Beáta Tombi
La ricezione di
Petrarca in Ungheria
Petrarca e Ady:
dal cattivo gusto al sublime decadente
La ricezione di Petrarca in Ungheria, tranne qualche
esempio, non č mai stata al centro delle riflessioni letterarie o storico‑filologiche.
Non si tratta perň semplicemente dell’ignoranza cieca degli ungheresi, come
rifiuto radicale delle letterature straniere e insieme condizione di una
esperienza. La limitatezza dell’esperienza ricettiva del poeta umanista č stata
senz’altro condizionata dall’operazione della comprensione storica in quanto
problema dell’interpretazione. Comprendere non significa soltanto tradurre o
interpretare ma riattualizzare il testo per una comprensione sempre
contemporanea.
Secondo la teoria moderna della
ricezione elaborata da Hans Robert Jauss (Jauss, 1990) l’atto della
comprensione si verifica tra due orizzonti: quello di un comprendere come
riconoscere e interpretare una veritŕ giŕ manifestata e un altro come ricerca e
sperimentazione di un senso possibile. A mio avviso in Ungheria piuttosto la
mancanza del mutamento dell’orizzonte dell’esperienza, elemento critico‑conoscitivo
dell’atto dell’interpretazione, condizionava per un periodo notevole i limiti e
le lacune della ricezione petrarchesca. L’immagine dell’orizzonte rigida e
immobile dopo tanti contributi veniva modificata solo nel Novecento. Endre Ady,
poeta ungherese del periodo decadente, era il primo di iniziare una rottura
nella tradizione della continuitŕ.
Se penso alla ricostruzione
delle tappe piú importanti della fortuna ungherese di Francesco Petrarca č solo
per propormi di riesaminare retrospettivamente il problema dell’interpretazione
e quello di comprendere. Vale a dire che soltanto il principio della
tradizione, e cioč l’atto della ricezione č in grado di recuperare i vari modi
per comprendere.
Fra il Quattrocento e l’Ottocento
Fino all’Ottocento la fortuna di Petrarca č molto scarsa.
Nel corso del Quattrocento oltre un epigramma scritto da Janus Pannonius
(1434-1472), poeta ungherese di fama europea, non ci sono altri documenti certi
sulla ricezione di Francesco Petrarca. Il poema intitolato De Arquada, Iani
Pannonii Poeta… (Janus Pannonius, ed. 1987) loda con la massima intensitŕ
poetica la fama e la gloria di Petrarca poeta. I versi invece frutti di un’ampia
formazione degli studia humanitatis si esauriscono nell’uso di schemi
rigidi della retorica classica e di mera tecnica applicativa di topoi.
In questo caso insomma da parte dell’autore manca ancora l’applicazione di un
qualsiasi metodo integrativo che mette notevolmente in dubbio il valore
ricettivo in quanto problema dell’intertestualitŕ della poesia accennata.
Le
poesie d’amore di Bálint Balassi (1554-1594), figura importante del
petrarchismo europeo, rivelano vari segni testuali che indicano con esattezza
l’influenza diretta o indiretta di Petrarca su Balassi (Szabics, 1988, pp.
15-24). Il legame dei due poeti si manifesta nell’interiorizzazione
dell’esperienza dell’amore e nella sua espressione poetica. L’esempio piú
esplicito di questo rapporto si trova nella poesia quaranta di Balassi
(Balassi, ed. 1981, pp. 130-133) e nella canzone CCVII (Petrarca, ed. 1997, pp.
188-191) di Petrarca. L’immagine poetica dei tutti e due i poeti viene
governata dal simbolo del fuoco ardente, alimentato da uno scintillio angelico
della donna amata: «L’anima, poi ch’altrove non ŕ posa, / corre pur a
l’angeliche faville; / et io, che son di cera, al foco torno […] Di mia morte
mi pasco, et vivo in fiamme: / stranio cibo, et mirabil salamandra» (ivi,
p. 189, vv. 30-32, 40-41). L’amore idealizzato e trascendente di Petrarca,
arricchito dai motivi di un apparato umanistico, in Balassi si trasforma in un
semplice volgarizzamento mitologico. Vuol dire che si tratta di una poesia che
riprende ed elabora il discorso petrarchesco, caratterizzata da un’abilitŕ
sperimentale, in un volgare ungherese depurato dalle espressioni eleganti e
raffinati della poesia umanistica. Balassi si sottrae al gusto dei vecchi
schemi della poesia trovadorica oscillandosi tra allusioni volgari (amore velenoso,
cuore feroce) e un modo di esprimersi sofisticato (fiamma di Amore e di
Fortuna). In breve: l’esperienza ricettiva di Bálint Balassi si limita appunto
sulla mera integrazione di qualche segno testuale.
