propriamente altro che novella falsa; ond’è che presa questa voce nel detto senso riesce elegantiss. e di piú riceve presso noi un’intelligenza quanto significativa, tanto diversa da quella che le davano i latini nella frase simile, dove usurpavano fabula, per favella o ciancia

[28] Vedi Zib. 1826.

[29] Vedi Zib. 2864; 2891-2892: «Proprietà comune alle tre figlie della lingua latina. Aggiungere pleonasticamente per idiotismo, e per proprietà di lingua l’aggettivo plur. altri o altre ai pronomi plurali nos e vos. Noi altri, voi altri; nous autres, vous autres; nosotros, vosotros. Nel che l’italiano e il francese è libero di farlo o non farlo, lo spagnuolo no ec. E presso i primi, massimamente i francesi, par che quest’usanza sia del dir familiare. Ella è presso noi della scrittura familiare, frequentissima nel discorso domestico, e quasi continua in quello del volgo, come nello spagnuolo, quando voi ha significato veramente plurale.» «È indubitato, secondo me, che quest’uso nacque dall’altra pessima usanza, introdotta nel latino fin dai primissimi tempi dell’impero, di dar del voi alle persone singolari. Onde è probabile che allora, o poco dipoi, o certo nel volgar latino quando che sia, s’introducesse questo costume di aggiungere l’aggettivo altri al voi e al noi (giacché il noi anche negli ottimi tempi in latino e in greco, si usava in senso singolare) quando questi pronomi avevano ad aver senso plurale, per distinguerli da quando avevano ad averlo singolare. E cosí introdotto quest’uso nel volgar latino, passò in tutte tre le lingue figlie. E con ragione; perché in esse ancora si manteneva e si mantiene quell’altra pessima usanza che, secondo me, lo produsse. Stante la quale, l’uso di questo idiotismo è quasi necessario per evitar mille equivoci e dubbi sí nello scrivere, sí nel parlare, quando molte persone sono presenti, o quando nello scrivere si suppongono ec.: […] Infatti noi nel parlar familiare non lo abbandoniamo quasi mai, né gli spagnuoli lo possono abbandonare. Ma anche gli spagnuoli tacciono l’otros se parlano a persona singolare, o di se stessi singolarmente, ne’ quali casi dicono vos e nos. Lo tacciono ancora quando il vos e il nos fa ufficio delle nostre particelle o pronomi ci e vi, come nous e vous in francese. Del resto in nessuna delle tre lingue si direbbe voi altri o noi altri in senso singolare. È notabile che l’uso di nos in senso singolare, fu piú proprio delle lingue antiche che delle moderne, nelle quali anzi, quanto al parlare o allo scrivere familiare, a cui solo spetta il noi altri, esso uso è intieramente abolito. Vedendosi dunque che pur tutte tre queste lingue usano familiarmente questo idiotismo di noi altri senza abbisognarne punto per distinzione, confermasi ch’esso idiotismo derivi dalla lingua latina, la quale ne avea bisogno per distinguere il nos plurale dal nos singolare.» In linea con il giudizio che le locuzioni “noi altri”e “voi altri” sono proprie della lingua parlata o al massimo della lingua scritta d’uso, Leopardi non le utilizza una sola volta nei Canti.

[30] Vedi Zib. 3587: «Diciamo volgarmente e con eleganza scriviamo, senz’altro pensare, senz’altro dire o fare, senz’altro preparativo, senz’altra cura senz’altro curarsene e simili, per senza nulla pensare, senza niun preparativo, niuna cura ec. Nelle quali frasi la voce altro ridonda, e s’usa per pleonasmo, venendo in somma quelle locuzioni a dire senza pensare […], senza preparativo, cura, […] senza curarsene ec. […] Or confrontisi questo mero idiotismo italiano, e proprio tutto della lingua, e perciò elegante collo stessissimo idiotismo usitato nella lingua greca ed attica da’ piú eleganti e studiati scrittori.» Continua Leopardi che un altro uso superfluo di “altro” è quello preceduto dall’aggettivo “ogni”, comunque elegante – come testimonia il verso petrarchesco «la qual ogni altra salma» (canzone Perché la vita è breve) – già citato ad esempio dai compilatori del Vocabolario della Crusca (Confronta Zib. 3588). Il pleonasma “ogni altro” viene usato da Leopardi varie volte nei Canti. Nel maschile: «Vano ogni altro desir creduto avea.» (Il primo amore, v. 78); «D’ogni altro danno, accresce» (XXXIV, La ginestra, 121). Al femminile: «Oh di costei ch’ogni altra gloria vinse» (Sopra il monumento di Dante, v. 176); «Poi quando intorno è spenta ogni altra face» (Il sabato del villaggio, v. 31); «D’ogni altra leggiadria» (XXVI, Il pensiero dominante, v. 134); «Vo dove ogni altra cosa» (Imitazione, v. 10).

[31] I versi delle Rime citati da Leopardi sono: il v. 38 della sestina A qualunque animale alberga in terra (ripetuto nei pensieri 3902 e 4140), l’ultimo verso del sonetto Quando fra l’altre donne ad ora ad ora, il verso 82 della canzone Sí è debile il filo a cui s’attene, il verso 39 della canzone Lasso me, ch’i’ non so in qual parte pieghi. L’osservazione linguistica è contenuta in Zib. 3004, 3902 e 4140: «Frequentissimo nell’italiano scritto, e piú nello spagnuolo scritto e parlato si è l’uso del verbo andare, andar (non ir), in senso di essere. Ecco Seneca tragico (ap. Forc. in eo is, col. 3. princip.), Non ibo inulta. Notate che noi abbiam preso indubitatamente quest’uso dagli spagnuoli (infatti esso è frequentissimo nei nostri secentisti con cento altri spagnuolismi: nei 500 o 300isti, non si trova, ch’io mi ricordi, o mai o quasi mai). E Seneca appunto è spagnuolo.» «Andare per essere del che altrove. Petr. Sestina 1 verso penult. E ’l giorno andrà (sarà) pien di minute stelle Prima ch’ec.» «Sí ch’io vo già della speranza altiero. Petr. Son. Quando fra l’altre dame. V. anche Sestina A qualunque animale, v. penult. e Canz. Sí è debile il filo, stanza 6. v.2 e Canz. Lasso me, st.4. v.9.»

