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Universita' degli studi di Trieste  

Del tema molto ampio che mi è stato assegnato, la presenza di Petrarca nella cultura e nella letteratura tra Ottocento e Novece

Anna Storti Abate

 

 

Petrarca tra Ottocento e Novecento

 

 

Dell’ampio tema che mi è stato affidato – la presenza di Petrarca nella cultura e nella letteratura degli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento – mi propongo di trattare solo due aspetti, che si prestano, a mio avviso, ad essere affrontati nelle classi della scuola secondaria, per promuovere la riflessione sulla vitalità dei classici nella storia della cultura e sulle complesse ragioni che ne determinano l’alterna fortuna. Il primo punto sul quale intendo soffermarmi è il ruolo svolto dalla figura e dall’opera di Petrarca nella cultura e, piú in generale, nella società italiana dei primi decenni postunitari, quando il poeta, assieme ad altri autori della nostra storia letteraria, divenne oggetto di un culto nuovo, principalmente per ragioni extraletterarie, come si vedrà. L’altro punto, cui è dedicata la seconda parte del mio intervento, concerne l’influenza che l’opera di Petrarca esercitò sulla poesia italiana fra ‘800 e ‘900 e, in particolare, sul fecondo rapporto che Carducci e Pascoli stabilirono con l’arte del grande aretino.[1]

 

Il primo argomento si presta ad una trattazione interdisciplinare allorché l’insegnante, nello svolgimento del programma di storia, introduce il capitolo dedicato alla costruzione dello stato unitario ed illustra le difficoltà, in larga misura impreviste, che i primi governi si trovarono ad affrontare, quando si accinsero non solo a unificare le strutture politiche, economiche, amministrative delle varie regioni, ma anche ad amalgamare culturalmente e idealmente popolazioni che per oltre un millennio avevano fatto parte di entità politiche diverse ed avevano avuto contatti scarsi o addirittura nulli. Significativo fu allora il contributo che gli uomini di cultura, e i letterati in particolare, diedero alla soluzione di quei problemi ed è opportuno che l’insegnante lo sottolinei, per far comprendere il ruolo che la letteratura può svolgere anche nella vita civile di un paese, aiutando in tal modo i ragazzi a trovare risposte agli interrogativi, che spesso si pongono, sull’utilità dello studio della storia letteraria.

Negli anni successivi alla conclusione del processo unitario l’autore del Canzoniere godette in Italia di una fortuna rinnovata, per ragioni del tutto diverse da quelle che avevano alimentato per secoli l’ammirazione verso il poeta. Non alludo tanto alle numerose edizioni delle opere, ai commenti, agli studi eruditi, che si intensificarono soprattutto dopo il ritrovamento del codice “degli abbozzi” (Vat. Lat. 3196), dal quale prese il via lo studio delle varianti d’autore dei Rerum vulgarium fragmenta. Questo è un capitolo importante della storia della fortuna critica del poeta, ma è un argomento che riguarda gli addetti ai lavori e difficilmente potrebbe essere affrontato in una classe di scuola secondaria. L’attenzione per Petrarca di cui parlo è d’altra natura ed ebbe per protagonisti e promotori non i critici letterari e gli studiosi, ma la classe dirigente del nostro paese, le autorità dello stato e gli amministratori locali, che si avvalsero della collaborazione degli intellettuali piú famosi del tempo, degli organi di stampa, della scuola, per incoraggiare la conoscenza e la celebrazione degli “uomini illustri”. Tra questi non poteva mancare Petrarca, che con Machiavelli era stato per secoli lo scrittore italiano piú noto nel mondo. Il processo di formazione di un “canone” di “itale glorie” era cominciato agli inizi dell’Ottocento, con Foscolo, che aveva individuato altresí, nella chiesa di Santa Croce a Firenze, una sorta di “tempio” di una nuova religione civile. La prima generazione romantica, poi, aveva visto, nei grandi letterati, artisti, pensatori del passato, i custodi dei valori della nazione, cui i patrioti risorgimentali potevano ispirarsi nella loro azione. Raggiunta l’unità, quando si cominciò a scoprire che, contrariamente a quanto si era pensato, la popolazione italiana era frammentata per lingua, cultura e tradizioni, il culto dei grandi poeti e artisti del passato fu uno degli strumenti che la classe dirigente del paese utilizzò per cercare di costruire quel sentimento di un’identità comune che sembrava mancare agli italiani e per “inventare” una tradizione per la neo-nata nazione.[2] Il tributo di onore e di venerazione verso coloro che si erano distinti nel campo delle arti, delle scienze, del valore militare pareva poter assolvere ad una duplice funzione, di rispecchiamento ed educativa: da un lato, infatti, si proponeva l’idea che i “grandi italiani” fossero i piú alti rappresentanti delle virtú caratteristiche del popolo intero, dall’altro, si cercava nella loro opera un insegnamento civile e morale, al quale i cittadini potessero guardare come esempio cui ispirare il proprio comportamento. Fu allora che si cominciarono a inventare i simboli e i rituali intesi a rafforzare, in piú ampi settori della popolazione, il sentimento di appartenenza alla comunità nazionale.