Nella storia della ricezione
petrarchesca, la svolta successiva che determina l’esperienza delle poesie e
degli scritti di Petrarca si lega strettamente al comportamento sentimentale
dei poeti ottocenteschi che, applicando un metodo integrativo dettato dalla
tradizione, specificano il mutamento del significato degli elementi testuali.
Della trattazione petrarchesca dell’Ottocento basti qui dar rilievo al fatto
che oltre la traduzione fatta in prosa dei primi sonetti petrarcheschi, usciti
nella rivista «Urania» nel 1794, Petrarca sta per diventare poeta amato e
imitato dagli ungheresi. Questa presenza forte viene confermata dal romanzo
sentimentale di József Kármán (1769-1795) intitolato I lasciti di Fanny [Fanny
hagyományai, 1795] che comincia con un riferimento al LXVII sonetto del Canzoniere
(Péter Sárközy, 2004) e dalle poesie d’amore di Sándor Kisfaludy (1772-1834)
del titolo Gli amori di Himfy. Amore doloroso [Himfy szerelmei. Kesergő
szerelem, 1801] che colgono e analizzano i nuovi contenuti
dell’introspezione empirica e psicologica dell’io poetico approfonditi
attraverso la lettura molto profonda del Canzoniere petrarchesco. Questi
volumi, invece, rispetto al modello petrarchesco, legato a temi,
passioni e sentimenti, vengono caratterizzati inoltre da elementi originali,
presenti nella poesia popolare ungherese (Dávid, Angyal, 1891). La fusione
evidente di questi due momenti: uno dedicato all’amore appassionato e un
secondo in cui dominano le allusioni erotiche, venate di tendenze
popolareggianti, formava un’immagine falsa e rozza sulla poesia di Francesco
Petrarca. Dunque in Ungheria il poeta diventava l’emblema del cattivo gusto
lacrimoso. A questo punto occorre vedere in breve l’esegesi del cattivo gusto
per arrivare al concetto del sublime nell’interpretazione della poesia
petrarchesca.
Dal cattivo gusto al sublime decadente
Il cattivo gusto della letteratura sentimentale assume un
significato estetico. La genesi storico‑teorica di questo concetto rivela
il suo carattere vago, indeterminato e mutabile. Cartesio in una lettera del
1630 dice che il gusto č una categoria estetica che dipende dal cambiamento
soggettivo e dal variare delle emozioni ma non gli riesce dare una definizione
vera ed esatta (Franzini, Mazzocut-Mis, 1996, p. 208). A cavallo tra il Sei e
il Settecento Locke propone un orizzonte estetico che concepisce il gusto come
una percezione chiara e confusa: «sono esse [le percezioni] che formano quel
non so che, quei gusti, quelle immagini della quantitŕ dei sensi chiare nel
loro insieme ma confuse nelle loro parti, quelle impressioni che i corpi
esterni fanno su di noi e che racchiudono l’infinito, quei legami che ciascun
essere ha con tutto il resto dell’universo» (Locke, in Abbagnano, ed. 2003, p.
348). Le affermazioni di Locke rivelano appunto che il gusto si forma solo
nell’atto complesso dell’elaborazione e in quello dell’applicazione.
In modo tale anche l’Ottocento
ungherese offre una visione espressiva e affettiva del gusto che accentua i
suoi principi emozionali come area confusa e ingegnosa dei sentimenti. A mio
avviso appunto questo rilievo dell’emozionalitŕ sentimentale che avveniva sul
piano delle percezioni soggettive formulava l’orizzonte della ricezione e
dell’interpretazione troppo smorfiosa di Petrarca in Ungheria. La ricezione dei
poeti ottocenteschi insomma si limitava sui fattori superficiali come la
rappresentazione dello stato d’animo, dell’entusiasmo e delle passioni
poetiche. Questo tipo di riflessione insomma sviluppava in un’ampia e variegata
letteratura che utilizzava in primo luogo i termini di non so che di
Locke e il cattivo gusto sentimentale.
L’interpretazione estetica del
cattivo gusto č legata allo sviluppo del principio della catarsi come sfogo di
emozioni prodotto dalla poesia (István, Hermann, 1971, pp. 226-249). Il cattivo
gusto in modo analogo alla catarsi si basa sulla potenzialitŕ dei sentimenti.
