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BEÁTA TOMBI

Beáta Tombi

La ricezione di Petrarca in Ungheria

Petrarca e Ady: dal cattivo gusto al sublime decadente

 

 

La ricezione di Petrarca in Ungheria, tranne qualche esempio, non č mai stata al centro delle riflessioni letterarie o storico‑filologiche. Non si tratta perň semplicemente dell’ignoranza cieca degli ungheresi, come rifiuto radicale delle letterature straniere e insieme condizione di una esperienza. La limitatezza dell’esperienza ricettiva del poeta umanista č stata senz’altro condizionata dall’operazione della comprensione storica in quanto problema dell’interpretazione. Comprendere non significa soltanto tradurre o interpretare ma riattualizzare il testo per una comprensione sempre contemporanea.

Secondo la teoria moderna della ricezione elaborata da Hans Robert Jauss (Jauss, 1990) l’atto della comprensione si verifica tra due orizzonti: quello di un comprendere come riconoscere e interpretare una veritŕ giŕ manifestata e un altro come ricerca e sperimentazione di un senso possibile. A mio avviso in Ungheria piuttosto la mancanza del mutamento dell’orizzonte dell’esperienza, elemento critico‑conoscitivo dell’atto dell’interpretazione, condizionava per un periodo notevole i limiti e le lacune della ricezione petrarchesca. L’immagine dell’orizzonte rigida e immobile dopo tanti contributi veniva modificata solo nel Novecento. Endre Ady, poeta ungherese del periodo decadente, era il primo di iniziare una rottura nella tradizione della continuitŕ.

Se penso alla ricostruzione delle tappe piú importanti della fortuna ungherese di Francesco Petrarca č solo per propormi di riesaminare retrospettivamente il problema dell’interpretazione e quello di comprendere. Vale a dire che soltanto il principio della tradizione, e cioč l’atto della ricezione č in grado di recuperare i vari modi per comprendere.

 

 

Fra il Quattrocento e l’Ottocento

Fino all’Ottocento la fortuna di Petrarca č molto scarsa. Nel corso del Quattrocento oltre un epigramma scritto da Janus Pannonius (1434-1472), poeta ungherese di fama europea, non ci sono altri documenti certi sulla ricezione di Francesco Petrarca. Il poema intitolato De Arquada, Iani Pannonii Poeta… (Janus Pannonius, ed. 1987) loda con la massima intensitŕ poetica la fama e la gloria di Petrarca poeta. I versi invece frutti di un’ampia formazione degli studia humanitatis si esauriscono nell’uso di schemi rigidi della retorica classica e di mera tecnica applicativa di topoi. In questo caso insomma da parte dell’autore manca ancora l’applicazione di un qualsiasi metodo integrativo che mette notevolmente in dubbio il valore ricettivo in quanto problema dell’intertestualitŕ della poesia accennata.

            Le poesie d’amore di Bálint Balassi (1554-1594), figura importante del petrarchismo europeo, rivelano vari segni testuali che indicano con esattezza l’influenza diretta o indiretta di Petrarca su Balassi (Szabics, 1988, pp. 15-24). Il legame dei due poeti si manifesta nell’interiorizzazione dell’esperienza dell’amore e nella sua espressione poetica. L’esempio piú esplicito di questo rapporto si trova nella poesia quaranta di Balassi (Balassi, ed. 1981, pp. 130-133) e nella canzone CCVII (Petrarca, ed. 1997, pp. 188-191) di Petrarca. L’immagine poetica dei tutti e due i poeti viene governata dal simbolo del fuoco ardente, alimentato da uno scintillio angelico della donna amata: «L’anima, poi ch’altrove non ŕ posa, / corre pur a l’angeliche faville; / et io, che son di cera, al foco torno […] Di mia morte mi pasco, et vivo in fiamme: / stranio cibo, et mirabil salamandra» (ivi, p. 189, vv. 30-32, 40-41). L’amore idealizzato e trascendente di Petrarca, arricchito dai motivi di un apparato umanistico, in Balassi si trasforma in un semplice volgarizzamento mitologico. Vuol dire che si tratta di una poesia che riprende ed elabora il discorso petrarchesco, caratterizzata da un’abilitŕ sperimentale, in un volgare ungherese depurato dalle espressioni eleganti e raffinati della poesia umanistica. Balassi si sottrae al gusto dei vecchi schemi della poesia trovadorica oscillandosi tra allusioni volgari (amore velenoso, cuore feroce) e un modo di esprimersi sofisticato (fiamma di Amore e di Fortuna). In breve: l’esperienza ricettiva di Bálint Balassi si limita appunto sulla mera integrazione di qualche segno testuale.

