
Anna Storti Abate
Petrarca tra Ottocento e Novecento
Dell’ampio tema che mi è stato affidato – la presenza di Petrarca
nella cultura e nella letteratura degli anni a cavallo tra Ottocento e
Novecento – mi propongo di trattare solo due aspetti, che si prestano, a mio
avviso, ad essere affrontati nelle classi della scuola secondaria, per
promuovere la riflessione sulla vitalità dei classici nella storia della
cultura e sulle complesse ragioni che ne determinano l’alterna fortuna. Il
primo punto sul quale intendo soffermarmi è il ruolo svolto dalla figura e
dall’opera di Petrarca nella cultura e, piú in generale, nella società italiana
dei primi decenni postunitari, quando il poeta, assieme ad altri autori della
nostra storia letteraria, divenne oggetto di un culto nuovo, principalmente per
ragioni extraletterarie, come si vedrà. L’altro punto, cui è dedicata la seconda
parte del mio intervento, concerne l’influenza che l’opera di Petrarca esercitò
sulla poesia italiana fra ‘800 e ‘900 e, in particolare, sul fecondo rapporto
che Carducci e Pascoli stabilirono con l’arte del grande aretino.
Il primo argomento si presta ad una trattazione
interdisciplinare allorché l’insegnante, nello svolgimento del programma di
storia, introduce il capitolo dedicato alla costruzione dello stato unitario ed
illustra le difficoltà, in larga misura impreviste, che i primi governi si trovarono
ad affrontare, quando si accinsero non solo a unificare le strutture politiche,
economiche, amministrative delle varie regioni, ma anche ad amalgamare
culturalmente e idealmente popolazioni che per oltre un millennio avevano fatto
parte di entità politiche diverse ed avevano avuto contatti scarsi o
addirittura nulli. Significativo fu allora il contributo che gli uomini di
cultura, e i letterati in particolare, diedero alla soluzione di quei problemi
ed è opportuno che l’insegnante lo sottolinei, per far comprendere il ruolo che
la letteratura può svolgere anche nella vita civile di un paese, aiutando in
tal modo i ragazzi a trovare risposte agli interrogativi, che spesso si
pongono, sull’utilità dello studio della storia letteraria.
Negli anni successivi alla conclusione del processo unitario
l’autore del Canzoniere godette in
Italia di una fortuna rinnovata, per ragioni del tutto diverse da quelle che
avevano alimentato per secoli l’ammirazione verso il poeta. Non alludo tanto
alle numerose edizioni delle opere, ai commenti, agli studi eruditi, che si
intensificarono soprattutto dopo il ritrovamento del codice “degli abbozzi”
(Vat. Lat. 3196), dal quale prese il via lo studio delle varianti d’autore dei Rerum vulgarium fragmenta. Questo è un
capitolo importante della storia della fortuna critica del poeta, ma è un
argomento che riguarda gli addetti ai lavori e difficilmente potrebbe essere
affrontato in una classe di scuola secondaria. L’attenzione per Petrarca di cui
parlo è d’altra natura ed ebbe per protagonisti e promotori non i critici
letterari e gli studiosi, ma la classe dirigente del nostro paese, le autorità
dello stato e gli amministratori locali, che si avvalsero della collaborazione
degli intellettuali piú famosi del tempo, degli organi di stampa, della scuola,
per incoraggiare la conoscenza e la celebrazione degli “uomini illustri”. Tra
questi non poteva mancare Petrarca, che con Machiavelli era stato per secoli lo
scrittore italiano piú noto nel mondo. Il processo di formazione di un “canone”
di “itale glorie” era cominciato agli inizi dell’Ottocento, con Foscolo, che
aveva individuato altresí, nella chiesa di Santa Croce a Firenze, una sorta di
“tempio” di una nuova religione civile. La prima generazione romantica, poi,
aveva visto, nei grandi letterati, artisti, pensatori del passato, i custodi
dei valori della nazione, cui i patrioti risorgimentali potevano ispirarsi
nella loro azione. Raggiunta l’unità, quando si cominciò a scoprire che,
contrariamente a quanto si era pensato, la popolazione italiana era frammentata
per lingua, cultura e tradizioni, il culto dei grandi poeti e artisti del
passato fu uno degli strumenti che la classe dirigente del paese utilizzò per
cercare di costruire quel sentimento di un’identità comune che sembrava mancare
agli italiani e per “inventare” una tradizione per la neo-nata nazione.
