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Scritture di scritture

Luigi Tassoni                 

Scritture di scritture

 

In questa annata di festeggiamenti per Petrarca, fra le tante e allettanti sollecitazioni, una ci è offerta da Anna Dolfi e da Carlo Ossola, i quali pubblicano in ristampa anastatica il libro del (lontano?) 1970 di Adelia Noferi, Le poetiche critiche novecentesche (Trento, La finestra editrice, maggio 2004), testo indispensabile per comprendere dall’interno l’intrecciato percorso della critica in Europa, che sarebbe come dire: sul modo di leggere i testi e di considerare la letteratura su fondamenti e invenzioni metodologiche. Agli ospiti interlocutori della famosa edizione Le Monnier (De Robertis padre, Cecchi, Contini, Bo, Bigongiari, Ungaretti, Du Bos, Blanchot, Poulet, Picon), si aggiungono oggi quelli di una Postilla che riguarda il capitolo eponimo del libro, Le poetiche critiche noventesche ‘sub specie Petrarchae’, centrale e centrato sulla questione che ci sta a cuore. Ovvero, facciamolo dire alla stessa Noferi che spiega, ad apertura della Postilla di oggi, il perché di una tale scelta negli anni Sessanta: Immersa ancora nei miei studi petrarcheschi, mi era venuto in mente di utilizzare Petrarca (da secoli identificato con la poesia) come una cartina di tornasole di una certa critica: la critica cioè del cosiddetto ermetismo e dei suoi vicini (...), ed insieme di poter osservare “quale” Petrarca emergesse da quella critica e da quella poesia (p.374). Ecco la domanda: quale Petrarca risulta dalle letture di coloro che non appartengono né alla tradizione filologica né a quella storicistica?

L’originaria concezione di poetiche critiche si fonda sul desiderio di voler fare chiarezza sui modi nei quali un intero secolo si è trovato diversamente invischiato in un territorio sub specie Petrarchae: come a dire che l’atto critico si chiarisce nel proprio movimento inventivo mentre specifica la scelta di una metodologia di approccio (o si differenzia da altre). Prima grande lezione: il non rinunciare ad approfondire una metodologia testuale corre di pari passo con il non rinunciare alla propria curiosità inventiva e critica.

Quel lontano capitolo, scritto nel 1969, nasceva appunto da una piena consapevolezza. Scriveva Adelia Noferi: Se insomma Petrarca è divenuto, in recenti decenni del nostro secolo, una sorta di alto emblema critico, è perché la poesia novecentesca, dalla prima alla terza generazione, da Ungaretti all’ermetismo, ha posto certi problemi sia di poetica che di linguaggio che hanno in sé nutrito, direttamente o indirettamente, le operazioni stesse di quella critica che nasceva accosto alla poesia, come versante riflessivo del lato poetico, e che valeva proprio a portare alla luce, ad immettere, (...) l’ipotesi della poesia che i poeti venivano verificando nella loro esperienza in atto (p.227). Qui insomma ci troviamo di fronte ad una triplice scoperta: 1. Petrarca come alto emblema critico (e che cos’è un emblema?, si chiederà costantemente la studiosa, come vedremo in seguito), 2.la critica degli scrittori e la scrittura dei critici hanno anche in Petrarca un terreno di confronto che rinnova la stessa critica, 3.il lavoro creativo degli scrittori rivela una propria fucina, nella quale il critico si addentra con grande attenzione (vedi il caso di Ungaretti, ma prima di Foscolo, e fino ai nostri giorni il bellissimo libro su Bigongiari), rivela una propria materia di letture, ovverossia di fonti, ipotesti ed elementi intertestuali, che non possono non far pensare, persino metodologicamente, alle considerazioni petrarchesche sul “travaso” di senso fra autori letti e scrittura del testo poetico.