A far sí che i grandi del passato potessero entrare nella “memoria collettiva” degli italiani si prestarono molto bene le commemorazioni degli anniversari di nascita e di morte dei massimi poeti del passato, che furono un’autentica “invenzione” post-unitaria, una occasione creata per officiare i riti identitari della nazione, accanto alle rievocazioni storiche, alle feste nazionali di recente istituzione, alla rievocazione dei fasti della monarchia sabauda, all’intitolazione di strade e piazze a figure eroiche ed esemplari della storia passata, alla inaugurazione di statue e monumenti.[3] Primo ad essere celebrato solennemente, nel 1865, fu il centenario della nascita di Dante, cui seguirono, nel 1874 e nel 1904, i centenari della morte e della nascita di Francesco Petrarca. Entrambe le ricorrenze costituirono un’occasione per alimentare il culto del poeta, come dimostra un saggio molto interessante di Monica Berté, uscito in questo nuovo anniversario.[4] La critica erudita lavorò intensamente nell’ultimo quarto dell’Ottocento, catalogando i codici petrarcheschi, approfondendo lo studio degli autografi per dare alle stampe edizioni filologicamente corrette, avviando studi capaci di illuminare la cultura e la personalità del poeta. Ma, indipendentemente da ciò, anche per altri canali, dopo il 1874 si lavorò a far sí che Petrarca divenisse parte del patrimonio culturale degli italiani, come una delle glorie nazionali nelle quali essi potessero riconoscersi e delle quali potessero andare fieri, perché la sua opera e la sua arte avevano alimentato la nostra tradizione culturale, la mentalità e la sensibilità del popolo italiano. Attorno a Petrarca e alla sua importanza nella tradizione culturale nazionale, in preparazione del centenario del 1874, si svolse un pubblico dibattito: sulle pagine dei giornali si pubblicarono animate tribune sul modo migliore di onorare la memoria del poeta, in molte città si promossero pubbliche letture e conferenze, si scoprirono lapidi e si eressero monumenti, si organizzarono pellegrinaggi alla tomba di Arquà, mentre le autorità scolastiche invitavano gli insegnanti a celebrare adeguatamente il cantore di Laura e incoraggiavano la pubblicazione di antologie commentate dell’opera petrarchesca, che facilitassero la conoscenza del poeta tra i giovani.[5] Ancora piú solenni e diffuse su tutto il territorio della penisola le iniziative volte a commemorare il cantore di Laura in occasione del sesto anniversario della nascita, nel 1904.

Sappiamo che la cultura della prima metà dell’Ottocento aveva anteposto Dante a Petrarca:[6] la generazione romantico-risorgimentale, infatti, aveva riconosciuto nell’esule fiorentino un maestro e un esempio di impegno civile e aveva trovato nella sua opera, sostanziata di passione umana e politica, conforto e ispirazione all’azione degli uomini impegnati nel compimento dell’unità e dell’indipendenza italiane. De Sanctis, poi, come è ben noto, nella sua interpretazione della letteratura italiana come specchio della vita morale di tutto il popolo, aveva riconosciuto in Dante la grandezza del “poeta”, capace di trasfondere nell’opera tutta la ricchezza della sua vita interiore e della sua età, e aveva proposto il modello dantesco come metro di confronto per giudicare l’arte dei secoli successivi. Petrarca, grandissimo “artista” piuttosto che “poeta”, gli appariva come il prototipo di un’arte che si avviava a diventare fine a se stessa.