Nella storia della ricezione petrarchesca, la svolta successiva che determina l’esperienza delle poesie e degli scritti di Petrarca si lega strettamente al comportamento sentimentale dei poeti ottocenteschi che, applicando un metodo integrativo dettato dalla tradizione, specificano il mutamento del significato degli elementi testuali. Della trattazione petrarchesca dell’Ottocento basti qui dar rilievo al fatto che oltre la traduzione fatta in prosa dei primi sonetti petrarcheschi, usciti nella rivista «Urania» nel 1794, Petrarca sta per diventare poeta amato e imitato dagli ungheresi. Questa presenza forte viene confermata dal romanzo sentimentale di József Kármán (1769-1795) intitolato I lasciti di Fanny [Fanny hagyományai, 1795] che comincia con un riferimento al LXVII sonetto del Canzoniere (Péter Sárközy, 2004) e dalle poesie d’amore di Sándor Kisfaludy (1772-1834) del titolo Gli amori di Himfy. Amore doloroso [Himfy szerelmei. Kesergő szerelem, 1801] che colgono e analizzano i nuovi contenuti dell’introspezione empirica e psicologica dell’io poetico approfonditi attraverso la lettura molto profonda del Canzoniere petrarchesco. Questi volumi, invece, rispetto al modello petrarchesco, legato a temi, passioni e sentimenti, vengono caratterizzati inoltre da elementi originali, presenti nella poesia popolare ungherese (Dávid, Angyal, 1891). La fusione evidente di questi due momenti: uno dedicato all’amore appassionato e un secondo in cui dominano le allusioni erotiche, venate di tendenze popolareggianti, formava un’immagine falsa e rozza sulla poesia di Francesco Petrarca. Dunque in Ungheria il poeta diventava l’emblema del cattivo gusto lacrimoso. A questo punto occorre vedere in breve l’esegesi del cattivo gusto per arrivare al concetto del sublime nell’interpretazione della poesia petrarchesca.

 

 

Dal cattivo gusto al sublime decadente

Il cattivo gusto della letteratura sentimentale assume un significato estetico. La genesi storico‑teorica di questo concetto rivela il suo carattere vago, indeterminato e mutabile. Cartesio in una lettera del 1630 dice che il gusto č una categoria estetica che dipende dal cambiamento soggettivo e dal variare delle emozioni ma non gli riesce dare una definizione vera ed esatta (Franzini, Mazzocut-Mis, 1996, p. 208). A cavallo tra il Sei e il Settecento Locke propone un orizzonte estetico che concepisce il gusto come una percezione chiara e confusa: «sono esse [le percezioni] che formano quel non so che, quei gusti, quelle immagini della quantitŕ dei sensi chiare nel loro insieme ma confuse nelle loro parti, quelle impressioni che i corpi esterni fanno su di noi e che racchiudono l’infinito, quei legami che ciascun essere ha con tutto il resto dell’universo» (Locke, in Abbagnano, ed. 2003, p. 348). Le affermazioni di Locke rivelano appunto che il gusto si forma solo nell’atto complesso dell’elaborazione e in quello dell’applicazione.

In modo tale anche l’Ottocento ungherese offre una visione espressiva e affettiva del gusto che accentua i suoi principi emozionali come area confusa e ingegnosa dei sentimenti. A mio avviso appunto questo rilievo dell’emozionalitŕ sentimentale che avveniva sul piano delle percezioni soggettive formulava l’orizzonte della ricezione e dell’interpretazione troppo smorfiosa di Petrarca in Ungheria. La ricezione dei poeti ottocenteschi insomma si limitava sui fattori superficiali come la rappresentazione dello stato d’animo, dell’entusiasmo e delle passioni poetiche. Questo tipo di riflessione insomma sviluppava in un’ampia e variegata letteratura che utilizzava in primo luogo i termini di non so che di Locke e il cattivo gusto sentimentale.