Qui la scelta di un’espressione come alto emblema critico induce a qualche altra riflessione: il testo di Petrarca, soprattutto i R.V.F., costituisce il terreno di riferimento per la sperimentazione della poesia contemporanea, che si rivede allo specchio di quell’enorme territorio, ma non ne rimane pateticamente irretita. Sperimentare, per la poesia contemporanea anche oggi, vuol dire prima di tutto mettere alla prova i modelli, le fonti, gli ipotesti rammemorati fedelmente o infedelmente. Un altro punto va posto in luce: il fenomeno di partenza di questo esercizio critico della poesia in se stessa non può che essere Ungaretti, e Adelia Noferi, fra le tante ragioni ne specifica una, ritengo, nevralgica: la figuratività o emblematicità del linguaggio (p.226). Il linguaggio emblema, il linguaggio referente, il linguaggio come inventore di referenti, il linguaggio come elemento metanarrativo di una complessa storia poetica. Se ciò non bastasse, l’emblematicità del linguaggio si riconosce (si specchia) negli emblemi della poesia: cosí viene letteralmente pescato da Adelia un seme che da sé sarebbe maturato nel pensiero di Bigongiari il quale, come segnala il saggio delle Poetiche critiche (p.230), scriveva nel lontano 1937: ‘Erano i capei d’oro a l’aura sparsi’: e il celeste cantare lo ‘disface’: il verso si svolge su emblemi durevoli, e il dolore interrogativo e convinto si scorpora anch’esso con un sapore veemente d’emblema. È la definizione di emblema che interessa Adelia, la quale scrupolosamente lo ritaglia dal mosaico delle analisi intorno o a partire da Petrarca (lei che a lungo ha studiato per suo conto gli emblemi-imprese quattro-cinquecenteschi, e l’emblematica in genere). Questa riconquistata centralità dell’emblema, è sostenuta ma anche riformulata in relazione all’accertamento della coesistenza con un simbolo vuoto o svuotato della sua pretesa rappresentatività finalizzata (per cui, per differenza, l’emblema costituisce l’aspetto dei referenti modellati mediante le varie specie di significanti possibili per la poesia). Il simbolo simbolista si svuota (p.243), la parola e il discorso sono i nuovi emblemi pieni e presenti di un modo differente di porsi nella realtà, in una visione allargata della realtà: siamo fra la poesia post‑simbolista e la dirompente poesia contemporanea di oggi. Letto oggi, appunto, con il senno di poi questo magnifico saggio noferiano non può che far pensare ad una lungimiranza sorprendente rispetto al profilo della poesia odierna. E basterebbe, per tutti, pensare ad un poeta come Milo De Angelis, alla sua densa discorsività, inventore di emblemi (Somiglianze è il titolo del suo primo libro del 1976), il quale, come Ungaretti allora, adesso diventa il fulcro decisivo della nostra storia poetica, anche se naturalmente in modi tanto diversi.

L’interesse di allora, per Adelia, era quello di mettere maggiormente in evidenza (o difendere agli occhi di una critica distratta e poco tempestiva) il fatto che i poeti della terza generazione italiana, cosí detta da Oreste Macrí, e in essa dei cosiddetti ermetici, avevano il merito (tardivamente riconosciuto dalla critica) di aver ridato movimento a quanto di immobile e statuario era stato affibbiato al mondo petrarchesco. Come a dire: non è Laura, o il tema amoroso in sé, non le presunte allegorie, né i presunti patemi petrarcheschi, che devono impressionare il lettore, caduto nel tranello del testo. Al contrario, è il come, come si muove il discorso messo in atto intorno ad un enigma di nome Laura, che non attende decifrazione altra se non nell’avventura del linguaggio, in quel gioco a moscacieca grazie al quale Petrarca manipola il mondo e fa della poesia materia plasticamente variabile e contraddittoria, piuttosto che una base di ceralacca per un reale storico oggettivo. Al costruttivismo scolastico della tradizione si oppone decisamente un Petrarca dinamico, che scuce, scolla, rimette in gioco categorie e forme della retorica del pensare. Questa è la scoperta del Novecento, e oggi l’eredità aperta alla contemporaneità. Scrive Adelia: Il grande compito della poesia italiana che è stata classificata col nome di Ermetismo (...) e della critica che implicitamente o esplicitamente si muoveva in parallelo a quell’esperienza poetica, fu appunto il compito di penetrare nel cerchio dell’universo poetico petrarchesco, come una sorta di cuneo, con una forza dirompente, sbloccandone la immobilità in cui tutta una tradizione poetica l’aveva sigillata, per farvi penetrare il movimento e il divenire, per stabilire un rapporto dialettico fra noumeno e fenomeno, per riconnettere l’atemporalità alla storia, nel tentativo di ridare voce alle cose (pp.273-274).

Di qui le conclusioni atipiche, se si pensa che l’indagatore dei testi sa già in partenza che la sua in effetti è una battaglia contro la fissità soltanto illusoria di un testo: quello che è avvenuto nella poesia italiana del Novecento, e nel succedersi delle generazioni, è accaduto anche nella poesia del Petrarca, aiutata dalla poesia e dalla critica nel suo “farsi” ininterrotto, nel perpetuo spostarsi della sua consistenza semantica nella coscienza del lettore, dal momento che la poesia vale proprio a provocare la realtà: anche quella realtà di secondo grado che è la poesia stessa, consegnata alla fissità soltanto illusoria di un testo (p.281).

E veniamo alle attuali Postille a Le poetiche critiche novecentesche “sub specie Petrarchae (pp.371-442), scritte nel 2004. Questa che si presenta come una semplice appendice fa i conti con un complesso tracciato di letture critiche che, sulle orme di Petrarca e per continuazione ideale delle riflessioni di 35 anni prima, si incrociano con l’ininterrotto sodalizio Petrarca-Noferi, ininterrotto o continuamente interrotto e ripreso, come chi voglia smettere di fumare e continua ad accendere l’ultima sigaretta (e Adelia, che per alibi cominciò a fumare, non ha mai smesso!). Con questa Postilla si entra non solo nelle letture ad ampio raggio in cui si è impegnata come petrarchista (lo dico pur sapendo che la definizione le sta stretta), che ha postillato e trattato in forma di recensio, quanto anche nei risultati altrui poteva giovare al o mettere in discussione il proprio punto di vista: ecco cosa può avere interessato questa infaticabile lettrice “costretta” a scrivere.