Il tributo di onore e di venerazione verso coloro che si erano distinti nel
campo delle arti, delle scienze, del valore militare pareva poter assolvere ad
una duplice funzione, di rispecchiamento ed educativa: da un lato, infatti, si
proponeva l’idea che i “grandi italiani” fossero i piú alti rappresentanti
delle virtú caratteristiche del popolo intero, dall’altro, si cercava nella
loro opera un insegnamento civile e morale, al quale i cittadini potessero
guardare come esempio cui ispirare il proprio comportamento. Fu allora che si
cominciarono a inventare i simboli e i rituali intesi a rafforzare, in piú ampi
settori della popolazione, il sentimento di appartenenza alla comunità
nazionale.
A far sí che i grandi del passato potessero entrare nella
“memoria collettiva” degli italiani si prestarono molto bene le commemorazioni
degli anniversari di nascita e di morte dei massimi poeti del passato, che
furono un’autentica “invenzione” post-unitaria, una occasione creata per
officiare i riti identitari della nazione, accanto alle rievocazioni storiche,
alle feste nazionali di recente istituzione, alla rievocazione dei fasti della
monarchia sabauda, all’intitolazione di strade e piazze a figure eroiche ed
esemplari della storia passata, alla inaugurazione di statue e monumenti.
Primo ad essere celebrato solennemente, nel 1865, fu il centenario della
nascita di Dante, cui seguirono, nel 1874 e nel 1904, i centenari della morte e
della nascita di Francesco Petrarca. Entrambe le ricorrenze costituirono
un’occasione per alimentare il culto del poeta, come dimostra un saggio molto
interessante di Monica Berté, uscito in questo nuovo anniversario.
La critica erudita lavorò intensamente nell’ultimo quarto dell’Ottocento,
catalogando i codici petrarcheschi, approfondendo lo studio degli autografi per
dare alle stampe edizioni filologicamente corrette, avviando studi capaci di
illuminare la cultura e la personalità del poeta. Ma, indipendentemente da ciò,
anche per altri canali, dopo il 1874 si lavorò a far sí che Petrarca divenisse
parte del patrimonio culturale degli italiani, come una delle glorie nazionali
nelle quali essi potessero riconoscersi e delle quali potessero andare fieri,
perché la sua opera e la sua arte avevano alimentato la nostra tradizione
culturale, la mentalità e la sensibilità del popolo italiano. Attorno a
Petrarca e alla sua importanza nella tradizione culturale nazionale, in
preparazione del centenario del 1874, si svolse un pubblico dibattito: sulle
pagine dei giornali si pubblicarono animate tribune sul modo migliore di
onorare la memoria del poeta, in molte città si promossero pubbliche letture e
conferenze, si scoprirono lapidi e si eressero monumenti, si organizzarono pellegrinaggi
alla tomba di Arquà, mentre le autorità scolastiche invitavano gli insegnanti a
celebrare adeguatamente il cantore di Laura e incoraggiavano la pubblicazione
di antologie commentate dell’opera petrarchesca, che facilitassero la
conoscenza del poeta tra i giovani.
Ancora piú solenni e diffuse su tutto il territorio della penisola le
iniziative volte a commemorare il cantore di Laura in occasione del sesto
anniversario della nascita, nel 1904.
Sappiamo che la cultura della prima metà dell’Ottocento aveva
anteposto Dante a Petrarca:
la generazione romantico-risorgimentale, infatti, aveva riconosciuto nell’esule
fiorentino un maestro e un esempio di impegno civile e aveva trovato nella sua
opera, sostanziata di passione umana e politica, conforto e ispirazione
all’azione degli uomini impegnati nel compimento dell’unità e dell’indipendenza
italiane. De Sanctis, poi, come è ben noto, nella sua interpretazione della
letteratura italiana come specchio della vita morale di tutto il popolo, aveva
riconosciuto in Dante la grandezza del “poeta”, capace di trasfondere
nell’opera tutta la ricchezza della sua vita interiore e della sua età, e aveva
proposto il modello dantesco come metro di confronto per giudicare l’arte dei
secoli successivi. Petrarca, grandissimo “artista” piuttosto che “poeta”, gli
appariva come il prototipo di un’arte che si avviava a diventare fine a se
stessa.