Si deve invece chiarire che l’affermazione dei sentimenti in questi due
concetti non agisce sullo stesso livello, il che conferma la loro realtŕ
diversa. La catarsi come categoria aristotelica deriva da un gioco di
trasposizioni e di rispecchiamenti che punta al trascendimento dell’orrore e
del terribile dell’esistenza (Aristotele, ed. 1963). Il cattivo gusto, invece,
nonostante lo sguardo rivolto verso il suo configurarsi complesso, non riesce a
rispecchiare la rivendicazione di quelle qualitŕ di sentimenti ampi e profondi
che si riconoscono nelle esperienze letterarie della catarsi. Ne risulta che
nel cattivo gusto domina l’avventura all’edonismo, l’ombra della solitudine,
della delusione, della sconfitta e cioč la rappresentazione di scenografie
fuggevoli e prospettive eterogenee. Al livello della forma č molto
caratteristica una maniera artificiosa di giochi e di mezzi espressivi.
Tali ragioni spiegano perché nel
periodo ottocentesco soltanto le gazzette del Romanticismo ungherese, destinate
al pubblico femminile come «Honderű» (1846) e «Hölgyfutár» (1859) si
occupino della pubblicazione delle poesie degli imitatori o traduttori, non di
rado storti, di Petrarca. Inoltre va anche ricordata un’altra novitŕ dei
rappresentanti del cattivo gusto: nelle riviste accennate escono in numero
sempre maggiore un filone di relazioni di viaggio, in cui gli scrittori‑viaggiatori
descrivono il loro pellegrinaggio alla casa di Petrarca ad Arquŕ. Di queste
pagine non mancano le osservazioni sentimentali e piene di emozioni,
concentrate sulla commozione emotiva non priva di artificiositŕ affettata
dell’autore (cfr. Tanács, Descrizione della visita della tomba di Petrarca, in
«Divatcsarnok», 1860; János Mircse, Sui festeggiamenti petrarcheschi del
1874 ad Arquŕ e Padova, in «Reform», 1874).
Il rilievo cosí forte
dell’espressione dei sentimenti ed emozioni rivela l’atto molto rigido della
ricezione ottocentesca. Il comportamento insistente dei nostri poeti che non
volevano neanche liberarsi dall’immagine di un poeta amoroso di esperienza
sentimentale formulava l’immagine di un orizzonte chiuso e immobile. Vuol dire
che la mancanza di un orizzonte mobile e sempre in cambiamento risultava
appunto il carattere molto superficiale e semplicistico delle interpretazioni
petrarchesche in Ungheria. Il primo cambiamento notevole si lega al nome di
Endre Ady (1877-1919) che rispetto alla scuola del simbolismo francese
rimproverava alla tradizione letteraria gli eccessi del metodo interpretativo
certamente dovuti al carattere popolare della poesia ungherese (Ady, ed. 1969,
pp. 92-100).
All’interno della ricezione
poetica che va da Janus Pannonius al periodo ottocentesco di Kármán e di
Kisfaludy la ricezione di Ady si pone come un atteggiamento sperimentale di
forme e anche di contenuti. Ady tramite lo svelamento della differenza storica
nella distanza temporale specificava il mutamento del significato degli
elementi diffusi nei testi petrarcheschi e indicava prospettive nuove della
formazione dei sensi nuovi.
Il Petrarca di Ady
I.
Negli scritti specificamente estetici Ady dedica
un’attenzione particolare a Francesco Petrarca. Il nome sempre ben
distinguibile di Petrarca invece fino al 1918, l’anno della pubblicazione del
suo volume di poesia Alla testa dei morti [A halottak élén] viene
di solito trattato con i suoi valori d’uomo. In questi testi l’immagine di
Petrarca uomo era sempre accompagnata dal senso dell’oblio, della crisi, del
dolore ma soprattutto dal senso dell’amore. Quindi il poeta sembra continuare
la tradizione sentimentale del cattivo gusto.