Ma benché lo schema interpretativo desanctisiano abbia avuto un seguito straordinario, nella seconda metà del secolo – come dimostrano il saggio di Monica Berté e, prima, il ponderoso studio di Carmelina Naselli – non solo Petrarca entrò, o rientrò, pienamente a far parte del “canone” dei grandi della letteratura italiana (insieme a Dante, Ariosto, Tasso e pochi altri) per giudizio condiviso da parte della gente colta e non solo degli addetti ai lavori, ma, come si è detto, venne anche “monumentalizzato”, collocato nel “pantheon” dei “patriarchi della nazione”,[7] simbolo della cultura e dell’identità nazionale, tra i quali era stato insediato da Foscolo. È indispensabile prendere in considerazione anche questi aspetti della fortuna del poeta, quando si voglia ricostruire in modo completo e articolato la temperie culturale di un’epoca, nella mentalità comune e non solo nel pensiero dei suoi intellettuali piú alti. Solo dimenticando e sottovalutando l’importanza dei fatti ricordati sopra, si può affermare – come recentemente è stato fatto – che la cultura dell’Ottocento, per responsabilità di De Sanctis, “espulse” il poeta aretino e il classicismo dall’identità culturale nazionale e che le tracce di questo si fanno sentire ancora ai nostri giorni.[8]

Come esempio dell’operazione ottocentesca di “monumentalizzazione” del poeta si può ricordare l’interpretazione che ne propose Carducci (un autore – sia detto per inciso – di cui oggi nella scuola non si parla quasi piú e che, invece, meriterebbe di essere fatto conoscere, attraverso la lettura non solo di quella parte della sua produzione “intima” che è piú vicina alla sensibilità del lettore di oggi, ma anche di alcuni dei componimenti piú celebrativi e retorici, esemplari di quel ruolo che egli volle assumere consapevolmente di “vate” nazionale, impegnato nella missione di “fare gli italiani” e cioè di contribuire, con la sua attività di politico, di docente e soprattutto di poeta, a rafforzare, o forse a creare, negli italiani il sentimento di una comune appartenenza ad una stessa nazione, superando differenze e divisioni interne).

Carducci in un primo momento, nella poesia giambica, era stato un portavoce delle posizioni dell’opposizione antigovernativa, repubblicana e anticlericale, aveva denunciato l’atteggiamento esitante del governo nei confronti della questione romana e si era eretto a fustigatore di una classe politica piú interessata ai propri affari che al bene della nazione.[9] Ma, dopo la metà degli anni Settanta, quando una parte dell’opinione pubblica cominciò a temere che l’unità nazionale appena raggiunta potesse essere messa in pericolo da fattori disgreganti – quali le prime agitazioni operaie, l’ostilità del Papa e del clero al nuovo stato, la conseguente astensione dei cattolici dalla vita politica –, Carducci condivise queste preoccupazioni e si impegnò in tutti i modi per contrastare le spinte disgregatrici e per collaborare alla costruzione di quella concordia nazionale che considerava un valore primario da difendere. A suo avviso, questa sarebbe stata raggiunta solo quando il popolo italiano, riconoscendosi in alcuni valori ideali comuni e in alcuni tratti distintivi della propria identità, derivanti dalla propria storia e cultura millenaria, avesse imparato a neutralizzare tutto ciò che poteva minare la sua coesione. La letteratura, ai suoi occhi, rappresentava un potente strumento di riconoscimento e di rafforzamento dell’identità nazionale e, coerentemente, da quel momento egli orientò verso tale obiettivo larga parte della sua attività di poeta e di critico. In questo quadro assume significato la lettura di Petrarca che egli propose nel discorso pronunciato ad Arquà il 18 luglio 1874, nel corso delle solenni celebrazioni del quinto centenario della morte del poeta. Massimo rilievo egli dava alle canzoni civili, Ai Signori d’Italia e Spirto gentil, nelle quali ravvisava la presenza dell’ideale profetico di una nazione libera da dominazioni straniere, unita e pacificata, che solo dopo cinque secoli si sarebbe finalmente realizzato. La modernità di Petrarca, che aveva saputo avviare il processo di umanizzazione e laicizzazione dell’arte e della cultura, con la sua attività di poeta, di filologo e di filosofo, trovava la sua espressione piú compiuta proprio nel politico, che aveva «posto su la cima dell’ideale del popolo italiano il concetto e il nome d’Italia nazione».[10] Mancavano qui ancora gli accenti filosabaudi, caratteristici della produzione carducciana posteriore al famoso incontro del poeta con la regina, ma vi era già anticipata l’idea che la monarchia può svolgere un importante ruolo di rafforzamento dell’unità nazionale.