L’interpretazione estetica del cattivo gusto č legata allo sviluppo del principio della catarsi come sfogo di emozioni prodotto dalla poesia (István, Hermann, 1971, pp. 226-249). Il cattivo gusto in modo analogo alla catarsi si basa sulla potenzialitŕ dei sentimenti. Si deve invece chiarire che l’affermazione dei sentimenti in questi due concetti non agisce sullo stesso livello, il che conferma la loro realtŕ diversa. La catarsi come categoria aristotelica deriva da un gioco di trasposizioni e di rispecchiamenti che punta al trascendimento dell’orrore e del terribile dell’esistenza (Aristotele, ed. 1963). Il cattivo gusto, invece, nonostante lo sguardo rivolto verso il suo configurarsi complesso, non riesce a rispecchiare la rivendicazione di quelle qualitŕ di sentimenti ampi e profondi che si riconoscono nelle esperienze letterarie della catarsi. Ne risulta che nel cattivo gusto domina l’avventura all’edonismo, l’ombra della solitudine, della delusione, della sconfitta e cioč la rappresentazione di scenografie fuggevoli e prospettive eterogenee. Al livello della forma č molto caratteristica una maniera artificiosa di giochi e di mezzi espressivi.

Tali ragioni spiegano perché nel periodo ottocentesco soltanto le gazzette del Romanticismo ungherese, destinate al pubblico femminile come «Honderű» (1846) e «Hölgyfutár» (1859) si occupino della pubblicazione delle poesie degli imitatori o traduttori, non di rado storti, di Petrarca. Inoltre va anche ricordata un’altra novitŕ dei rappresentanti del cattivo gusto: nelle riviste accennate escono in numero sempre maggiore un filone di relazioni di viaggio, in cui gli scrittori‑viaggiatori descrivono il loro pellegrinaggio alla casa di Petrarca ad Arquŕ. Di queste pagine non mancano le osservazioni sentimentali e piene di emozioni, concentrate sulla commozione emotiva non priva di artificiositŕ affettata dell’autore (cfr. Tanács, Descrizione della visita della tomba di Petrarca, in «Divatcsarnok», 1860; János Mircse, Sui festeggiamenti petrarcheschi del 1874 ad Arquŕ e Padova, in «Reform», 1874).

Il rilievo cosí forte dell’espressione dei sentimenti ed emozioni rivela l’atto molto rigido della ricezione ottocentesca. Il comportamento insistente dei nostri poeti che non volevano neanche liberarsi dall’immagine di un poeta amoroso di esperienza sentimentale formulava l’immagine di un orizzonte chiuso e immobile. Vuol dire che la mancanza di un orizzonte mobile e sempre in cambiamento risultava appunto il carattere molto superficiale e semplicistico delle interpretazioni petrarchesche in Ungheria. Il primo cambiamento notevole si lega al nome di Endre Ady (1877-1919) che rispetto alla scuola del simbolismo francese rimproverava alla tradizione letteraria gli eccessi del metodo interpretativo certamente dovuti al carattere popolare della poesia ungherese (Ady, ed. 1969, pp. 92-100).

All’interno della ricezione poetica che va da Janus Pannonius al periodo ottocentesco di Kármán e di Kisfaludy la ricezione di Ady si pone come un atteggiamento sperimentale di forme e anche di contenuti. Ady tramite lo svelamento della differenza storica nella distanza temporale specificava il mutamento del significato degli elementi diffusi nei testi petrarcheschi e indicava prospettive nuove della formazione dei sensi nuovi.

 

 

Il Petrarca di Ady

I.

Negli scritti specificamente estetici Ady dedica un’attenzione particolare a Francesco Petrarca. Il nome sempre ben distinguibile di Petrarca invece fino al 1918, l’anno della pubblicazione del suo volume di poesia Alla testa dei morti [A halottak élén] viene di solito trattato con i suoi valori d’uomo. In questi testi l’immagine di Petrarca uomo era sempre accompagnata dal senso dell’oblio, della crisi, del dolore ma soprattutto dal senso dell’amore. Quindi il poeta sembra continuare la tradizione sentimentale del cattivo gusto.