L’amore invece in Ady, in modo
contrario alle interpretazioni ottocentesche, diventa il simbolo di una realtŕ
decadente, e cioč di male e di sventura. Con la propria visione decostruttiva
il poeta voleva sciogliere la trama di un amore profondo e liberarlo dai suoi
limiti chiusi. Ad esempio in un elzeviro Ady metteva in dubbio l’amore celeste
di Petrarca per Laura e ne sottolineava il suo carattere carnale, basato sulle
emozioni. In questo testo, ritirato dopo alcuni anni, il poeta lo apostrofa
direttamente il Don Juan trecentesco sulle tracce di una figura di intrighi, di
amori e di speculazioni (Varga, 1970). Questo tipo di visione amorosa che sta
molto vicino appunto alla violenza erotica o alla sua incarnazione verosimile
deriva senz’altro dalla sua relazione velenosa con una donna, spesso chiamata
«mia maledizione»: «Noi lasciamo l’Estate, trasvoliamo scacciati, / ci fermiamo
in qualche luogo dell’Autunno, / amorosi, con le piume arruffate. // Sono le
nostre ultime nozze: / Ci strappiamo la carne a colpi di becco / e cadiamo sul
fogliame d’autunno.» (Ady, ed. 1963, p. 23, vv. 7-12). C’č quindi un argomento
fondamentale nella ricezione di Ady e cioč quello dell’amore che all’inizio
viene rappresentato come un temperamento rovente e poi si trasforma nel
principio costituente della memoria e del dissidio interiore.
Come si
vede Ady si distacca nettamente dalla ricezione petrarchesca della tradizione e
crea una sua lettura individuale. Il vero riconoscimento di Petrarca invece
avviene quando nel 1904 in occasione del VI centenario della nascita di
Petrarca scrive in un suo elzeviro: «E oggi, seicento anni dopo, Petrarca č
quanto mai vivo …» (Ady, 1904, in Tibor Kardos, 1973, p. 117). Questa
ricerca angosciosa attraverso il tempo caratterizza la seconda fase della
ricezione petrarchesca di Ady. L’affermazione del poeta č invece di doppio
fondo. In primo luogo sotto l’impianto dell’eternitŕ si rivolge all’etŕ di
Petrarca in quanto periodo atemporale, in secondo luogo invece sottolinea il
carattere molto contemporaneo del poeta trecentesco. In questa prospettiva
Petrarca diventa l’uomo del nostro tempo: inquieto, ambivalente e non meno
decadente dello stesso Ady. L’annullamento degli orizzonti temporali e il suo
ritorno esaltato al periodo dell’Umanesimo significa appunto un atto di
comprensione manifestato nella coscienza storica.
Dopo
queste riflessioni seguiamo le tracce della ricezione petrarchesca di Ady
tramite lo studio dei componimenti reperibili in un ciclo Versi a matita sul
libro di Petrarca [Ceruzasorok Petrarca könyvén] dedicato
direttamente a Francesco Petrarca del volume di poesia di 1918.
II.
La ricezione di Ady insomma, in modo diverso
dall’atteggiamento interpretativo dei poeti ottocenteschi, arriva alla prassi
di un metodo sperimentale. La ricezione trasgressiva di Petrarca č reperibile
soprattutto sul piano semantico, il che consta nel potere trasformativo degli
elementi testuali. Nel nostro caso invece c’č qualcosa di piú
dell’intertestualitŕ tradizionale. Vuol dire che i testi di Ady non offrono
semplicemente la riscoperta valida della funzione di alcuni testi petrarcheschi
che sono presenti virtualmente nelle sue poesie: si tratta di una tale
operazione poetica che attraverso lo svelamento della distanza temporale
specifica il mutamento semico degli elementi testuali e rimanda alla loro
implicazione e trasformazione poetica.
Dopo
le indagini sul campo della letteratura trecentesca la ricerca poetica di Ady
si rivolge a Petrarca. Il ciclo di Ady, composto da 13 poesie, dedicatosi
appunto al poeta umanista č stato costruito sul modello del Canzoniere petrarchesco.
I componimenti trattano prevalentemente del tema dell’amore, nutriti per una
donna che lui chiama nell’inversione giocosa e simbolica Léda («Adél» - «Léda»).
A questo punto bisogna notare le varie ricorrenze del nome di Laura (l’aura,
LAUdare, lauro, l’aurora etc.) nel Canzoniere. Adél Brüll,
moglie di un grosso commerciante, che ha incontrato a Nagyvárad nel 1903,
condizionava in modo decisivo lo sviluppo della sua lirica e del suo pensiero:
Léda diventa paradigma di tutte le donne. Vuol dire che sotto la forma precisa
del nome Léda prende consistenza poetica e viene nominata come significato che
si forma tramite le relazioni create da esso stesso.