Ebbene, il nuovo percorso degli scrittori e critici mette a punto alcuni cardini della nuova critica, pur rilevandone il non facile cammino. Si comincia giustappunto con Cesare Segre, severo nei confronti di quanti allontanandosi dalla (o non fermandosi alla) ricerca del significato si dedicano a indicare le figure del senso nel testo, a suo dire difficilmente dimostrabile. Ed ecco Adelia Noferi chiamata in causa che pazientemente riparte da George Steiner (non a caso la cultura francese ha maturato con intelligenza il concetto: da Greimas a Deleuze), e dal perpetuo movimento del senso di cui egli parla (sotto ogni strato di significanza lessicale cosciente, p.375), e commenta: Il fatto è che il senso non si allontana dal testo: il senso è proprio ciò che eccede dal testo; si allontana dai significati, non dal testo, che, nel linguaggio poetico, continua ad emettere sensi al di là dei significati, al di là del tempo e dello spazio, anche al di là delle intenzioni dell’autore. È questa la cosiddetta eternità della poesia. Quanto alla “intercambiabilità di affermazioni e negazioni”, la coincidenza e la compresenza degli opposti ha alimentato per secoli la tensione razionale e/o psichica tanto del linguaggio poetico quanto di quello filosofico: si pensi, ad esempio, a Petrarca o a Giordano Bruno (p.375). Dunque, il territorio esploratissimo del linguaggio petrarchesco mette in questione alcune stimolanti scelte di metodo. Supporre la consistenza del senso in ogni atto comunicativo e creativo vuol dire prima di tutto ipotizzare il percorso di qualcosa che si sta costituendo (in senso generativo), che si sta orientando, e anche enunciare il formarsi del messaggio come prodotto di una cooperazione con chi interpreta o legge o ascolta o riceve. Il senso, perciò, ritengo che dichiari una o piú direzioni del discorso, direzioni che il significato non è in grado di rappresentare, se non ad uno stadio normativo di superficie.

Ed è appunto il testo di Petrarca, fisiognomicamente costruttivo, a dover sostenere la responsabilità di questa prova e di questa acquisizione dell’intelligenza contemporanea. Spiega Adelia: perché egli (Petrarca) aveva già individuato e sperimentato sia la compresenza dei contrari (...) sia il problema della costruzione e decostruzione del significato, e quindi del senso del testo e nel testo. Problema irresolubile, se si chiede una “verità” definitiva (p.376).