 

Ma Petrarca è una presenza attiva anche nell’opera poetica carducciana, che può bene esemplificare l’influenza diretta esercitata dal poeta aretino sulla letteratura italiana tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento. Carducci fu di Petrarca profondo conoscitore: per lunghi anni si dedicò a un importante commento delle Rime, che vide la luce parzialmente nel 1876 (solo 31 i componimenti analizzati) e, completato con la collaborazione di Severino Ferrari, uscí nel 1899 da Le Monnier, nella collana dal titolo emblematico di “Biblioteca nazionale”. Ma la conoscenza sul piano critico-interpretativo del Canzoniere si tradusse sovente anche in motivo di ispirazione poetica.

È ancora una volta il Petrarca “politico”, nella particolare interpretazione di cui si è detto, a suggerire alcuni spunti in liriche quali Per Eduardo Corazzini (1868),[11] nella quale Carducci si scaglia contro il papa tiranno e contro i francesi, che a Mentana avevano fermato sanguinosamente la migliore gioventú italiana venuta a combattere per Roma. Qui cita i poeti che si erano fatti ispirare dalla città eterna – il Petrarca di Spirto gentil, insieme a Dante del canto VI del Purgatorio e Machiavelli dei Discorsi – presentandoli nelle vesti di profeti del Risorgimento.[12] Nel sonetto Commentando il Petrarca,[13] dice di voler placare le passioni del suo animo turbato immergendosi nello studio del Canzoniere (“Messer Francesco, a voi per pace io vegno”), ma come sia proprio una delle canzoni petrarchesche a risvegliare in lui la passione per l’Italia e per Roma (il che testimonia i limiti degli interessi politici di Carducci, che traggono alimento dalla letteratura del passato quanto o piú che dall’osservazione della realtà presente).

Ma non è solo il poeta civile a offrire motivi ispiratori a Carducci: Petrarca, nella sua concezione classicistica della poesia, è un modello di lingua e di stile da imitare per chi, come lui, voglia farsi continuatore della tradizione alta della lirica italiana, erede di quella latina e greca. In un sonetto, intitolato F. Petrarca,[14] Carducci afferma di voler imitare il poeta nella vita e nell’ispirazione e la lirica, effettivamente, è tutta improntata alla lezione di lingua e di stile dell’autore trecentesco. Nel componimento Il Sonetto, [15] dedicato al metro piú frequente della nostra poesia e alla sua storia, nella sequenza degli autori che avevano raggiunto i piú alti risultati in questa forma poetica, dopo Dante, Petrarca, Tasso, Alfieri, Foscolo, inserisce se stesso come estremo cultore.

Non stupiranno quindi le numerosissime citazioni interne e le riprese petrarchesche, che i commentatori piú attenti hanno individuato nelle poesie di Carducci. Non è possibile farne qui la rassegna completa, ma non è difficile indicarne alcune tra quelle che meglio possano servire a chiarire agli studenti il significato e il valore di questi frequenti rimandi intertestuali. Troviamo esempi di citazioni puntuali nei sonetti Traversando la Maremma toscana[16] e Qui regna amore, [17] che, nel titolo, riprende un verso della canzone Chiare fresche dolci acque. In questo componimento, a far da cornice alla visione della donna amata, viene ricreato un quadro paesaggistico che ricorda da vicino l’incanto del Sorgue e l’“aura” petrarchesca viene confermata dalle scelte lessicali presenti nella seconda quartina, tutta costruita con termini ripresi dalla prima stanza della canzone («siedi tra l’erbe e i fiori», «freschi», «dolce», «membra»). Tuttavia il sonetto carducciano è di tutt’altro tenore, per le allusioni erotiche abbastanza esplicite («le membra concesso hai de la pia / onda a gli amplessi di vigor frementi»). Tutta intessuta di echi petrarcheschi è anche la sestina Notte di maggio,[18] dove il poeta, che era nel vivo della sua stagione di sperimentatore di metri antichi, riprende una forma metrica tipica di Petrarca e poi caduta in disuso per secoli. A mano a mano che Carducci andava assumendo il ruolo di mentore e vate dell’unità nazionale e spuntava le armi della sua precedente polemica antigovernativa per accostarsi alle posizioni della classe dirigente del paese, anche nel giudizio su Petrarca le ragioni dell’estetica e della poetica diventavano prevalenti su quelle dell’impegno civile e la grandezza del poeta aretino, sottolineata con forza, diventava motivo di orgoglio nazionale.