L’amore invece in Ady, in modo contrario alle interpretazioni ottocentesche, diventa il simbolo di una realtŕ decadente, e cioč di male e di sventura. Con la propria visione decostruttiva il poeta voleva sciogliere la trama di un amore profondo e liberarlo dai suoi limiti chiusi. Ad esempio in un elzeviro Ady metteva in dubbio l’amore celeste di Petrarca per Laura e ne sottolineava il suo carattere carnale, basato sulle emozioni. In questo testo, ritirato dopo alcuni anni, il poeta lo apostrofa direttamente il Don Juan trecentesco sulle tracce di una figura di intrighi, di amori e di speculazioni (Varga, 1970). Questo tipo di visione amorosa che sta molto vicino appunto alla violenza erotica o alla sua incarnazione verosimile deriva senz’altro dalla sua relazione velenosa con una donna, spesso chiamata «mia maledizione»: «Noi lasciamo l’Estate, trasvoliamo scacciati, / ci fermiamo in qualche luogo dell’Autunno, / amorosi, con le piume arruffate. // Sono le nostre ultime nozze: / Ci strappiamo la carne a colpi di becco / e cadiamo sul fogliame d’autunno.» (Ady, ed. 1963, p. 23, vv. 7-12). C’č quindi un argomento fondamentale nella ricezione di Ady e cioč quello dell’amore che all’inizio viene rappresentato come un temperamento rovente e poi si trasforma nel principio costituente della memoria e del dissidio interiore.

            Come si vede Ady si distacca nettamente dalla ricezione petrarchesca della tradizione e crea una sua lettura individuale. Il vero riconoscimento di Petrarca invece avviene quando nel 1904 in occasione del VI centenario della nascita di Petrarca scrive in un suo elzeviro: «E oggi, seicento anni dopo, Petrarca č quanto mai vivo …» (Ady, 1904, in Tibor Kardos, 1973, p. 117). Questa ricerca angosciosa attraverso il tempo caratterizza la seconda fase della ricezione petrarchesca di Ady. L’affermazione del poeta č invece di doppio fondo. In primo luogo sotto l’impianto dell’eternitŕ si rivolge all’etŕ di Petrarca in quanto periodo atemporale, in secondo luogo invece sottolinea il carattere molto contemporaneo del poeta trecentesco. In questa prospettiva Petrarca diventa l’uomo del nostro tempo: inquieto, ambivalente e non meno decadente dello stesso Ady. L’annullamento degli orizzonti temporali e il suo ritorno esaltato al periodo dell’Umanesimo significa appunto un atto di comprensione manifestato nella coscienza storica.

            Dopo queste riflessioni seguiamo le tracce della ricezione petrarchesca di Ady tramite lo studio dei componimenti reperibili in un ciclo Versi a matita sul libro di Petrarca [Ceruzasorok Petrarca könyvén] dedicato direttamente a Francesco Petrarca del volume di poesia di 1918.

 

 

II.

La ricezione di Ady insomma, in modo diverso dall’atteggiamento interpretativo dei poeti ottocenteschi, arriva alla prassi di un metodo sperimentale. La ricezione trasgressiva di Petrarca č reperibile soprattutto sul piano semantico, il che consta nel potere trasformativo degli elementi testuali. Nel nostro caso invece c’č qualcosa di piú dell’intertestualitŕ tradizionale. Vuol dire che i testi di Ady non offrono semplicemente la riscoperta valida della funzione di alcuni testi petrarcheschi che sono presenti virtualmente nelle sue poesie: si tratta di una tale operazione poetica che attraverso lo svelamento della distanza temporale specifica il mutamento semico degli elementi testuali e rimanda alla loro implicazione e trasformazione poetica.

            Dopo le indagini sul campo della letteratura trecentesca la ricerca poetica di Ady si rivolge a Petrarca. Il ciclo di Ady, composto da 13 poesie, dedicatosi appunto al poeta umanista č stato costruito sul modello del Canzoniere petrarchesco. I componimenti trattano prevalentemente del tema dell’amore, nutriti per una donna che lui chiama nell’inversione giocosa e simbolica Léda («Adél» - «Léda»). A questo punto bisogna notare le varie ricorrenze del nome di Laura (l’aura, LAUdare, lauro, l’aurora etc.) nel Canzoniere. Adél Brüll, moglie di un grosso commerciante, che ha incontrato a Nagyvárad nel 1903, condizionava in modo decisivo lo sviluppo della sua lirica e del suo pensiero: Léda diventa paradigma di tutte le donne. Vuol dire che sotto la forma precisa del nome Léda prende consistenza poetica e viene nominata come significato che si forma tramite le relazioni create da esso stesso.