[32] Vedi Zib. 29-30: «Chi mi chiedesse qual sia secondo me il piú eloquente pezzo italiano, direi le due canzoni del Petrarca Spirto gentil ec. e Italia mia ec. se concedessi qualche cosa al Tasso ch’era in verità eloquente, e principalmente parlando di se stesso, ed eccetto il Petrarca, è il solo italiano veramente eloquente. La sventura in gran parte lo fece tale, e l’occorrergli spessissimo di difendersi ec. e in qualunque modo parlar di se, perch’io sosterrò sempre che gli uomini grandi quando parlano di se diventano maggiori di se stessi, e i piccoli diventano qualche cosa, essendo questo un campo dove le passioni e l’interesse e la profonda cognizione ec. non lasciano campo all’affettazione e alla sofisticheria cioè alla massima corrompitrice dell’eloquenza e della poesia, non potendosi cercare i luoghi comuni quando si parla di cosa propria, dove necessariamente detta la natura e il cuore, e si parla di vena, e di pienezza di cuore. Onde quello che si dice della utilità derivante agli scrittori dal trattare materie presenti, a miglior dritto si dee dire del parlare di se stesso comunque paia a prima vista che il parlar di se non debba interessar gran fatto gli uditori, cosa falsissima.»

[33] Vedi Zib. 60-61: «A ciò che ho detto in altro pensiero intorno all’eloquenza di chi parla di se stesso si può aggiungere e l’esempio continuo di Cicerone che piglia nuove forze ogni volta che parla di se come fa tuttora, e quello di Lorenzino de’ Medici nella sua Apologia che Giordani crede il piú gran pezzo d’eloquenza italiana e non vinto da nessuno straniero. Ora questo è un’Apologia di se stesso. Ed è mirabile com’egli che scriveva per se e non poteva andar dietro alle sofisticherie, abbia trasportata come un Atlante l’eloquenza greca e latina tutta nel suo scritto dove la vedete viva e tal quale, e tuttavia vi par nativa e non punto traslatizia con una disinvoltura negli artifizi piú fini dell’eloquenza insegnati e praticati ugualmente dagli antichi, una padronanza negligenza ec. cosí nello stile e condotta ordine ec. interno, come nell’esterno, cioè la lingua ec. inaffettatissima e tutta italiana nella costruzione ec. quando lo stile e la composizione e i modi anche particolari e tutto è latino e greco. E ciò mentre gli altri miserabili cinquecentisti volendo seguire la stessa eloquenza e maestri ec. come il Casa, facevano quelle miserie di composizione di stile di lingua affettatissima e piú latina che italiana. Onde i due soli eloquenti del cinquecento sono Lorenzino qui e il Tasso qua e là per tutte le sue opere che ambedue parlano sempre di se e il Tasso piú dov’è piú eloquente e bello e nobile ec. cioè nelle lettere che sono il suo meglio. La migliore orazione di Demostene è quella per la corona.»

[34] Vedi Zib. 1573-1575: «Dice Cicerone […] che gli uomini di gusto nell’eloquenza non si appagano mai pienamente né delle loro opere né delle altrui, e che la mente loro semper divinum aliquid atque infinitum desiderat, a cui le forze dell’eloquenza non arrivano. Questo detto è notabilissimo riguardo all’arte, alla critica, al gusto. […] Osservo però che non solo gli studi soddisfanno piú di qualunque altro piacere, e ne dura piú il gusto, e l’appetito ec. ma che fra tutte le letture, quella che meno lascia l’animo desideroso del piacere, è la lettura della vera poesia. La quale destando mozioni vivissime, e riempiendo l’animo d’idee vaghe e indefinite e vastissime e sublimissime e mal chiare ec. lo riempie quanto piú si possa a questo mondo. Cosí che Cicerone non avrebbe forse potuto dire della poesia ciò che disse dell’eloquenza. Ben è vero che questa è proprietà del genere, e non del poeta individualmente, e non deriva dall’arte sua, ma dalla materia che tratta. Certo è che un poeta con assai meno arte ed abilità di un eloquente, può lasciare un assai minor vôto nell’animo, di quello che possa il piú grande oratore; e produr ne’ lettori quel sentimento che Cicerone esprime, in assai minor grado.»

[35] Vedi Zib. 220-221: «La compassione spesso è fonte di amore, ma quando cade sopra oggetti amabili o per se stessi, o in modo che aggiunta la compassione lo possano divenire. E questa è la compassione che interessa e dura e si riaffaccia piú volte all’anima. Maggiori calamità in un oggetto anche innocentissimo ma non amabile, come in persona vecchia e brutta, non destano che una compassione passeggera, la quale finisce ordinariamente colla presenza dell’oggetto, o dell’immagine che ce ne fanno i racconti ec. (E l’anima non se ne compiace, e non la richiama.) I quali ancora bisogna che sieno ben vivi ed efficaci per commuoverci momentaneamente, laddove poche parole bastano per farci compatire una giovane e bella, ancorché non conosciuta, al semplice racconto della sua disgrazia. Perciò Socrate sarà sempre piú ammirato che compianto, ed è un pessimo soggetto per tragedia. E peccherebbe grandemente quel romanziere che fingesse dei brutti sventurati. Cosí il poeta ec. Il quale ancora in qualsivoglia caso o genere di poesia, si deve ben guardare dal dar sospetto ch’egli sia brutto, perché nel leggere una bella poesia noi subito ci figuriamo un bel poeta. E quel contrasto ci sarebbe disgustosissimo. Molto piú s’egli parla di se, delle sue sventure, de’ suoi amori sfortunati, come il Petrarca ec.»