L’operazione
poetica di Ady anche in questo ciclo č caratterizzata dalla ricerca estetica e
dal lavoro attorno al simbolo. Questo strumento di trasposizione figurata era tale
da rappresentare il sistema e l’essenza del suo decadentismo. Il simbolo
centrale che forma il quadro complessivo delle poesie del ciclo accennato č la
figura femminile e le sue trasfigurazioni poetiche. La donna puň apparire in
varie forme: č il «Ponte grande» (Ady, ed. 1994, p. 173), l’«amante addolorata»
(ivi, p. 174), la
«violetta-seminata» (ivi, p.
178), oppure si svolgerŕ con una simbologia metafisica (ivi, pp. 179, 181). Questi nomi simbolici insomma designano una
donna reale come l’immagine dell’assenza. Questo significa che nella visione
poetica di Ady, in modo contrario a quella di Petrarca, il vocabolo non designa
il segno, il cui significato č decodificabile da altri segni: i suoi segni
testuali vengono appunto concepiti come superamento del limite e dominio
dell’ordine petrarchesco.
Tutto lo svolgimento ricettivo
di Ady insomma č suscitato da una figura femminile. L’immagine amorosa di Ady č
invece spersonalizzata. La sua esperienza amorosa oscillando tra odio e
passione infinita acquista un valore ambivalente: «Riesco a considerare me
stesso e la mia vita soltanto fra un attacco del male e l’altro, e non sono
ancora convinto che valga la pena che io tenti di salvare questa mia miserabile
pelle… Mi sono consumato e forse sono arso anche per me stesso: e la fiamma non
valse la pena: o, se la valse, avessi almeno danzato intorno ad essa.» (Ady, in
Petrarca, ed. 1963, p. XXXVII). L’amore diventa unione rovente, la causa di
un’insoddisfazione eterna.
In questa simbologia femminile
entra la figura di Madonna Laura. Nell’immaginario poetico di Ady invece Laura
si stacca da suo essere celeste e si manifesta in quell’angoscia amorosa che
dalla sua passionalitŕ molto forte domina il campo semico dei suoi testi. Laura
di Petrarca si trasforma nella donna fatale di Léda che ritorna da tempi e
luoghi lontani e anima colloqui velenosi con il poeta. La poesia intitolata Mia
triste violetta seminata mia [Én bús ibolya-vetésem] esprime in modo
saliente la visione sofferta dell’amore e l’operazione intertestuale (Ady, ed.
1994, p. 178, trad. mia):
Fiamma errata di una sola parola
Non ti ha abbattuto, ti bramo molto
E piango battuto dal grandinio,
Mentre solo una parola che ti ha evitato
Mia donna, violetta seminata mia
Un suono che non puň esser dettato.
E non potevi salvare neanche tuo nome
Dalla tempesta estiva delle mie parole,
Benché fendevano come lampi lontani
Ma eran parole mie e osavano
Formarsi in una voce e caderti preda.
Colpevole č quest’unica fiamma
Tutto e danneggiante nulla:
Temevo che sapessi mai
Che oltre l’estate e grandinio
Come complesso e buono potrei essere io.
Ma questa parola č rimasta muta
Mia donna, triste violetta seminata mia.
Una delle espressioni piú dense della poesia citata
č la “parola errata” ossia “muta” che evita il suo destinatario. La ricezione
di Ady sta insomma nella ricerca continua del messaggio muto, traccia
espressiva del suo metodo comunicativo. L’esperienza fallita dell’affermazione
č elemento costituente anche dei testi petrarcheschi. Petrarca giŕ nel sonetto
introduttivo del Canzoniere indica con il vocativo iniziale («voi
ch’ascoltate», in Petrarca, ed. 1997, I., p. 35, v. 1) un rapporto presupposto
con l’altro. Il contatto talvolta irruente con il pubblico esprime la
delusione fatale del poeta segnato da una colpa giovanile. La parola rivolta al
suo pubblico resta molto spesso l’illusione anche di una relazione amorosa: «E
tutti voi, ch’Amor laudate in rima, / al buon testor degli amorosi detti/
rendete honor, ch’era smarrito in prima» (ivi, XXVI, p. 54, vv. 9-11), «Rimansi a dietro il sestodecimo
anno / de’miei sospiri, et io trapasso inanzi / verso l’extremo; et parmi che
pur dinanzi / fosse ’l principio di cotanto affanno» (ivi, CXVIII, p. 125, vv. 1-4).