Ma benché lo schema interpretativo desanctisiano abbia avuto un
seguito straordinario, nella seconda metà del secolo – come dimostrano il
saggio di Monica Berté e, prima, il ponderoso studio di Carmelina Naselli – non
solo Petrarca entrò, o rientrò, pienamente a far parte del “canone” dei grandi
della letteratura italiana (insieme a Dante, Ariosto, Tasso e pochi altri) per
giudizio condiviso da parte della gente colta e non solo degli addetti ai
lavori, ma, come si è detto, venne anche “monumentalizzato”, collocato nel
“pantheon” dei “patriarchi della nazione”,
simbolo della cultura e dell’identità nazionale, tra i quali era stato insediato
da Foscolo. È indispensabile prendere in considerazione anche questi aspetti
della fortuna del poeta, quando si voglia ricostruire in modo completo e
articolato la temperie culturale di un’epoca, nella mentalità comune e non solo
nel pensiero dei suoi intellettuali piú alti. Solo dimenticando e
sottovalutando l’importanza dei fatti ricordati sopra, si può affermare – come
recentemente è stato fatto – che la cultura dell’Ottocento, per responsabilità
di De Sanctis, “espulse” il poeta aretino e il classicismo dall’identità
culturale nazionale e che le tracce di questo si fanno sentire ancora ai nostri
giorni.
Come esempio dell’operazione ottocentesca di
“monumentalizzazione” del poeta si può ricordare l’interpretazione che ne
propose Carducci (un autore – sia detto per inciso – di cui oggi nella scuola
non si parla quasi piú e che, invece, meriterebbe di essere fatto conoscere,
attraverso la lettura non solo di quella parte della sua produzione “intima”
che è piú vicina alla sensibilità del lettore di oggi, ma anche di alcuni dei
componimenti piú celebrativi e retorici, esemplari di quel ruolo che egli volle
assumere consapevolmente di “vate” nazionale, impegnato nella missione di “fare
gli italiani” e cioè di contribuire, con la sua attività di politico, di
docente e soprattutto di poeta, a rafforzare, o forse a creare, negli italiani
il sentimento di una comune appartenenza ad una stessa nazione, superando
differenze e divisioni interne).
Carducci in un primo momento, nella poesia giambica, era stato un
portavoce delle posizioni dell’opposizione antigovernativa, repubblicana e
anticlericale, aveva denunciato l’atteggiamento esitante del governo nei
confronti della questione romana e si era eretto a fustigatore di una classe
politica piú interessata ai propri affari che al bene della nazione.
Ma, dopo la metà degli anni Settanta, quando una parte dell’opinione pubblica
cominciò a temere che l’unità nazionale appena raggiunta potesse essere messa
in pericolo da fattori disgreganti – quali le prime agitazioni operaie,
l’ostilità del Papa e del clero al nuovo stato, la conseguente astensione dei
cattolici dalla vita politica –, Carducci condivise queste preoccupazioni e si
impegnò in tutti i modi per contrastare le spinte disgregatrici e per
collaborare alla costruzione di quella concordia nazionale che considerava un
valore primario da difendere. A suo avviso, questa sarebbe stata raggiunta solo
quando il popolo italiano, riconoscendosi in alcuni valori ideali comuni e in
alcuni tratti distintivi della propria identità, derivanti dalla propria storia
e cultura millenaria, avesse imparato a neutralizzare tutto ciò che poteva
minare la sua coesione. La letteratura, ai suoi occhi, rappresentava un potente
strumento di riconoscimento e di rafforzamento dell’identità nazionale e,
coerentemente, da quel momento egli orientò verso tale obiettivo larga parte
della sua attività di poeta e di critico. In questo quadro assume significato
la lettura di Petrarca che egli propose nel discorso pronunciato ad Arquà il 18
luglio 1874, nel corso delle solenni celebrazioni del quinto centenario della
morte del poeta. Massimo rilievo egli dava alle canzoni civili, Ai Signori d’Italia e Spirto gentil, nelle quali ravvisava la
presenza dell’ideale profetico di una nazione libera da dominazioni straniere,
unita e pacificata, che solo dopo cinque secoli si sarebbe finalmente
realizzato. La modernità di Petrarca, che aveva saputo avviare il processo di
umanizzazione e laicizzazione dell’arte e della cultura, con la sua attività di
poeta, di filologo e di filosofo, trovava la sua espressione piú compiuta
proprio nel politico, che aveva «posto su la cima dell’ideale del popolo
italiano il concetto e il nome d’Italia nazione».
Mancavano qui ancora gli accenti filosabaudi, caratteristici della produzione
carducciana posteriore al famoso incontro del poeta con la regina, ma vi era
già anticipata l’idea che la monarchia può svolgere un importante ruolo di
rafforzamento dell’unità nazionale.