[36] Vedi Zib. 28: «Il Manfredi non ha altro che chiarezza e facilità e gentilezza ed eleganza, senz’ombra ombra di forza in nessun luogo, sí che quando il soggetto la richiede resta veramente compassionevole e misero e impotente come nelle Quartine per Luigi XIV.[…] Nei Canti del Paradiso c’è mirabile chiarezza e facilità di esprimere e di spiegare e dare ad intendere in versi lucidissimamente e senza dare nel prosaico o nel basso, cose intralciate e difficili. Nelle Canzoni massimamente ha imitato il Petrarca e anche affettatamente e servilmente…» I versi del Manfredi citati da Leopardi sono l’81 e l’82 della canzone O tra quante il sol mira altera e bella. Pel giorno natalizio di Ferdinando di Toscana (Eustachio Manfredi, Rime, Bologna, 1723, p. 46) dove è ripreso il distico (vv. 85-86) «Rade volte adiven ch’a l’alte imprese / Fortuna ingiurïosa non contrasti» di Spirto gentil, che quelle membra reggi.

[37] Vedi Zib. 143: «Che vuol dire che fra tanti imitatori che si sono trovati di opere e di scrittori classici, nessuno è pervenuto ad occupare un grado di fama non dico uguale, ma neppur vicino a quello dell’imitato? Non è già verisimile che essendo piú facile l’inventis addere, e il perfezionare una cosa inventata, che l’inventarla già perfetta, ed essendoci stati molti imitatori di sommo ingegno, massimamente in Italia in un tempo dove l’imitare era cosa di moda, e perciò diveniva occupazione anche dei migliori (come Sanazzaro imitator di Virgilio, il Tasso del Petrarca ec.), non si sia mai data nessun’imitazione che almeno agguagli l’opera imitata, e per conseguenza meritasse un posto compagno a quello dell’originale. Ma il fatto sta che in materia di letteratura o di arti, basta accorgersi dell’imitazione, per metter quell’opera infinitamente al di sotto del modello, e che in questo caso, come in molti altri, la fama non ha tanto riguardo al merito assoluto ed intrinseco dell’opera, quanto alla circostanza dello scrittore o dell’artefice. Laonde, o imitatori qualunque vi siate, disperate affatto di arrivare all’immortalità, quando bene le vostre copie valessero effettivamente molto piú dell’originale.»

[38] Vedi Zib. 2184-2185: «Non solo l’uomo è opera delle circostanze, in quanto queste lo determinano a tale o tal professione ec. ec. ma anche in quanto al genere, al modo, al gusto di quella tal professione a cui l’assuefazion sola e le circostanze l’hanno determinato. P.e. io finché non lessi se non autori francesi, l’assuefazione parendo natura, mi pareva che il mio stile naturale fosse quello solo, e che là mi conducesse l’inclinazione. Me ne disingannai, passando a diverse letture, ma anche in queste, e di mese in mese, variando il gusto degli autori ch’io leggeva, variava l’opinione ch’io mi formava circa la mia propria inclinazione naturale. E questo anche in menome e determinatissime cose, appartenenti o alla lingua, o allo stile, o al modo e genere di letteratura. Come, avendo letto…»

[39] Vedi Zib. 1067-1068: «Quanta sia la superiorità degl’italiani nell’attitudine a conoscere e gustare la lingua latina, si può argomentare proporzionatamente dalla superiorità riconosciuta in loro, nel bello scriver latino, ossia nella imitazione degli scrittori latini, quanto alla vera e propria ed ottima lingua latina. E certo chi è superiore nell’imitare, chi è superiore nel maneggiare e adoperare, è necessario che lo sia pure nel conoscere e nel gustare, e quella prima superiorità, suppone questa seconda. Ora di questa superiorità degl’italiani nello scriver latino, dal Petrarca fino a oggidí…»

[40] Vedi Zib. 246-247; 1464-1465: «Dalla teoria del piacere esposta in questi pensieri si comprende facilmente quanto e perché la matematica sia contraria al piacere, e siccome la matematica, cosí tutte le cose che le rassomigliano o appartengono, esattezza, secchezza, precisione, definizione, circoscrizione, sia che appartengano al carattere e allo spirito dell’individuo, sia a qualunque cosa corporale o spirituale. Tant’è. Le cose per se stesse non sono piccole. Il mondo non è una piccola cosa, anzi vastissima e massimamente rispetto all’uomo. Anche l’organizzazione de’ piú minuti e invisibili animaluzzi è una gran cosa. La varietà della natura solamente in questa terra è infinita; che diremo poi degli altri infiniti mondi? Sicché per una parte si può dire che non la grandezza delle cose, ma anzi la loro nullità cosí evidente e sensibile all’uomo, è una pura illusione. Ma basta che l’uomo abbia veduto la misura di una cosa ancorché smisurata, basta che sia giunto a conoscerne le parti, o a congetturarle secondo le regole della ragione; quella cosa immediatamente gli par piccolissima, gli diviene insufficiente, ed egli ne rimane scontentissimo. Quando il Petrarca poteva dire degli antipodi, e che ’l dí nostro vola A gente che di là FORSE l’aspetta, quel forse bastava per lasciarci concepir quella gente e quei paesi come cosa immensa, e dilettosissima all’immaginazione. Trovati che si sono, certamente non sono impiccoliti, né quei paesi son piccola cosa, ma appena gli antipodi si son veduti sul mappamondo, è sparita ogni grandezza ogni bellezza ogni prestigio dell’idea che se ne aveva. Perciò la matematica la quale misura quando il piacer nostro non vuol misura, definisce e circoscrive quando il piacer nostro non vuol confini […], analizza, quando il piacer nostro non vuole analisi né cognizione intima ed esatta della cosa piacevole […], la matematica, dico, dev’esser necessariamente l’opposto del piacere.» «L’animo umano è cosí fatto ch’egli prova molto maggior soddisfazione di un piacer piccolo, di un’idea di una sensazione piccola, ma di cui non conosca i limiti, che di una grande, di cui veda o senta i confini. La speranza di un piccolo bene, è un piacere assolutamente maggiore del possesso di un bene grande già provato (perché se non è ancora provato, sta sempre nella categoria della speranza.) La scienza distrugge i principali piaceri dell’animo nostro perché determina le cose, e ce ne mostra i confini, benché in moltissime cose, abbia materialmente ingrandito d’assaissimo le nostre idee. Dico materialmente, e non già spiritualmente, giacché p.e. la distanza dal sole alla terra, era assai maggiore nella mente umana, quando si credeva di poche miglia, né si sapeva quante, di quello che ora che si sa essere di tante precise migliaia di miglia. Cosí la scienza è nemica della grandezza delle idee, benché abbia smisuratamente ingrandito le opinioni naturali. Le ha ingrandite come idee chiare, ma una piccolissima idea confusa, è sempre maggiore di una grandissima, affatto chiara. L’incertezza se una cosa sia o non sia del tutto, è pur fonte di una grandezza, che vien distrutta dalla certezza che la cosa realmente è. Quanto maggiore era l’idea degli Antipodi, quando il Petrarca diceva forse esistono, di quello che appena fu saputo ch’esistevano. […] La maggiore anzi la sola grandezza di cui l’uomo possa confusamente appagarsi, è l’indeterminata, come risulta pure dalla mia teoria del piacere. Quindi l’ignoranza la quale sola può nascondere i confini delle cose, è la fonte principale delle idee ec. Indefinite.» Si ricordi a proposito i versi 87-100 di Ad Angelo Mai: «[…] Ahi ahi, ma conosciuto il mondo / Non cresce, anzi si scema, e assai piú vasto / L’etra sonante e l’alma terra e il mare / Al fanciullin, che non al saggio, appare. / Nostri sogni leggiadri ove son giti / Dell’ignoto ricetto / D’ignoti abitatori, o del diurno / Degli astri albergo, e del rimoto letto / Della giovane Aurora, e del notturno / Occulto sonno del maggior pianeta? / Ecco svaniro a un punto, / E figurato è il mondo in breve carta; / Ecco tutto è simile, e discoprendo, / Solo il nulla s’accresce. […].»