Attraverso questi raffronti intertestuali l’insegnante avrà modo di far comprendere il significato, il valore e il peso della tradizione nella nostra cultura letteraria, che ha sempre usato tali riprese, citazioni, topoi, come “materiali” nella costruzione del testo. Ma importante sarà anche sottolineare la natura diversa del classicismo carducciano rispetto al petrarchismo imitativo che per secoli era stato un filone cospicuo e vitale della lirica italiana ed europea, ma che era definitivamente tramontato dopo la rivoluzione romantica e la rivalutazione dei valori dell’originalità e dell’individualità che essa aveva comportato. Se per Carducci Petrarca torna ad essere un modello, lo è in modo nuovo: nella sua opera non troveremo piú i rifacimenti e le infinite variazioni dei Rerum vulgarium fragmenta, ma piuttosto il “riuso” di materiali desunti dal modello (frasi, immagini, suoni, suggestioni), adattati a una sensibilità e a problematiche moderne.

 

Quanto detto fin qui per Carducci vale anche, e forse piú, per Pascoli e il suo rapporto con la tradizione letteraria. Nell’opera del poeta romagnolo è ancora piú difficile individuare le suggestioni petrarchesche (cosí come quelle dantesche, virgiliane, omeriche) “incastonate” in un tessuto poetico che è pascoliano e tutto pascoliano. Si sa che egli trovava il motivo ispiratore originario dei suoi componimenti poetici nelle fonti piú disparate che avevano prodotto in lui una suggestione (un proverbio, un verso dell’Iliade, un canto popolare, un passo di Cicerone): se ne appropriava e costruiva attorno ad esso la sua lirica. Inoltre Pascoli leggeva i “suoi” autori (Virgilio, Dante) in modo molto personale, alla luce della propria sensibilità e dei problemi che gli stavano piú a cuore, sicché essi finivano per diventare tutti un po’ simili a lui.

Tuttavia, anche nell’opera pascoliana, non mancano puntuali echi petrarcheschi, soprattutto nelle raccolte successive a Myricae. Nella prima raccolta poetica, Petrarca sembra poco presente rispetto ad altri classici frequentemente invocati dal poeta (Virgilio, Orazio, Dante) e ad altri riferimenti letterari (Poe, Whitman, Carducci stesso), come è possibile verificare attraverso l’edizione critica dell’opera.[19] Il mirabile lavoro compiuto da Giuseppe Nava per ricostruire la genesi dei singoli componimenti, che ha permesso di individuare fonti altrimenti difficili da scoprire, conferma che qualche traccia di Petrarca c’è, benché non molto significativa. Ricorderò, ad esempio, l’evidente citazione costituita dall’«oro dei capelli sparsi», che incontriamo nel madrigale Il lauro (un titolo chiaramente allusivo, tanto piú se si considera che nella terminologia botanica dell’autore quella pianta viene preferibilmente chiamata «alloro» o piú spesso «orbaco»).[20]