Ma Petrarca è una presenza attiva anche nell’opera poetica
carducciana, che può bene esemplificare l’influenza diretta esercitata dal
poeta aretino sulla letteratura italiana tra la fine dell’Ottocento e i primi
anni del Novecento. Carducci fu di Petrarca profondo conoscitore: per lunghi
anni si dedicò a un importante commento delle Rime, che vide la luce parzialmente nel 1876 (solo 31 i
componimenti analizzati) e, completato con la collaborazione di Severino
Ferrari, uscí nel 1899 da Le Monnier, nella collana dal titolo emblematico di
“Biblioteca nazionale”. Ma la conoscenza sul piano critico-interpretativo del Canzoniere si tradusse sovente anche in
motivo di ispirazione poetica.
È ancora una volta il Petrarca “politico”, nella particolare
interpretazione di cui si è detto, a suggerire alcuni spunti in liriche quali Per Eduardo Corazzini (1868),
nella quale Carducci si scaglia contro il papa tiranno e contro i francesi, che
a Mentana avevano fermato sanguinosamente la migliore gioventú italiana venuta
a combattere per Roma. Qui cita i poeti che si erano fatti ispirare dalla città
eterna – il Petrarca di Spirto gentil,
insieme a Dante del canto VI del Purgatorio
e Machiavelli dei Discorsi –
presentandoli nelle vesti di profeti del Risorgiment.Nel
sonetto Commentando il Petrarca,
dice di voler placare le passioni del suo animo turbato immergendosi nello
studio del Canzoniere (“Messer
Francesco, a voi per pace io vegno”), ma come sia proprio una delle canzoni
petrarchesche a risvegliare in lui la passione per l’Italia e per Roma (il che testimonia
i limiti degli interessi politici di Carducci, che traggono alimento dalla
letteratura del passato quanto o piú che dall’osservazione della realtà
presente).
Ma non è solo il poeta civile a offrire motivi ispiratori a
Carducci: Petrarca, nella sua concezione classicistica della poesia, è un
modello di lingua e di stile da imitare per chi, come lui, voglia farsi
continuatore della tradizione alta della lirica italiana, erede di quella
latina e greca. In un sonetto, intitolato F.
Petrarca,
Carducci afferma di voler imitare il poeta nella vita e nell’ispirazione e la
lirica, effettivamente, è tutta improntata alla lezione di lingua e di stile
dell’autore trecentesco. Nel componimento Il
Sonetto,
dedicato al metro piú frequente della nostra poesia e alla sua storia, nella
sequenza degli autori che avevano raggiunto i piú alti risultati in questa
forma poetica, dopo Dante, Petrarca, Tasso, Alfieri, Foscolo, inserisce se
stesso come estremo cultore.
Non stupiranno quindi le numerosissime citazioni interne e le
riprese petrarchesche, che i commentatori piú attenti hanno individuato nelle
poesie di Carducci. Non è possibile farne qui la rassegna completa, ma non è
difficile indicarne alcune tra quelle che meglio possano servire a chiarire
agli studenti il significato e il valore di questi frequenti rimandi
intertestuali. Troviamo esempi di citazioni puntuali nei sonetti Traversando la Maremma toscana
e Qui regna amore,
che, nel titolo, riprende un verso della canzone Chiare fresche dolci acque. In questo componimento, a far da
cornice alla visione della donna amata, viene ricreato un quadro paesaggistico
che ricorda da vicino l’incanto del Sorgue e l’“aura” petrarchesca viene
confermata dalle scelte lessicali presenti nella seconda quartina, tutta costruita
con termini ripresi dalla prima stanza della canzone («siedi tra l’erbe e i
fiori», «freschi», «dolce», «membra»). Tuttavia il sonetto carducciano è di
tutt’altro tenore, per le allusioni erotiche abbastanza esplicite («le membra
concesso hai de la pia / onda a gli amplessi di vigor frementi»). Tutta
intessuta di echi petrarcheschi è anche la sestina Notte di maggio,
dove il poeta, che era nel vivo della sua stagione di sperimentatore di metri
antichi, riprende una forma metrica tipica di Petrarca e poi caduta in disuso
per secoli. A mano a mano che Carducci andava assumendo il ruolo di mentore e
vate dell’unità nazionale e spuntava le armi della sua precedente polemica
antigovernativa per accostarsi alle posizioni della classe dirigente del paese,
anche nel giudizio su Petrarca le ragioni dell’estetica e della poetica
diventavano prevalenti su quelle dell’impegno civile e la grandezza del poeta
aretino, sottolineata con forza, diventava motivo di orgoglio nazionale.