[41] Verso 10, sonetto La gola e ’l sonno et l’otïose piume. Vedi Zib. 3382-3385: «È tanto mirabile quanto vero, che la poesia la quale cerca per sua natura e proprietà il bello, e la filosofia ch’essenzialmente ricerca il vero, cioè la cosa piú contraria al bello; sieno le facoltà le piú affini tra loro, tanto che il vero poeta è sommamente disposto ad esser gran filosofo, e il vero filosofo ad esser gran poeta, anzi né l’uno né l’altro non può esser nel gener suo né perfetto né grande, s’ei non partecipa piú che mediocremente dell’altro genere, quanto all’indole primitiva dell’ingegno, alla disposizione naturale, alla forza dell’immaginazione. […] La poesia e la filosofia sono entrambe del pari, quasi le sommità dell’umano spirito, le piú nobili e le piú difficili facoltà a cui possa applicarsi l’ingegno umano. E malgrado di ciò, e dell’esser l’una di loro, cioè la poesia, la piú utile veramente di tutte le facoltà, sí la poesia, come la filosofia sono del pari le piú sfortunate e dispregiate di tutte le facoltà dello spirito. Tutte l’altre dànno pane, molte di loro recano onore anche durante la vita, aprono l’adito alle dignità ec.: tutte l’altre, dico, fuorché queste, dalle quali non v’è a sperar altro che gloria, e soltanto dopo la morte. Povera e nuda vai, filosofia. Della sorte ordinaria de’ poeti mentre vivono, non accade parlare. Chi s’annunzia per medico, per legista, per matematico, per geometra, per idraulico, per filologo, per antiquario, per linguista, per perito anche in una sola lingua; il pittore eziandio e lo scultore e l’architetto; il musico, non solo compositore ma esecutore, tutti questi son ricevuti nelle società con piacere, trattati nelle conversazioni e nella vita civile con istima, ricercati ancora, onorati, invitati, e quel ch’è piú premiati, arricchiti, elevati alle cariche e dignità. Chi s’annunzia solo per poeta o per filosofo, ancorch’egli lo sia veramente, e in sommo grado, non trova chi faccia caso di lui, non ottiene neppure ch’altri gli parli con leggiere testimonianze di stima. La ragione si è che tutti si credono esser filosofi, ed aver quanto si richiede ad esser poeti, sol che volessero metterlo in opera, o poterlo facilissimamente acquistare e adoperare. Laddove chi non è matematico, pittore, musico ec. non si crede di esserlo, e riguarda come superiori per questo conto a lui ed al comune degli uomini, quei che lo sono.»

[42] Versi 53-55 della canzone Chiare, fresche et dolci acque. Vedi Zib. 3443-3446: «Quante volte diss’io Allor pien di spavento, Costei per fermo nacque in paradiso. Petr. Canz. Chiare fresche e dolci acque.[…] È proprio, dico, della impressione che fa la bellezza su quelli d’altro sesso che la veggono o l’ascoltano o l’avvicinano, lo spaventare; e questo si è quasi il principale e il piú sensibile effetto ch’ella produce a prima giunta, o quello che piú si distingue e si nota e risalta. E lo spavento viene da questo, che allo spettatore o spettatrice, in quel momento, pare impossibile di star mai piú senza quel tale oggetto, e nel tempo stesso gli pare impossibile di possederlo com’ei vorrebbe; perché neppure il possedimento carnale, che in quel punto non gli si offre affatto al pensiero, anzi questo n’è propriamente alieno; ma neppur questo possedimento gli parrebbe poter soddisfare e riempiere il desiderio ch’egli concepisce di quel tale oggetto; col quale ei vorrebbe diventare una cosa stessa […]: ora ei non vede che questo possa mai essere. La forza del desiderio ch’ei concepisce in quel punto, l’atterrisce per ciò ch’ei si rappresenta subito tutte in un tratto, benché confusamente, al pensiero le pene che per questo desiderio dovrà soffrire; perocché il desiderio è pena, e il vivissimo e sommo desiderio, vivissima e somma, e il desiderio perpetuo e non mai soddisfatto è pena perpetua.Ora a lui pare e che quel desiderio non sarà mai soddisfatto (o non ne vede il come, e gli par cosa troppo ardua e difficile e improbabile), e ch’esso non sarà mai per estinguersi da se medesimo, come quando proviamo un dolor vivissimo, ci pare a prima giunta ch’ei sarà perpetuo, e che ne sia impossibile la consolazione, e che niuna cosa mai lo consolerà. Tutto questo accade principalmente (ed oggimai unicamente) ai giovani prima d’entrar nel mondo, o sul loro primo ingresso (talvolta, e non di rado, ancora ai fanciulli). I quali e son piú suscettibili di vivezza d’impressione e di vivezza di desiderio ec., e sono inesperti del quanto presto e facilmente l’amore o si dilegui o si soddisfaccia, e del come; e che al mondo non v’ha cosa veramente amabile; e di quanto sia facile ottenere ogni cosa ch’ei brama da quegli oggetti ch’ei stima inaccessibili ec. ec.»