Ben diverso il caso della raccolta successiva, i Primi poemetti, dove – come segnala Nadia Ebani, curatrice di una pregevole edizione dell’opera[21] – Petrarca è un punto di riferimento importante per Pascoli, a vari livelli. Forse è questa l’opera nella quale la presenza del poeta aretino si fa sentire con maggiore intensità, benché in modo diverso rispetto a Carducci. Da esperto latinista, Pascoli attinge non solo all’opera in volgare di Petrarca ma anche a quella latina – che l’Ottocento aveva prevalentemente trascurato –, come gli era consentito dal registro stilistico piú elevato caratteristico della nuova raccolta. Inoltre qui, e soprattutto nella sezione Meditazioni, Pascoli sembra confrontarsi non tanto con il mirabile artiere di versi perfetti che aveva ispirato Carducci, quanto con il pensatore del Secretum e delle Familiares, da cui prende spunto la sua riflessione. Non mancano nei Primi poemetti, come nelle raccolte successive, alcuni riscontri precisi, ma ciò che appare piú interessante è il dialogo che Pascoli stabilisce con quelli che considera i suoi principali maestri: Petrarca, Sant’Agostino, non a caso interlocutore del poeta nel Secretum, e Leopardi. In alcune liriche – La grande aspirazione, [22] L’immortalità, [23] La felicità[24] – il poeta romagnolo sembra volersi cimentare nella discussione di alcuni temi tipici del pensiero petrarchesco e agostiniano: «la prigionia dell’anima nel carcere cieco del corpo, il desiderio di una libertà rappresentata come sole verso cui volare, la soggezione della materia alla carie del tempo, l’annullamento del tempo – istanti e secoli ridotti a un punto equivalente – la caducità conseguente della parola e del fascino del canto, destinato anch’esso, quanto la materia, alla distruzione: un istante all’improvviso rivelato e subito perduto [è] anche la felicità illusoriamente rincorsa per tutto il tempo della vita».[25] Si veda, ad esempio, nella lirica La grande aspirazione, come l’anelito alla libertà tipico dell’uomo venga simbolicamente rappresentato nell’immagine dell’albero «schiavo», anelante alla luce e al sole, ma in realtà ancorato al terreno dalle radici che lo tengono prigioniero, che vorrebbe «ali e non rami! piedi e non errori / ciechi d’ignave radiche!». Il tema percorre tutto il Canzoniere, dove ritroviamo in molti componimenti l’aspirazione a possedere le ali, in modo che l’intelletto possa levarsi al cielo, al sole, alla luce di Dio. Ma Pascoli, rispetto alla fonte, rafforza l’idea, tipica della sua visione del modo, dell’impossibilità a realizzare quell’aspirazione («e schiavi abbiamo, per il sogno vano, / noi nostri fiori, voi vostre parole»).[26]

Inoltre – è un’altra felice osservazione di Nadia Ebani – anche la successione degli argomenti, nei Primi poemetti, sembra suggerire l’impostazione graduale dell’argomentazione dei Trionfi: l’incalzante susseguirsi dei temi della vanità del reale, delle cose, del tempo, dei sentimenti, della conoscenza, della poesia stessa, non può non suggerire l’idea che il modello cui Pascoli si ispirò fosse quello del poemetto didattico-allegorico petrarchesco, pur senza condividere la struttura e le finalità dell’opera, che segue modelli e obiettivi tipicamente medievali.

 Se dalla lettura di Petrarca, di Agostino, di Leopardi, Pascoli ricava la conferma della vanità di ogni cosa e di ogni aspirazione, quelle suggestioni vengono poi inserite nel contesto di una sensibilità diversa, tipicamente sua, pur se legata ai temi e ai problemi caratteristici del Decadentismo: l’angoscia dell’ignoto che circonda l’uomo, dell’abisso in cui rischia di precipitare. A questa condizione di precarietà estrema il poeta può opporre, come estrema difesa, solo un sommesso appello alla solidarietà umana, che gli sembra di poter riconoscere nelle parole del cantore della Ginestra, e in un invito alla pace, che trova il suo riscontro in Petrarca. Ma, ancora una volta, il poeta trasforma, secondo la sua sensibilità, l’appassionata esortazione conclusiva della canzone Italia mia nell’invocazione sussurrata dei Due fanciulli («Uomini, pace!… Pace, fratelli»), che, come ebbe a scrivere Pascoli stesso, va pronunciata non «alzando il tono, ma invece abbassandolo».[27]

 

Ripercorrendo questa rete di rapporti intertestuali, l’insegnante potrà dimostrare come Carducci e Pascoli, pur in modi diversi, dialogassero entrambi con Petrarca “alla pari”, come con un contemporaneo, trovando nella sua opera spunti di riflessione e modelli d’arte sentiti come attuali. Da questo è possibile ricavare una conferma alla vitalità dei classici, che si dimostrano capaci di parlare al cuore e all’intelletto degli uomini di tutti i tempi. D’altro canto, è necessario sottolineare che un simile approccio di lettura implica il rischio di deformare il pensiero di autori lontani nel tempo e nello spazio. Compito dell’insegnante sarà allora quello di storicizzare l’uno e gli altri, Petrarca e i suoi lettori moderni, comprendendone le ragioni nel quadro dei problemi della cultura e della società del loro tempo.