Naturalmente qui gli esempi si potrebbero fare in gran copia: basterebbe rammentare il bellissimo libro di Adelia Noferi, Frammenti per i fragmenta di Petrarca (2001), e per sottolineare che la rilettura va di pari passo con la riscrittura (poetico-critica) rammentare anche quanto puntualizza nel libro complementare a questo, Riletture dantesche (Roma, Bulzoni, 1998): ogni rilettura deve essere storicizzata; essa si giustifica in quanto mette in rapporto un testo situato in un tempo determinato e in una determinata cultura con un altro tempo e un’altra cultura (quelli, appunto, della rilettura), e nell’istituire tale rapporto potrà porre al testo domande diverse e, se sono pertinenti, ottenerne diverse risposte (p.9). La pertinenza delle domande da porre al testo funziona in tutti i modi come regola “a monte” per evitare il tanto scongiurato pericolo della cattiva interpretazione, interpretazione arbitraria, o misinterpretation che si voglia. Per questo motivo, nel 1993, era ritornata sulla concezione della scrittura petrarchesca come integumentum (ricavandola da una lettera del poeta), quello che dà il piacere della scrittura e anche il piacere dell’ascolto, implicito nel tracciato del Canzoniere. Là dove l’oscurità viene definita come strategia di seduzione del lettore (...). Si tratta della funzione dell’integumentum-velo come “ostacolo”: tanto alla vista quanto alla comprensione del messaggio (Soggetto e oggetto nel testo poetico. Studi sulla relazione oggettuale, Roma, Bulzoni, 1997, p.261). E citando Freud: La “veste” (integumentum) della parola (travestimento, smorzamento, spostamento, condensazione, “diverso raggruppamento dei contenuti”, ecc.) non rimuove ciò che desta vergogna, ma permette (...) di servirsi della “veste stessa” per “dire” e per ascoltare (...) ciò che è piú segreto e occulto (ivi, p.266). Dal che si deduce che anche l’integumentum, che fa da copertura del discorso, in effetti scrive letteralmente il tracciato dell’emblema a cui si riferisce il discorso della poesia, tracciato deducibile a sua volta dalle stesse strategie del senso (i giochi dei diversi tipi di significanti). Del resto, per meglio far capire cosa sia il senso (e soprattutto che non è materia ineffabile), e che non il significato ma il senso è responsabile del messaggio poetico, Adelia mette giustamente in rilievo, nella nostra Postilla, uno dei saggi piú belli perché intrigante mai scritti su Petrarca, ovvero Petrarca fra il palazzo e la cameretta di Andrea Zanzotto. Un altro poeta, decisivo per le sorti della contemporaneità, che nella propria rilettura e nell’ereditare il testo, accogliendolo nella propria scrittura, ha dialogato e lottato con l’alterità petrarchesca. Giustappunto qui Adelia sottolinea il fatto che Zanzotto parli di talamo, citando una lettera a Boccaccio, a proposito della stanza (e del bosco-caos?): è un talamo certamente sterile e fatto per nozze con la negazione, con il dolente nulla (...). Ma in quel talamo si generava col mai spento sangue del Canzoniere (...) un sostanziale approccio all’autocoscienza della poesia (...), con tutte le sue implicazioni (cito volutamente la citazione a p.381). Ebbene, con una geniale analogia la mente critica noferiana ritrova un altro talamo, come recesso spaventoso circondato da solitudine (nel De vita solitaria). E la domanda (posta al testo) è diretta e in linea con una tale raffinata correlazione: il talamo (positivo) della lettera a Boccaccio è lo stesso talamo (negativo) di Cipriano: una stanza paurosa, oscura, soffocante, “nascosta da una corazza di marmo”, come una tomba? Io credo di sí: credo che siano due facce di una stessa voluptas e di uno stesso orrore: la morte (p.382). Anche qui il senso ha surclassato di gran lunga la norma del significato, costringendo (attraverso l’integumentum del discorso) il lettore di ieri e quello di oggi a cercare quel legame nascosto che fa muovere il valore della parola in direzione inaspettata. Tanto che il senso è dato (e qui entra in discorso la riflessione critica di Stefano Agosti) anche attraverso le pause, gli spazi bianchi, le irregolarità, ecc. come, secondo Adelia, dimostra pienamente una lettera a Pandolfo Malatesta (Epistole varie, 9), nella quale Petrarca spiega l’uso che fa degli spazi bianchi nella prospettiva del libro, che potrebbero riempirsi del recupero di altri frammenti sopravvissuti su fogli consunti o appena leggibili. (è interessante constatare come alcuni poeti contemporanei, come ad esempio Zanzotto e Milo De Angelis lavorino alla stessa maniera: affidando frammenti ad un cassetto – o a un sacchetto – ed estraendoli di volta in volta come a riempire spazi bianchi nel libro che per loro di volta in volta si forma come libro, e persino riprendendo frammenti del passato, magari già editi, e ricontestualizzandoli).

Quella petrarchesca è dopotutto la testimonianza di un poeta che lavora non sul tracciato pre-esistente, costruendovi il libro, ma entrando fra gli spazi bianchi, e dunque rimettendo continuamente in gioco il profilo del libro stesso, e i suoi fili. Acutissima, d’altra parte, la segnalazione di Adelia: Questa è certo la ragione delle pagine bianche, ma è anche un modo per non chiudersi in un libro (tutti o quasi i suoi libri sono stati interrotti), forse per non chiudere nemmeno il Canzoniere, di cui pure aveva scritto il testo finale (la canzone della Vergine, accompagnata dalla postilla: in fine libri ponatur), comunque per lasciare a sé e al libro una porta aperta alla “autogenerazione incessante del testo” (p.385, quest’ultima è una citazione da Agosti). E mentre Agosti sembra credere che Petrarca stia scoprendo, con il proprio gioco testuale, il senso del mondo, Adelia rimette in ballo lo stesso gioco. Attenzione: quel “gioco” Petrarca già lo conosceva e lo aveva sperimentato; al fine non tanto di scoprire il senso del mondo, quanto, dichiaratemente, di dire l’indicibile e l’interdetto, di dirlo con l’Altro linguaggio: l’alieniloquium (p.385), (l’alieniloquium di cui scrive al fratello Gherardo nella Familiare X, 4, è interpretato dalla Bettarini come sovrasenso).

Non poteva davvero darsi lezione piú alta di fiducia nel testo, nella parola, nella poesia, come energia continuamente attivata dall’attenzione del lettore. Il fatto è che la materia su cui poggia la scrittura è considerata in partenza dal critico come vitalissimo enigma. E del resto lo stesso poeta non può che lavorare, secondo Adelia che commenta la Familiare X, 3, su una materia inestinguibile, che cosí spiega l’uso del testo come oggetto di un messaggio che necessita dell’aiuto degli altri e insieme assicura gloria al suo autore: Si trattava dunque di un discorso (o un canto) su una materia inestinguibile (...) e sottoposto a interdetto e censura, ma che può avvalersi della complicità degli “altri” (quelli che ascoltano e plaudono) nel diventare “favola delle genti”, ed ottenere anche la fama. Una trappola per i lettori; ma anche per il poeta stesso: quell’“Amore” non dicibile, perché vietato eticamente e socialmente, copre (nasconde e insieme svela) un’altra indicibilità: quella del desiderio: il desiderio che non ha un vero nome (come ha scritto Mannoni) (p.386)