[43] Ne L’autore dell’Interpretazione a chi legge (Binni-Ghidetti, vol. I, pp. 985-986) Leopardi chiarisce che ha chiamato Interpretazione il commento perché è in realtà quasi una traduzione della lingua antica e oscura in una moderna e chiara. Sottolinea inoltre che, di fronte a interpretazioni diverse di altri commentatori, sceglie sempre quella che gli sembra vera o, se nessuna lo soddisfa, espone la propria. Non salta mai una difficoltà, anche quando tutti i commentatori l’aggirano, e accompagna i lettori (privilegiando il pubblico femminile e gli stranieri) con quel minimo di notizie storiche e di spiegazioni linguistiche che ritiene necessarie alla comprensione delle rime petrarchesche.

[44] Lettera A Luigi Stella, 13 gennaio 1826.

[45] Lettera Ad Antonio Fortunato Stella, 26 aprile 1826.

[46] Lettera Ad Antonio Fortunato Stella, 12 marzo 1826.

[47] Lettera A Paolina Leopardi, Bologna 23 giugno 1826.

[48] Lettera Ad Antonio Papadopoli, 3 luglio 1826.

[49] Lettera Ad Antonio Fortunato Stella, 13 settembre 1826.

[50] Lettera Ad Antonio Fortunato Stella, 23 agosto 1827.

[51] Da Scusa dell’Interprete, in Binni-Ghidetti, vol. I, pp. 986-987.

[52] Lettera a Luigi Stella, 25 luglio 1826.

[53] Possiamo indicare approssimativamente come Pensieri scritti nel periodo di composizione dell’Interpretazione quelli che vanno dal 4150 (il 4149 è datato Bologna, 3 novembre 1825) al 4182 (datato Bologna, 5 luglio 1826).

[54] Il verso petrarchesco è il 5 del sonetto In mezzo di duo amanti honesta altera. Vedi Zib. 4177: «Poi che s’accorse chiusa dalla spera Dell’amico piú bello. Petrar. Son. 79. della I. Parte: In mezzo di duo amanti onesta, altera. Grecismo manifesto. Notisi che il Petrarca non sapeva il greco.»

[55] I versi citati sono rispettivamente il v. 8 del sonetto Io sentia dentr’al cor già venir meno e il v. 6 del sonetto – Occhi piangete: accompagnate il core. Vedi Zib. 511; 1421; 2865; 3430; 4162: «In questi luoghi di Floro: Postquam rogationis dies aderat, ingenti stipatus agmine (Tib. Gracchus) rostra conscendit: nec deerat obvia manu tota INDE (e non ha detto, né anche accennato da che luogo) nobilitas, et tribuni in partibus (III. 14.): e: Quum se in Aventinum recepisset (C. Gracchus), INDE quoque obvia Senatus manu, ab Opimio consule oppressus est (III. 15.) l’inde non par che si possa intendere se non per ibi o illuc, eo, ec. E in questo senso si può paragonare l’uso di questa particella fatto da Floro, a quello che i nostri antichi fecero dell’onde, quinci, quindi. V. la Crusca. e allo Spagnuolo donde che val sempre dove. E bisogna notare che in questo senso Floro congiunge la particella inde col nome obvius. E non perciò pare che significhi, o possa significare moto da luogo, ma stato, o moto a luogo. (come gli antichi italiani, onde vai, per dove vai)». «Ancor noi oltre ove ch’è ubi, abbiamo pur dove che vale il medesimo, ma è quasi de ubi, cioè unde. Siccome gli spagnuoli per ubi dicono donde (e adonde) che è quasi de unde. E noi pure oltre onde cioè unde, abbiamo donde, che per altro vale, non ubi, ma unde.» «Altronde per altrove (del che ho detto, se non erro, parlando di un luogo di Floro, e dello spagn. donde, cioè unde, detto, come ora si dice, per ubi) trovasi in Giusto de’ Conti Son. 22. e Canz. 2. st. ult. in Angelo di Costanzo son. 44. e in molti altri, sí esso, come onde o donde per dove ec. massime ne’ trecentisti, in alcuno de’ quali espressamente mi ricordo di aver trovato uno o piú di tali esempi ultimamente.» «Altronde per altrove, e indi fors’anche quasi ivi o colà, delle quali cose ho detto altrove. V. Petrarca Son. Io sentia dentr’al cor già venir meno.» «Onde per dove, quo. Petr. Son. Occhi piangete, v.6.»

[56] I versi citati sono rispettivamente: il verso 18 della canzone Gentil mia donna, i’ veggio; i vv. 59-60 della canzone Se ’l pensier che mi strugge; il v. 31 della canzone Amor, se vuo’ ch’i’torni al giogo anticho; il v. 37 della canzone Quando il soave mio fido conforto; l’ultimo verso del sonetto 166 S’i’ fussi stato fermo a la spelunca; il v. 33 delle sestine Anzi tre dí creata era alma in parte. Vedi Zib. 4162; 4179; 4200: «Degnò mostrar del suo lavoro in terra. Petr. Canz. Gentil mia donna, l’veggio, stanza 2. v.3. […] Cosí avestu riposti De’ bei vestigi sparsi. Petr. Canz. Se ’l pensier che mi strugge. Stanz. 5. v.7. 8.» «Fammi sentir di quell’aura gentile. Petr. Canz. Amor, se vuo’ ch’i’ torni al giogo antico. v.31. cioè stanza 3. v.1. Il genitivo per l’accusativo. V. ancora Canz. Quando il soave, stanza 4. v.4 e Son. S’io fossi, v. ult.» «Il genitivo per l’accusativo. Petr. Sestina 6. Anzi tre dí, v.3.»