[1]Su D’Annunzio, invece, non mi soffermerò. Mi limito a rimandare al recente ed esauriente saggio di P. Gibellini, D’Annunzio e Petrarca, in «Humanitas», a. LIX, n.1, gennaio-febbraio 2004.

[2] Cfr. L’invenzione della tradizione, a c: di E. J. Hobsbawm, e T. Ranger, Einaudi, Torino 1987. Per un’applicazione di questo tema all’ambito culturale italiano, si veda E. Irace, Itale glorie, Il Mulino, Bologna 2003.

[3] Cfr. gli studi di Bruno Tobia, Una patria per gli italiani, Laterza, Bari 1991 e Id., Una cultura per la nuova Italia, in Storia d’Italia, a c. di G. Sabbatucci e V. Vidotto,, vol. II, Il nuovo Stato e la società civile, Laterza, Bari 1995.

[4]M. Berté, “Intendami chi può”. Il sogno del Petrarca nazionale nelle ricorrenze dall’unità d’Italia a oggi. Luoghi, tempi e forme di un culto, Edizioni dell’Altana, Roma 2004.

[5] Per un dettagliata rassegna delle celebrazioni in molte città italiane, si veda C. Naselli, Petrarca nell’Ottocento, Perrella, Napoli - Genova - Città di Castello - Firenze 1923, p. 334-335.

[6] Per la fortuna di Dante tra ’700 e ’800 è d’obbligo ricordare il saggio di C. Dionisotti, Varia fortuna di Dante, in Id., Geografia e storia della letteratura italiana, Einaudi, Torino 1967, pp. 255-303.

[7] L’espressione venne usata da Carducci nel discorso Presso la tomba di Francesco Petrarca (1874), di cui si parlerà tra poco.

[8] È questa la tesi di Amedeo Quondam, che addirittura parla di un «parricidio di Petrarca» di cui si sarebbe macchiata la cultura dell’Ottocento. A. Quondam, Petrarca, l’italiano dimenticato, Rizzoli, Milano 2004.

[9] Per questo aspetto si potrebbe proporre la lettura di liriche quali In morte di Giovanni Cairoli , Canto dell’Italia che va in Campidoglio, Per il quinto anniversario della battaglia di Mentana, tutte comprese nella raccolta Giambi ed Epodi.

[10] G. Carducci, Presso la tomba di Francesco Petrarca, in Edizione Nazionale delle Opere di Giosuè Carducci, vol. VII, Discorsi letterari e storici, Zanichelli, Bologna 1935, pp. 329-355. La citazione si trova a p. 351.

[11] Poi compresa nella raccolta Giambi ed epodi. Tutte le liriche carducciane vengono citate dall’edizione delle Opere scelte di G. Carducci, vol.I, Poesie, a c. di M. Saccenti. U.T.E.T., Torino 1993.

[12] Ivi, p. 275.

[13] Del 1868, poi compreso in Rime nuove. Ed. cit., p. 443.

[14] Composto nel 1867, in Levia gravia. Ed. cit., p. 214.

[15] Composto nel 1870, in Rime nuove. Ed. cit., p. 412.

[16] Del 1885, compresa in Rime nuove. Ed. cit., p. 470. Il v. 5 «Ben riconosco in te le usate forme» è una ripresa puntuale da RVF, CCCI.

[17] Composta nel 1873, poi compresa, con notevoli varianti, in Rime nuove 1887. Ed. cit., p. 451.

[18] Composta nel 1885, poi in Rime nuove. Ed. cit., p. 600.

[19] G. Pascoli, Myricae, Edizione critica per cura di G. Nava, tomo I e II, Sansoni, Firenze 1974.

[20] Ivi, vol. II, pp. 77 e 358.

[21] G. Pascoli, Primi poemetti , a c. di N. Ebani, Fondazione Pietro Bembo, Guanda ed., Parma 1997.

[22] Ivi, p. 293.

[23] Ivi, p. 299.

[24] Ivi, p. 315.

[25] N. Ebani, Prefazione a G. Pascoli, Primi poemetti, cit., p. XV.

[26] Ivi, p. 297. La sottolineatura è mia.

[27] Ivi, p. 284.

© Copyright 2001 CSIA - University of Trieste Ultima modifica il 01.09.2005
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