Il problema si inverte quando Adelia Noferi affronta la tendenza di chi vuole vedere nel Canzoniere un (non riuscito) tentativo di trasformare la lirica in narratività, come dice Marco Santagata (qui citato a p.403). Qui il critico non assume la funzione di interpretare o analizzare i testi dell’autore, ma piuttosto quella di suggeritore, di guida dei comportamenti dell’autore (mettersi nei suoi panni, nelle sue difficoltà;e soprattutto mettere ordine nel suo disordine) (pp.401-402). Il caso critico di Santagata, e del suo immane lavoro intorno all’opera di Petrarca, funziona nel saggio come esemplare di un’intera tendenza della critica in generale, avviata cioè a guardare con circospezione se non con preoccupazione eventuali fughe, sconnessioni, rotture e irregolarità, a cui è però continuamente sottoposta nella lettura del libro del Canzoniere. E cosí il casus interpretandi diventa un altro, si sposta in un altro complesso scenario che è quello della scelta che sta a monte della lettura e che indirizza le metodologie. Ovvero, si chiederà ad ogni passo e per ogni critico e studioso: ritieni che la poesia sia un “universo chiuso” o un “panorama aperto” ? La risposta di Petrarca (e in essa quella di Adelia Noferi) è senza dubbio per la seconda opzione: l’apertura (in tutte le direzioni e verso tutti i tempi) alla produzione del senso al di là dei significati. (p.403). Apertura che stigmatizza tanto lo spazio dell’interpretazione quanto quella della scrittura creativa in sé, tanto il confronto quanto la fase progettuale, anche del critico-scrittore e della sua implicita poetica critica, implicita ma non sempre rivelata ai pochi suoi lettori (se ce ne sono). Apertura che sancisce ancor piú quella necessaria cooperazione fra lettore e testo, caldeggiata da piú parti e da piú punti di vista teorico‑critici. Sempre nei termini di questa apertura del critico verso il testo e del testo nei confronti delle ipotesi critiche, Adelia Noferi entra nel vivo di un confronto con un compagno di strada, a cui la legano forti vincoli di amicizia ma da cui la separano scelte interpretative. Parliamo di Domenico De Robertis al quale riconosce che, al contrario di Santagata, non scopre un Petrarca narratore (...), bensí la sua capacità di tornare sulle proprie “esperienze” per rivalutarle, rivederle, ricomprenderle (p.421), all’interno del formarsi del testo anche attraverso lo studio delle varianti. E commenta Adelia, ponendo tale “esperienza” sotto il segno dell’apertura: è appunto questo continuo tornare sui propri passi (sui propri testi) per ri-conoscersi, ri-pensarsi, che “apre” il Canzoniere ad ogni ripensamento, riconsiderazione, rilettura, reinterpretazione, non solo dell’autore, ma di tutti gli (sconosciuti) lettori futuri (tutti i “Voi ch’ascoltate...”), rendendolo, nella sua immobile identità, sempre diverso e sempre “moderno”; e la sua poesia una “perenne variazione, ossia riproposta dell’immutabile” (queste ultime sono espressioni di De Robertis) (p.421).

In linea con quanto riconosce apertamente e magistralmente Andrea Zanzotto nel suo saggio, già citato, parlando di significante nudo, cosí Adelia Noferi preleva uno splendido campione di colei che definisce una filologa non‑pura, Rosanna Bettarini, la quale parla appunto di significante puro, autosufficiente (qui citata a p.423), e ne ricava una delle questioni nevralgiche della scrittura di Petrarca: il problema del suo continuo giocare con i referenti, reimpastandoli, anzi (come vedremo) facendone tratti dell’emblema di cui parla, e perciò con un sacro terrore non del significato della parola, della frase, del verso, ma della vocazione alla significatività, alla frequentazione magari di significati ritenuti immortali inconfutabili. Questo ha indotto alcuni (e per tutti giustamente viene citato Guido Almansi) a parlare di insignificanza, che è un controsenso inaccettabile per chi parli di letteratura. La letteratura muove intorno a sé la significanza, come polvere da cui nasce e si rigenera il linguaggio, che appunto consente di manipolare l’ordine dato dal mondo alle parole, ma anche l’ordine dato dai discorsi all’immagine del mondo. Perché non collocarsi in questa semplice scena creativa? Fra l’altro, Petrarca si pone un tale problema della rimessa in gioco del senso, del superamento della demarcazione del significato o della significatività unanimemente umanisticamente condivisibile come incrollabile credo, e lo sperimenta nella lingua, e con il suo amore (senza vergogna: è un’altra agudeza di Adelia) per la scrittura, per la dichiarazione del piacere della scrittura. Quanto questo significante puro, ovvero disinibito, parte materiale di un piú complesso gioco del senso e dell’emissione del messaggio senza arrivo ultimativo, dovesse imbarazzare o sedurre i suoi lettori lo testimoniano le cronache anche letterarie dal Cinquecento a oggi. E per di piú Petrarca assume la responsabilità di spargere questo diletto senza vergogna (pur confessando in superficie il contrario) in un libro consistente, che ha un’intelaiatura, noi pensiamo, consistente. Rosanna Bettarini chiamerebbe in causa la interelazionabilità dei frammenti e nodi del libro che illuminano o oscurano tali circuiti del senso, e tracciati per il lettore, e chiamerebbe, come fa, in causa (qui citata a p.424) Proust. Ma Adelia precisa una nota fondamentale per capire Petrarca ma anche per capire in quale misura la poesia europea del Novecento e d’oggi mantenga la propria vocazione alla poesia (non dico alla liricità), tessendo unità narrative (come a dire: la poesia si racconta dal suo interno, non ha bisogno di raccontare personaggi, e sono semmai Joyce o Beckett a somigliare maggiormente a poeti che estendono la prosa a personaggi, non il contrario). Dunque Noferi accenna ad una importante differenza: la “macchina” petrarchesca non è “grandiosa” come quella proustiana, bensí quasi invisibile, sottilissima, lacerata ma subito ricomposta, mortale per chi vi si addentri, come, appunto, una tela di ragno (p.425).