[57] Nell’Interpretazione i versi sono cosí commentati: v. 18: «degnossi di mostrare in terra alcuna sua opera; cioè di creare le cose che noi veggiamo»; vv. 56-59: «E piacesse a Dio che tu serbassi ancora qualcuno degli sparsi vestigi di Laura»; v. 31: «de quell’aura gentile: vuol dire della voce di Laura.»; il v. 37 «de l’amorose tempre: cioè lo stato amoroso»; gli ultimi versi (il v. 14 e il v. 33) non sono commentati.

[58] Nell’Interpretazione cosí è commentata la composizione: «Questa canzone (che che se ne fosse la causa) è scritta a bello studio in maniera che ella non s’intenda. Per tanto a noi basterà d’intenderne questo solo; e io non mi affannerò a ridurla in chiaro a dispetto del proprio autore. [È una canzone‑frottola, con metro di canzone intessuto di sentenze e con numerose rime al mezzo.]»

[59] Il verso citato è il 42 della canzone Una donna piú bella assai che ’l sole. Zib. 4000 e 4090: «A proposito della ridondanza del pronome altro nell’italiano e nel greco, notata altrove, osservivi che altro presso noi spesso vale semplicemente alcuna cosa, massime nella negazione, onde senz’altro vale sovente senz’alcuna cosa, cioè senza nulla, e altri quando si usa al modo del franc. on (e dell’ital. l’uomo, uno, la persona, si ec.) vale alcuno, che pur molte volte si dice ne’ casi stessi. V’ha un luogo nel Petrarca Canz. Una donna piú bella, stanza 3. v.12. dove altro, ben considerando il luogo, mi pare (e non credo che niuno fin qui l’abbia inteso) che non significhi se non alcuna cosa, cioè, poiché sta colla negazione virtualmente presa, nulla.» “Altro per niuno, del che altrove. Senz’altro mezzo. […] Nel Petrarca Canz. Una donna piú bella ec. strofe 3. Altro volere o disvoler m’è tolto; altro sta per alcuna cosa, nulla, quidquam

[60] Vedi p. 12 e nota 31.

[61] Rispettivamente: v. 42 della canzone Una donna piú bella assai che ’l sole., v. 120 del Trionfo dell’Eternità e v. 7 del sonetto Il successor di Carlo che la chioma. Zib. 4182: «Senz’altra pompa, per senza niuna. ib. V. 120. V. anche Son. Il successor di Carlo, v.7. e Canz. Una donna piú bella, st.3. v.12.»

[62] Lettera Ad Antonio Fortunato Stella (Bologna 13 settembre 1826): «Quanto al Dizionario filosofico, le scrissi che io aveva pronti i materiali, com’è vero; ma lo stile ch’è la la cosa piú faticosa, ci manca affatto, giacché sono gittati sulla carta con parole e frasi appena intelleggibili, se non a me solo. E di piú sono sparsi in piú migliaia di pagine, contenenti i miei pensieri; e per poterne estrarre quelli che appartenessero a un dato articolo, bisognerebbe che io rileggessi tutte quelle migliaia di pagine, segnassi i pensieri che farebbero al caso, li disponessi, gli ordinassi ec., tutte cose che io farò quando a Lei parrà bene che io mi dia di proposito a stendere questo Dizionario; ma che non si possono eseguire per il momento, e per uno o due articoli soli.»

[63] Lettera Ad Antonio Fortunato Stella (Bologna 19 settembre 1826): «Incoraggiato dalle sue parole relative al mio Dizionario, mi son dato ad estrarre, a porre in ordine ec. i materiali che ho per quest’opera, la quale dovrebbe anche contenere un buon numero di articoli o trattatelli relativi a cose di lingua, che siano di un interesse generale, filosofico o filologico; i quali articoli si potranno pubblicare appartatamente.» Sulla redazione dell’Indice si veda Marcello Verdenelli, Cronistoria dell’Idea leopardiana di «Zibaldone», in «Il Veltro» a. 1987, n. 31 oltre all’Introduzione di Pacella premessa all’edizione critica dello Zibaldone di pensieri, già citata. Nell’Indice sono esplicitamente menzionati gli scrittori: Alfieri (con 6 pensieri); Ariosto (con 5); Bartoli (con 5); Bembo e Cesari (con 1); Boccaccio (con 14); Caro (con 5); Chiabrera (con 3); Dante (con 37); Della Casa (con 1); Filicaia (con 3); Galileo (con 1); Guidi (con 2); Manfredi (con 1); Metastasio (con 2); Monti (con 6); Pallavicino (con 1); Petrarca (con 24); Tasso (con 15); Testi (con 2); Zappi (con 1).

Accanto all’Indice del mio Zibaldone di pensieri Leopardi stila anche due Indici parziali che sono spogli per argomento dove il primo, intitolato Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, ordina le prime 100 pagine dello Zibaldone. In questi elenchi il recanatese riconferma i punti forti del suo giudizio su Petrarca: nel pensiero 35: «Eloquenza della lirica riconosciuta nel Petrarca, anteposto per questa parte a Orazio e a tutti gli altri. Copia, semplicità e familiarità, e generalmente indole dello stile del Petrarca. 23»; nel 37: «Affettuoso del Petrarca. 24»; nel 52: «I piú eloquenti pezzi italiani sono certe Canzoni del Petrarca e vari scritti del Tasso. Eloquenza di chi parla di se medesimo. 29-30»; nel 124: «Dante e Petrarca molto meno ridondanti, e di rima molto piú spontanei di tutti i cinquecentisti. 59-60»; nel 154: «Differenza tra la semplicità del Petrarca e quella dei greci. Familiarità dello stile di quello. 70». La datazione di quest’ultimi Indici è discussa tra gli studiosi, a tal proposito si rimanda nuovamente all’Introduzione di Pacella e al saggio a piú mani Uno schedario inedito e gli indici dello Zibaldone pubblicato su «Il Veltro», a. 1989, n. 33.