            L’operazione poetica di Ady anche in questo ciclo č caratterizzata dalla ricerca estetica e dal lavoro attorno al simbolo. Questo strumento di trasposizione figurata era tale da rappresentare il sistema e l’essenza del suo decadentismo. Il simbolo centrale che forma il quadro complessivo delle poesie del ciclo accennato č la figura femminile e le sue trasfigurazioni poetiche. La donna puň apparire in varie forme: č il «Ponte grande» (Ady, ed. 1994, p. 173), l’«amante addolorata» (ivi, p. 174), la «violetta-seminata» (ivi, p. 178), oppure si svolgerŕ con una simbologia metafisica (ivi, pp. 179, 181). Questi nomi simbolici insomma designano una donna reale come l’immagine dell’assenza. Questo significa che nella visione poetica di Ady, in modo contrario a quella di Petrarca, il vocabolo non designa il segno, il cui significato č decodificabile da altri segni: i suoi segni testuali vengono appunto concepiti come superamento del limite e dominio dell’ordine petrarchesco.

Tutto lo svolgimento ricettivo di Ady insomma č suscitato da una figura femminile. L’immagine amorosa di Ady č invece spersonalizzata. La sua esperienza amorosa oscillando tra odio e passione infinita acquista un valore ambivalente: «Riesco a considerare me stesso e la mia vita soltanto fra un attacco del male e l’altro, e non sono ancora convinto che valga la pena che io tenti di salvare questa mia miserabile pelle… Mi sono consumato e forse sono arso anche per me stesso: e la fiamma non valse la pena: o, se la valse, avessi almeno danzato intorno ad essa.» (Ady, in Petrarca, ed. 1963, p. XXXVII). L’amore diventa unione rovente, la causa di un’insoddisfazione eterna.

In questa simbologia femminile entra la figura di Madonna Laura. Nell’immaginario poetico di Ady invece Laura si stacca da suo essere celeste e si manifesta in quell’angoscia amorosa che dalla sua passionalitŕ molto forte domina il campo semico dei suoi testi. Laura di Petrarca si trasforma nella donna fatale di Léda che ritorna da tempi e luoghi lontani e anima colloqui velenosi con il poeta. La poesia intitolata Mia triste violetta seminata mia [Én bús ibolya-vetésem] esprime in modo saliente la visione sofferta dell’amore e l’operazione intertestuale (Ady, ed. 1994, p. 178, trad. mia):

 

Fiamma errata di una sola parola

Non ti ha abbattuto, ti bramo molto

E piango battuto dal grandinio,

Mentre solo una parola che ti ha evitato

Mia donna, violetta seminata mia

Un suono che non puň esser dettato.

 

E non potevi salvare neanche tuo nome

Dalla tempesta estiva delle mie parole,

Benché fendevano come lampi lontani

Ma eran parole mie e osavano

Formarsi in una voce e caderti preda.

 

Colpevole č quest’unica fiamma

Tutto e danneggiante nulla:

Temevo che sapessi mai

Che oltre l’estate e grandinio

Come complesso e buono potrei essere io.

Ma questa parola č rimasta muta

Mia donna, triste violetta seminata mia.

 

Una delle espressioni piú dense della poesia citata č la “parola errata” ossia “muta” che evita il suo destinatario. La ricezione di Ady sta insomma nella ricerca continua del messaggio muto, traccia espressiva del suo metodo comunicativo. L’esperienza fallita dell’affermazione č elemento costituente anche dei testi petrarcheschi. Petrarca giŕ nel sonetto introduttivo del Canzoniere indica con il vocativo iniziale («voi ch’ascoltate», in Petrarca, ed. 1997, I., p. 35, v. 1) un rapporto presupposto con l’altro. Il contatto talvolta irruente con il pubblico esprime la delusione fatale del poeta segnato da una colpa giovanile. La parola rivolta al suo pubblico resta molto spesso l’illusione anche di una relazione amorosa: «E tutti voi, ch’Amor laudate in rima, / al buon testor degli amorosi detti/ rendete honor, ch’era smarrito in prima» (ivi, XXVI, p. 54, vv. 9-11), «Rimansi a dietro il sestodecimo anno / de’miei sospiri, et io trapasso inanzi / verso l’extremo; et parmi che pur dinanzi / fosse ’l principio di cotanto affanno» (ivi, CXVIII, p. 125, vv. 1-4).