L’immobilitŕ apparente del testo
di Ady che sembra derivare da una parola errata invece non finisce nella
mancanza di un significato. Al contrario la poesia si basa appunto sulla
funzione polisemica della parola legata strettamente a quella del fulmine. La
struttura metaforica del testo consiste appunto nel trasferirsi del significato
del fulmine luminoso, rapido e desolante alla parola stessa. La luce‑parola
č la perfezione cosmica: segna l’inizio e la fine, unisce in sé la forza creativa
e quella distruttiva: «tutto e danneggiante nulla» (v. 13). La sintesi poetica
della parola‑luce sembra petrarchesca: «Et veggi’or ben che caritate
accesa / lega la lingua altrui, gli spiriti invola: / chi pň dir com’egli arde,
č ’n picciol foco.» (ivi, CLXX,
p. 167, vv. 12-14). Come si vede nelle poesie di Petrarca si trova una
situazione analoga: come gli occhi luminosi di Laura creano atti e parola, cosí
possono anche ostacolare nello stesso tempo la creazione poetica: «cosí costei,
ch’č tra le donne un sole, / in me movendo de’ begli occhi i rai / crďa d’amor
pensieri, atti et parole» (ivi,
IX., p 39, vv. 10-12), «et da’ begli occhi mosse il freddo ghiaccio, / che mi
passň nel core, / con la vertú d’un súbito splendore, / che d’ogni altra sua
voglia / sol rimembrando ancor l’anima spoglia.» (ivi, LIX, p. 84, vv. 6-10). L’unica differenza consta nella
formazione e la disseminazione semantica della parola. Mentre nei testi di
Petrarca il suono polivalente include tutto ciň che si presenta con timbri
sfumati e allusivi, Ady lo lascia cedere e rivelare gli infiniti vacuum semici
nella sua formazione testuale. Vuol dire che la sua formazione segnica si
svincola da quella petrarchesca e scopre la visione di un avvenire permanente.
Endre Ady legge Petrarca in una
maniera diversa dalla tradizione. In questa differenza spicca prevalentemente
lo studio della parola petrarchesca nell’interpretazione letteraria e cioč
nell’atto di comprensione. Tali ragioni spiegano le letture sentimentali
ottocentesche, risultati del cattivo gusto, e la comprensione decadente di Ady.
La ricezione petrarchesca di Endre Ady č legata fortemente alla sua esperienza
letteraria del simbolismo francese. La sua interpretazione critica, sviluppata
soprattutto nei saggi estetici, si trasforma nell’integrazione poetica di vari
elementi testuali reperibili nelle opere di Petrarca. Tuttavia la ricezione
petrarchesca di Endre Ady, oltre la rivelazione dei sensi nuovi, rendeva
possibile la distruzione dell’immagine del continuum letterario,
paradigma secolare dei discorsi letterari.
Bibliografia
Testi citati di Ady e di
Petrarca
Ady, Endre, Poesie scelte, Paolo
Santarcangeli (a cura di), Budapest 1963.
Ady, Endre, Esztétikai írások [Saggi
estetici], Kosuth, Budapest 1969.
Ady, Endre, Összes versei I-II. [Tutte
le poesie], Osiris-Századvég, Budapest 1994.
Petrarca, Francesco, Canzoniere, Raffaele
Manica (a cura di), Newton, Roma 1997.
Autori vari
Abbagnano, Nicola, Storia della filosofia,
UTET, Torino 2003.
Angyal, Dávid, Kisfaludy és Petrarca [Kisfaludy
e Petrarca], in «Itk», Budapest 1891.
Aristotelész, Poétika [Poetica],
Helikon, Budapest 1963.
Bölöni, György, Az igazi Ady [Ady
autentico], Helikon, Budapest 1974.
Franzini, Elio, Mazzocut‑Mis,
Maddalena, Estetica,
Mondadori, Milano 1996.
Hermann, István, A giccs [Il cattivo
gusto], Kossuth, Budapest 1971.
Janus Pannonius, Összes munkái [Tutte
le opere], Tankönyvkiadó, Budapest 1987.
Jauss, Hans Robert, Estetica e interpretazione
letteraria, Carlo Gentili (a cura di), Marietti, Genova 1990.
Kardos, Tibor, Endre Ady: Ceruzasorok
Petrarca könyvén [Endre Ady: Versi a matita sul libro di Petrarca],
in Az emberiség műhelyei [Officina dell’umanitŕ],
Szépirodalmi Kiadó, Budapest 1973.
Szabics, Imre, A trubadúrlíra és Balassi
Bálint [La lira trovatorica e Bálint Balassi], Balassi Kiadó,
Budapest 1998.
Varga, József, Ady olasz érdeklődése
[Petrarca in Ady], in «Itk», Budapest 1970.