Il fatto è che grazie alla lettura di Adelia Noferi nella scrittura petrarchesca siamo in grado di scorgere immagini, e immagini di immagini, compresa quella della scrittura, di per sé significative, altrimenti indescrivibili, consistenti pur nella loro sottigliezza, durature e mortali pur nella loro labilità. È questa consistenza (e taccio su questioni piú dirette riguardanti specifiche interpretazioni) che si mette in rilievo con il metodo critico delle tipologie o la cosiddetta “topica storica” (maestro indiscusso ne è stato Jean Starobinski), nel nostro caso riguardante ancora un critico esemplare come Carlo Ossola. Osservandola come dall’esterno, Adelia la comprende descrivendola: Questa è una poetica critica assai allettante, e che pone problemi di grande spessore: quelli di scoprire ciò che si nasconde nella scrittura (o nella figura) per giungere alla “ostentazione dell’invisibile”; che, trattandosi di letteratura, significa la dizione dell’indicibile, o la scrittura del non-scrivibile (p.434). è in questa straordinaria prospettiva, che certo rende incredulo chi attende nell’immobilità la riproposizione del valore immutabile, solo spostatosi nella storia, è in questa vocazione a lavorare continuamente al limite dell’interrogazione dei testi che si colloca il lavoro del critico, o è questo lo spazio in cui si dovrebbe pensare anche la critica militante, persino quella dei quotidiani, quella che abbraccia l’anticipazione e il momentaneo. Naturalmente Adelia Noferi insiste su una riflessione che mette in gioco i metodi attuali della critica (ammesso che osino farsi definire), e scrive: L’occhio del critico non deve fermarsi a ciò che si vede dall’esterno (la critica stilistica, o quella strutturale), ma deve penetrare nel “continente interiore” (che non è certo il significato, piuttosto il significante, o l’immagine, e soprattutto il “senso”), in quegli “interni (di cui parla Ossola), cioè, “che nella civiltà letteraria moderna hanno le pareti affrescate dal sogno” (p.435).

Ciò che abbiamo sin qui visto ci dà il senso di un complesso impegno critico, che tende a capire pur non definendosi, che tende alla scrittura pur provando imbarazzo (vergogna?), che sposta la propria attenzione fra le fatiche del profondo pur conclamando seduzioni a tutti i livelli. È il confronto contraddittoriamente coerente di Adelia con Petrarca, e con i lettori di Petrarca.

Pur essendo ampia la scelta dei critici e scrittori letti/riletti nella Postilla, ne rimane fuori uno, anche lui un compagno di strada di Adelia, forse il piú caro, poeta e critico, e forse incarnazione stessa di una apertura della poetica critica novecentesca, ovvero Piero Bigongiari. Del quale in questi ultimi mesi Adelia stessa ha riscoperto un denso scritto inedito su Petrarca; cosí ne è nata quella che si potrebbe chiamare una postilla dopo la Postilla, scritta quasi contemporaneamente alla riedizione delle Poetiche critiche novecentesche, forse come sua continuazione.

Scrittura di scritture: questo saggio si intitola Il Petrarca emblematico di Bigongiari (imminente in AA.VV., Petrarca europeo, Pécs-Budapest, Imago mundi), e riprende la lontana idea della definizione di emblema, data da Bigongiari nel 1937 e riproposta in un lungo saggio su Petrarca del 1970, trovato fra le carte del poeta, saggio del quale solo una parte è stata già pubblicata (Alcune considerazioni sull’energia figurale in Petrarca, in Nuova Corvina, n.15, 2004, pp.13-20, numero monografico dedicato a Petrarca).

Ma anche queste recentissime riflessioni di Adelia rileggono, sviluppandolo, il proprio discorso su un Petrarca emblema critico, di cui abbiamo parlato.