[64] La voce “Francesco Petrarca” è citata per 98 volte nell’Indice analitico posto alla fine dell’edizione critica dello Zibaldone, mentre Leopardi nel suo Indice ne elenca solo 28.

[65] Vedi Zib. 24; 112-113: «Son proprio esclusivamente del Petrarca, in quanto all’affetto, non solo la copia, ma anche […] quelle immagini affettuose (come: E la povera gente sbigottita ec.) [v. 63 della canzone Spirto gentil, che quelle membra reggi] e tutto quello che forma la vera e animata e calda eloquenza. E dall’influsso che ha il cuore nella poesia del Petrarca viene la mollezza e quasi untuosità come d’olio soavissimo delle sue Canzoni, (anche nominatamente quelle sull’Italia) e che le odi degli altri appetto alle sue paiano asciutte e dure e aride, non mancando a lui la sublimità degli altri e di piú avendo quella morbidezza e pastosità che è cagionata dal cuore.» «La gran diversità fra il Petrarca e gli altri poeti d’amore, specialmente stranieri, per cui tu senti in lui solo quella unzione e spontaneità e unisono al tuo cuore che ti fa piangere, laddove forse niun altro in pari circostanze del Petrarca ti farà lo stesso effetto, è ch’egli versa il suo cuore, e gli altri l’anatomizzano (anche i piú eccellenti) ed egli lo fa parlare, e gli altri ne parlano.»

[66] Vedi Zib. 23: «Quell’affetto nella lirica che cagiona l’eloquenza, e abbagliando meno persuade e muove piú, e piú dolcemente massime nel tenero, non si trova in nessun lirico, né antico né moderno se non nel Petrarca, almeno almeno in quel grado: e Orazio quantunque forse sia superiore nelle immagini e nelle sentenze, in questo affetto ed eloquenza e copia non può pur venire al paragone col Petrarca: il cui stile ha in oltre (io non parlo qui solo delle canzoni amorose ma anche singolarmente e nominatamente delle tre liriche: O aspettata in ciel beata e bella, Spirto gentil che quelle membra reggi, Italia mia ec.) ha una semplicità e candidezza sua propria, che però si piega e si accomoda mirabilmente alla nobiltà e magnificenza del dire, (come in quel: Pon mente al temerario ardir di Serse ec.) [v. 91 di O aspectata in ciel beata et bella] cosí in tutto il corpo e continuatamente, come nelle varie parti e in quelle dove egli si alza a maggior sublimità e nobiltà che per l’ordinario: si piega alle sentenze (come in quel: Rade volte addivien che a l’alte imprese ec.) [v. 85 di Spirto gentil…] quantunque di quelle spiccate non n’abbia gran fatto in quelle tre canzoni: si piega ottimamente alle immagini delle quali le tre canzoni abbondano e sono innestate nello stile e formanti il sangue di esso ec. (come: Al qual come si legge, Mario aperse sí ’l fianco ec. Di lor vene ove il nostro ferro mise ec.[vv. 44-45 e v. 51 di Italia mia…] Le man le avess’io avvolte entro i capegli ec. [v. 14 di Spirto gentil…]).» A proposito della “familiarità” della lingua poetica del Petrarca si vedano i pensieri 70, 1809, 2838-2839.

[67] Vedi Zib. 3415-3416: «(Il linguaggio del Casa non è familiare, ed è molto piú distinto dal prosaico, e cosí il suo stile. Ciò perché ne’ suoi versi egli non si propose il carattere né del Petr. né di Dante, ma un suo proprio. E quindi quanto il carattere del suo linguaggio e stile poetico è distinto da quel della prosa, tanto egli è ancora diverso da quello del linguaggio e stile sí di Dante e Petrarca, sí degli altri lirici, e poeti quali si vogliano, del suo tempo.)» Sul rapporto Petrarca e il Cinquecento Leopardi cita inoltre i pensieri: 2517, 2533-2535, 2715, 2724, 3561-3562, 3979, 4246.

[68] Vedi Zib. 3126-3129: «Il soggetto e l’eroe della Gerusalemme furono anche piú che nazionali, e quindi anche piú degni; e furono attissimi ad interessare. Dico piú che nazionali, perché non appartennero a una nazione sola, ma a molte ridotte in una da una medesima opinione, da un medesimo spirito, da una medesima professione, da un medesimo interesse circa quello che fu il soggetto del Goffredo. Dico tanto piú degni, perché essendo d’interesse piú generale, rendevano il poema piú che nazionale, senza però renderlo d’interesse universale, il che, trattandosi di quello interesse di cui ora discorriamo, tanto sarebbe a dire quanto di niuno interesse. Dico attissimi a interessare perché quantunque fosse spento in quel secolo il fervore delle Crociate, durava però ancora generalmente ne’ Cristiani uno spirito di sensibile odio contro i Turchi, quasi contro nemici della propria lor professione, perché in quel tempo i Cristiani, ancorché corrottissimi ne’ costumi e divisi tra loro nella fede, consideravano per anche la fede Cristiana come cosa propria, e i nemici di lei come propri nemici ciascuno; e quindi non solo con odio spirituale e per amor di Dio, ma con odio umano, con passione p. cosí dir, carnale e sensibile, per proprio rispetto, e per inclinazione odiavano i maomettani non che il maomettanesimo. E la liberazione del sepolcro di Cristo era cosa di che allora tutti s’interessavano, siccome in questi ultimi tempi, della distruzione della pirateria Tunisina e Algerina, benché questa e quella fossero piú nel desiderio che nella speranza, o certo piú desiderate che probabili: aggiunta però di piú la differenza de’ tempi, perocché nel cinquecento le inclinazioni e le opinioni e i desiderii pubblici erano molto piú manifesti, decisi, vivi, forti e costanti ch’e’ non possono essere in questo secolo. Siccome nel 300 il Petrarca (Canz. O aspettata), cosí nel 500 tutti gli uomini dotti esercitavano il loro ingegno nell’esortare o con orazioni o con lettere o con poesie pubblicate per le stampe, le nazioni e i principi d’Europa a deporre le differenze scambievoli e collegarsi insieme per liberar da’ cani [ricordo dei versi 142-144 del cap. II del Trionfo della Fama II: Gite superbi, o miseri Cristiani, / Consumando l’un l’altro, e non vi caglia / Che ’l sepolcro di Cristo è in man de’ cani!] il Sepolcro, e distruggere il nemico de’ Cristiani, e vendicar le ingiurie e i danni ricevutine. Questo era in quel secolo il voto generale cosí delle persone colte ancorché non dotte, come ancora, se non de’ gabinetti, certo di tutti i privati politici, che in quel secolo di molta libertà della voce e della stampa, massimamente in Italia, non eran pochi; e di questo voto si faceva continuamente materia alle scritture e allusioni digressioni ec. e di quel progetto o sogno che vogliam dire si riscaldava l’immaginazione de’ poeti e de’ prosatori, e se ne traeva l’ispiraz. dello scrivere.»