L’immobilitŕ apparente del testo di Ady che sembra derivare da una parola errata invece non finisce nella mancanza di un significato. Al contrario la poesia si basa appunto sulla funzione polisemica della parola legata strettamente a quella del fulmine. La struttura metaforica del testo consiste appunto nel trasferirsi del significato del fulmine luminoso, rapido e desolante alla parola stessa. La luce‑parola č la perfezione cosmica: segna l’inizio e la fine, unisce in sé la forza creativa e quella distruttiva: «tutto e danneggiante nulla» (v. 13). La sintesi poetica della parola‑luce sembra petrarchesca: «Et veggi’or ben che caritate accesa / lega la lingua altrui, gli spiriti invola: / chi pň dir com’egli arde, č ’n picciol foco.» (ivi, CLXX, p. 167, vv. 12-14). Come si vede nelle poesie di Petrarca si trova una situazione analoga: come gli occhi luminosi di Laura creano atti e parola, cosí possono anche ostacolare nello stesso tempo la creazione poetica: «cosí costei, ch’č tra le donne un sole, / in me movendo de’ begli occhi i rai / crďa d’amor pensieri, atti et parole» (ivi, IX., p 39, vv. 10-12), «et da’ begli occhi mosse il freddo ghiaccio, / che mi passň nel core, / con la vertú d’un súbito splendore, / che d’ogni altra sua voglia / sol rimembrando ancor l’anima spoglia.» (ivi, LIX, p. 84, vv. 6-10). L’unica differenza consta nella formazione e la disseminazione semantica della parola. Mentre nei testi di Petrarca il suono polivalente include tutto ciň che si presenta con timbri sfumati e allusivi, Ady lo lascia cedere e rivelare gli infiniti vacuum semici nella sua formazione testuale. Vuol dire che la sua formazione segnica si svincola da quella petrarchesca e scopre la visione di un avvenire permanente.

Endre Ady legge Petrarca in una maniera diversa dalla tradizione. In questa differenza spicca prevalentemente lo studio della parola petrarchesca nell’interpretazione letteraria e cioč nell’atto di comprensione. Tali ragioni spiegano le letture sentimentali ottocentesche, risultati del cattivo gusto, e la comprensione decadente di Ady. La ricezione petrarchesca di Endre Ady č legata fortemente alla sua esperienza letteraria del simbolismo francese. La sua interpretazione critica, sviluppata soprattutto nei saggi estetici, si trasforma nell’integrazione poetica di vari elementi testuali reperibili nelle opere di Petrarca. Tuttavia la ricezione petrarchesca di Endre Ady, oltre la rivelazione dei sensi nuovi, rendeva possibile la distruzione dell’immagine del continuum letterario, paradigma secolare dei discorsi letterari.

 

 

Bibliografia

Testi citati di Ady e di Petrarca

Ady, Endre, Poesie scelte, Paolo Santarcangeli (a cura di), Budapest 1963.

Ady, Endre, Esztétikai írások [Saggi estetici], Kosuth, Budapest 1969.

Ady, Endre, Összes versei I-II. [Tutte le poesie], Osiris-Századvég, Budapest 1994.

Petrarca, Francesco, Canzoniere, Raffaele Manica (a cura di), Newton, Roma 1997.

 

Autori vari

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Aristotelész, Poétika [Poetica], Helikon, Budapest 1963.

Bölöni, György, Az igazi Ady [Ady autentico], Helikon, Budapest 1974.

Franzini, Elio, Mazzocut‑Mis, Maddalena, Estetica, Mondadori, Milano 1996.

Hermann, István, A giccs [Il cattivo gusto], Kossuth, Budapest 1971.

Janus Pannonius, Összes munkái [Tutte le opere], Tankönyvkiadó, Budapest 1987.

Jauss, Hans Robert, Estetica e interpretazione letteraria, Carlo Gentili (a cura di), Marietti, Genova 1990.

Kardos, Tibor, Endre Ady: Ceruzasorok Petrarca könyvén [Endre Ady: Versi a matita sul libro di Petrarca], in Az emberiség műhelyei [Officina dell’umanitŕ], Szépirodalmi Kiadó, Budapest 1973.

Szabics, Imre, A trubadúrlíra és Balassi Bálint [La lira trovatorica e Bálint Balassi], Balassi Kiadó, Budapest 1998.

Varga, József, Ady olasz érdeklődése [Petrarca in Ady], in «Itk», Budapest 1970.

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