Naturalmente si parte da un riguardare a ritroso verso l’origine di questo pensiero bigongiariano (e verso l’origine dello stesso interesse di Adelia), che si situa non solo al 1937, già evidenziato, ma in un delicatissimo passaggio del Senso della lirica italiana (il libro di Bigongiari esce nel 1952, ma il saggio eponimo che ci interessa è del 1946), libro del quale Adelia Noferi sottolinea queste parole: C’è che (...) saprà definire come il tempo e lo spazio petrarcheschi siano risucchiati, ampliati dall’emblema stesso del tempo e dello spazio. (...) Le cose si muovevano proiettandosi nel flusso inesausto dell’anima (...), il loro flusso perpetuamente trascorrente e insieme fermo: come di un fiume sempre identico e sempre diverso. E Adelia commenta e si interroga: E sono metafore che verranno assai spesso riprese. Ma Bigongiari stesso come è arrivato all’emblema? Direi, senz’altro, attraverso Ungaretti, e naturalmente tanto il critico che il poeta, cioè in un confronto con il testo che si svolga su un doppio e sovrapposto binario. Di qui certamente la sottolineatura bigongiariana della mobilità che sta dentro l’apparenza della fissità, della ripetizione del flusso.

Bigongiari parla dell’emblema ungarettiano, ma in esso, oltre al richiamo a Petrarca, vengono a rilevarsi alcuni elementi fondamentali per la nozione stessa di ‘emblema’: anzi tutto funzione visiva, ed inoltre la ‘figura’ ed il suo dileguarsi, la ‘consistenza sotto le cose’, lo ‘scorporarsi’ di un ‘corpo contemplato’, che richiamano proprio la storia del lemma. Questa storia del lemma Adelia la chiarisce meglio, partendo da Cicerone e Quintiliano (ornamento del discorso), ma soprattutto è reinterpretata come assemblaggio di frammenti che costituivano un segno grafico assai complesso che doveva sollecitare la capacità interpretativa del lettore‑osservatore. Siamo al punto della questione: il Petrarca emblematico di Bigongiari non porta tracce di un emblema (che invece sarebbe piú prossimo alla simbolizzazione o all’allegoria, secondo la critica precedente), ma è un Petrarca in chiave iconica, visto dalla parte della creazione dell’immagine, nel formarsi della materia, dei significanti, in ambito semiotico (ambito involontario tanto per Bigongiari quanto per Adelia Noferi). Ecco che le tessere si accostano ad altre tessere e, se sempre nel saggio del ’46, Bigongiari indica una esigenza, fra le righe, generazionale (dobbiamo sciogliere il flusso (...) che per noi è un po’ come coagulato alla luce che (...) lo tiene fisso nella sua magia), nel saggio degli anni Settanta se ne coglie lo sviluppo (Il Canzoniere è il luogo della realtà del mutamento, del continuo fluire dell’identità, di un’identità il cui continuo identificarsi la disidentifica, in quanto, scrive Adelia, il saggio inedito bigongiariano si fonda proprio sulla cancellazione di quel dubbio. E non solo le tessere si allineano alle tessere, del poeta, del poeta‑critico che lo commenta, del critico che interpreta le posizioni in una sorta di intercommento, ma si sviluppa quest’idea della disidentificazione che sarà culminante proprio nell’ultima poesia di Bigongiari.

Per associazione con quest’idea di slittamento, la stessa Adelia entra nella consistenza dell’immagine: è dunque la fluida consistenza‑inconsistenza dell’immagine, che determina l’ambigua emblematicità petrarchesca; un’immagine che può ripetersi nella sua identità alterandosi ad ogni, anche minima, ripetizione;che si impone nel testo, ma per sfuggirne; che si squilibra in ogni ottenuto equilibrio; dove le perfette simmetrie si sbilanciano. Dunque, l’emblema, dietro l’acuta riflessione di Bigongiari, viene accettato come immagine di riferimento, ma utile per l’interpretazione del testo petrarchesco proprio nella sua genericità, un’immagine‑emblema la cui fisionomia è costituita da grandi indicatori piuttosto che dalla rassomiglianza ad un’identità, o dalla simulazione del racconto di quella somiglianza. L’immagine‑emblema‑referente assume in sé la forza di grande indicatore producendo perciò una sorta di slittamento verso altre immagini costituitesi con la medesima dinamica, a partire da quella per noi del tutto ovvia di Laura (ovvia perché per secoli la critica e i lettori ne hanno cercato una identificazione “reale”). E appunto commenta Adelia: Ecco: la figura, che, ovviamente, è la figura di Laura, ma non solo come figura, bensí come nome, nei suoi plurisensi (Laura, l’aura, lauro, l’auro...) che anch’essi si irradiano, fonosimbolici, nei testi, per cui il valore emblematico figurale si incrocia, si sovrammette, si altera nella sua sostanza fonica, producendo altre immagini, altri emblemi. E perciò può darsi che uno degli interessi che hanno tenuto desto il pensiero critico di Adelia Noferi intorno a questo tema per oltre un trentennio stia nel desiderio di comprendere l’emblematicità nei suoi elementi fondanti e considerata con occhio novecentesco, quindi né dal punto di vista dei contemporanei di Petrarca né degli umanisti. Per tutti vale comunque quanto desume dall’analisi del saggio di Bigongiari, ovvero che l’emblema è la figura offerta alla vista, con tutto ciò che comporta, per cui non solo l’emblema viene messo in movimento, ma scatena movimenti in tutto ciò cui si avvicina: soggetto, oggetto, memoria, oblio, significante, significato.