[69] Vedi Zib. 1525-1527: «Degli stessi tre soli scrittori letterati del trecento, un solo, cioè Dante, ebbe intenzione scrivendo, di applicar la lingua it. alla letteratura. Il che si fa manifesto sí dal poema sacro, ch’egli considerava, non come trastullo, ma come impresa di gran momento, e dov’egli trattò le materie piú gravi della filosofia e teologia; sí dall’opera, tutta filosofica, teologica, e insomma dottrinale e gravissima del Convito, simile agli antichi Dialoghi scientifici ec. […]; sí finalmente dalle opinioni ch’egli manifesta nel Volgare Eloquio. Ond’è che Dante fu propriamente, com’è stato sempre considerato, e per intenzione e per effetto, il fondatore della lingua italiana. Ma gli altri due, non iscrissero italiano che per passatempo, e tanto è lungi che volessero applicarlo alla letteratura, che anzi non iscrivevano quelle materie in quella lingua, se non perché le credevano indegne della lingua letterata, cioè latina, in cui scrivevano tutto ciò con cui miravano a farsi nome di letterati, e ad accrescer la letteratura. Siccome giudicavano (ancor dopo Dante, ed espressamente contro il parere e l’esempio suo, specialmente il Petrarca) che la lingua italiana fosse indegna e incapace delle materie gravi e della letteratura. Sicché non pur non vollero applicarvela, ma non credettero di potere, né che veruno potesse mai farlo. Opinione che durò fin dopo la metà del Cinquecento […] Ed è notissima l’opinione che portava il Petrarca del suo canzoniere: ed egli lo scrisse in italiano, come anche il Boccaccio le sue novelle e romanzi, per divertimento delle brigate, come ora si scriverebbe in un dialetto vernacolo, e per li cavalieri e dame, e genti di mondo, che non si credevano capaci di letteratura. ec. ec.» Vedi anche Zib. 1579-1580.

[70] Versi 96-97 della canzone Vergine bella, che di sol vestita. Vedi Zib. 4483: «L’imperfetto indicativo pel congiuntivo. Se io sapeva (avessi saputo) questo, non andava (non sarei andato) ec. Ch’ogni altra sua voglia Era (sarebbe stata) a me morte, ed a lei infamia rea. Petr. Canz. Vergine bella. Anche il piú che perfetto. S’io era ito ec., non mi succedeva ec. E in francese si j’étais (s’io fossi) ec. ec. – Pretto grecismo.»

[71] Rispettivamente: v. 105 del Trionfo del tempo; verso d’apertura della sestina L’aere gravato, et l’importuna nebbia. Zib. 4495: «Pargoleggiare ec. Vanare-vaneggiare. Per esser vano v. vaneggiare anche nel Petr. Tr. del Tempo: E vedrai ’l vaneggiar di questi illustri. […] Gravato per grave. Petr. L’aere gravato e l’importuna nebbia.»

[72] Zib. 4417: «De’ diaschevasti italiani e latini v. Perticari (Scritt. del 300) dove parla della pessima ortografia autografa del Petrarca Tasso ec., e dove prova che i latini del buon secolo, copiando o citando Ennio e gli altri antichi, li riducevano in gran parte alla moderna.» Sulla pessima ortografia del Petrarca confronta i pensieri 1660 e 2460.

[73] Zib. 4246: «Superstiziosa imitazione e venerazione del Petrarca nel 16. secolo del che altrove ec.»

[74] Vedi Zib. 4387: «Ben diresti che la divina commedia sia stata verseggiata studiosamente a vocali. Ma che le modulazioni non prevalessero alle articolazioni de’ versi, avveniva piú presto in Italia che altrove; perché il Petrarca aveva temprato l’orecchio alla prosodia Provenzale sonora di finali tronche piú che la Siciliana che a Dante veniva fluida di melodia. La lingua nondimeno per que’ suoi fondatori fu scritta, né mai parlata; e quindi i libri non avendo compiaciuto alle successive pronunzie, gli organi della voce hanno da stare obbedientissimi all’occhio.»

[75] Lettera ad Antonio Fortunato Stella, 13 settembre 1826.

[76] Zib. 4249: «GIUOCO DI MANO, GIUOCO DI VILLANO, is a very true saying, among the few true sayings of the Italians. Chesterfield Letters to his son, lett.259. Il conte di Chesterfield era veramente molto pratico e della lingua, ed anche dei particolari e minuti detti usuali nel nostro parlar familiare. Né io disapproverei molti de’ suoi giudizi circa la letteratura e le cose nostre, come p. e. quello circa il Petrarca (lett.217.), simile al parer del Sismondi: PETRARCA is, in my mind, a sing-song love-sick Poet; much admired, however, by the Italians: but an Italian, who should think no better of him than I do, would certainly say, that he deserved his LAURA better than his LAURO (alludendo alla coronazione del Poeta in Roma); and that wretched quibble would be reckoned an excellent piece of Italian wit. Io, con licenza di Milord, non credo che sia vera quest’ultima cosa, né che fosse vera al tempo suo, ma ben sono della sua opinione in quanto al Petrarca. […] Il qual giudizio troverà pochi approvatori in Italia fuori di me. Ma quello dei nostri detti e proverbi, è certamente falso ec. (Può servire per un articolo sopra i proverbi).»

© Copyright 2001 CSIA - University of Trieste Ultima modifica il 01.09.2005
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