E torniamo alla domanda da cui era partita in questa postilla fuori della Postilla: da dove deriva a Bigongiari un interesse cosí diretto per il problema di cui stiamo parlando? Da Ungaretti, si è detto, ma perché Bigongiari corregge (...), o completa l’ungarettiano Petrarca poeta dell’oblio con l’introduzione del simulacro di contro all’emblema, ma anch’esso ‘ambiguo’ (come emblema) in quanto insieme donatore e cancellatore dell’oblio.

Qui bisogna ricordare che per Bigongiari (che ne parla nel secondo volume della Poesia italiana del Novecento, a proposito di Ungaretti) l’emblema si oppone all’oblio perché fissa nella memoria alcune tracce, mentre il simulacro è di per sé produttore di oblio (La metamorfosi immobile è (...) la soluzione che Bigongiari adotta per mettere in moto quell’emblema che era stato considerato come immobile): un oblio che, dunque ungarettianamente, non è dimenticanza, come è detto benissimo nella Postilla (p.378), e provoca quel simulacro fluido, come lo chiama il poeta, capace di portare in sé il valore della trasformazione, del movimento (se l’io guarda i simulacri dell’io, arriverà a guardare se stesso da fuori in una necessaria disidentificazione della propria specificità psicologica).

Annota Adelia: Nella stessa frase dove Bigongiari richiama il simulacro, egli mette in gioco anche il referente, ma come “insimulabile”. Cioè si determina nuovamente, e dichiaratamente, una compresenza degli opposti: se il referente (la realtà) si consuma, si oscura, si volatilizza fino a sparire, tanto piú dovrà sostanziarsi (prendere corpo) il linguaggio, non sul versante del significato, bensí in quello del significante.

Dunque, ricapitolando: abbiamo da un lato l’emblema, che si propone come referente indotto dall’insieme dei significanti del testo, e dall’altro il simulacro: solo che, mentre per Petrarca e per Ungaretti vale questa affascinante spiegazione della sparizione della realtà alla quale si sostituisce un linguaggio fatto di significanti, altra piega prenderà il discorso proprio a partire da quella Terza generazione di poeti a cui appartiene Bigongiari stesso. A tacer d’altro, si deve almeno ricordare che il cosiddetto simulacro, come portatore di oblio, recupererà un valore positivo all’interno della dinamica del linguaggio poetico perché capace di avviare quel discorso di continuazione del reale che spetta alla poesia, mettendo dunque da parte l’ungarettiano recupero della memoria come opposizione alla perdita di valore della realtà. (Del resto nel proprio diario, intitolato postumo Un pensiero che seguita a pensare, prefazione di C. Ossola, a cura di P. F. Iacuzzi, Torino, Aragno, 2001, p.248, Bigongiari puntualizza: La memoria è uno specchio in cui si riflette l’assenza: quello che non è presente davanti ad esso. È uno specchio in cui si prospetta in assi tangenziali il passato e il futuro sull’“illusione del presente”, cioè una fuga all’infinito del tempo‑spazio. È la memoria che crea lo spazio illusorio come schermo in cui si riflette il tempo. Ma sarà allora l’oblio, secondo il poeta, il portatore di quei simulacri della presenza che azionano il senso, come ha ben spiegato Gilles Deleuze?).

È dunque importante rilevare il tracciato della poetica critica bigongiariana che, pur rispettando il testo di cui si occupa, provoca un diverso punto di vista in quanto la considerazione della funzione del testo, dalla parte dello scrittore, si è naturalmente modificata, e con essa la posizione della voce testuale rispetto alla realtà. Decisiva perciò la conclusione di Adelia: In questa modalità del discorso ossimorico Bigongiari colloca la funzione dell’emblema nel linguaggio petrarchesco: in opposizione al significato (per cui richiama l’arbitrarietà del segno saussuriana), ed insieme rivolto al referente del significato stesso.

Il referente del significato: non senza qualche dubbio chi ha avuto la bontà di seguirci fin qui, in un discorso teorico che via via si è fatto piú serrato sulla esemplarità del testo petrarchesco, accetterà questa particolare indicazione e della critica e della poesia.

Il saper pensare ad un referente del significato, vale a dire a ciò a cui il significato rimanda come oggetto della propria spiegazione “cosale”, porta in effetti nella posizione di cui si parlava prima. L’interesse della poesia, e soprattutto della poesia di oggi, mantiene desto questo orientamento: dare referenza ad un atto significativo o dare significato ad un insieme referenziale, in una continua e informale accettazione della realtà come possibilità, nei suoi dati i piú ampi e creativi che mente umana possa immaginare.

© Copyright 2001 CSIA - University of Trieste Ultima modifica il 01.09.2005
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