Attraverso questi raffronti intertestuali l’insegnante avrà
modo di far comprendere il significato, il valore e il peso della tradizione
nella nostra cultura letteraria, che ha sempre usato tali riprese, citazioni, topoi, come “materiali” nella
costruzione del testo. Ma importante sarà anche sottolineare la natura diversa
del classicismo carducciano rispetto al petrarchismo imitativo che per secoli
era stato un filone cospicuo e vitale della lirica italiana ed europea, ma che
era definitivamente tramontato dopo la rivoluzione romantica e la rivalutazione
dei valori dell’originalità e dell’individualità che essa aveva comportato. Se
per Carducci Petrarca torna ad essere un modello, lo è in modo nuovo: nella sua
opera non troveremo piú i rifacimenti e le infinite variazioni dei Rerum vulgarium fragmenta, ma piuttosto
il “riuso” di materiali desunti dal modello (frasi, immagini, suoni,
suggestioni), adattati a una sensibilità e a problematiche moderne.
Quanto detto fin qui per Carducci vale anche, e forse piú, per
Pascoli e il suo rapporto con la tradizione letteraria. Nell’opera del poeta
romagnolo è ancora piú difficile individuare le suggestioni petrarchesche (cosí
come quelle dantesche, virgiliane, omeriche) “incastonate” in un tessuto
poetico che è pascoliano e tutto pascoliano. Si sa che egli trovava il motivo
ispiratore originario dei suoi componimenti poetici nelle fonti piú disparate
che avevano prodotto in lui una suggestione (un proverbio, un verso dell’Iliade, un canto popolare, un passo di
Cicerone): se ne appropriava e costruiva attorno ad esso la sua lirica. Inoltre
Pascoli leggeva i “suoi” autori (Virgilio, Dante) in modo molto personale, alla
luce della propria sensibilità e dei problemi che gli stavano piú a cuore,
sicché essi finivano per diventare tutti un po’ simili a lui.
Tuttavia, anche nell’opera pascoliana, non mancano puntuali
echi petrarcheschi, soprattutto nelle raccolte successive a Myricae. Nella prima raccolta poetica,
Petrarca sembra poco presente rispetto ad altri classici frequentemente
invocati dal poeta (Virgilio, Orazio, Dante) e ad altri riferimenti letterari
(Poe, Whitman, Carducci stesso), come è possibile verificare attraverso
l’edizione critica dell’opera.
Il mirabile lavoro compiuto da Giuseppe Nava per ricostruire la genesi dei
singoli componimenti, che ha permesso di individuare fonti altrimenti difficili
da scoprire, conferma che qualche traccia di Petrarca c’è, benché non molto
significativa. Ricorderò, ad esempio, l’evidente citazione costituita dall’«oro
dei capelli sparsi», che incontriamo nel madrigale Il lauro (un titolo chiaramente allusivo, tanto piú se si considera
che nella terminologia botanica dell’autore quella pianta viene preferibilmente
chiamata «alloro» o piú spesso «orbaco»).
Ben diverso il caso della raccolta successiva, i Primi poemetti, dove – come segnala
Nadia Ebani, curatrice di una pregevole edizione dell’opera
– Petrarca è un punto di riferimento importante per Pascoli, a vari livelli.
Forse è questa l’opera nella quale la presenza del poeta aretino si fa sentire
con maggiore intensità, benché in modo diverso rispetto a Carducci. Da esperto
latinista, Pascoli attinge non solo all’opera in volgare di Petrarca ma anche a
quella latina – che l’Ottocento aveva prevalentemente trascurato –, come gli
era consentito dal registro stilistico piú elevato caratteristico della nuova
raccolta. Inoltre qui, e soprattutto nella sezione Meditazioni, Pascoli sembra confrontarsi non tanto con il mirabile
artiere di versi perfetti che aveva ispirato Carducci, quanto con il pensatore
del Secretum e delle Familiares, da cui prende spunto la sua
riflessione. Non mancano nei Primi
poemetti, come nelle raccolte successive, alcuni riscontri precisi, ma ciò
che appare piú interessante è il dialogo che Pascoli stabilisce con quelli che
considera i suoi principali maestri: Petrarca, Sant’Agostino, non a caso
interlocutore del poeta nel Secretum,
e Leopardi. In alcune liriche – La grande
aspirazione,
L’immortalità,
La felicità
– il poeta romagnolo sembra volersi cimentare nella discussione di alcuni temi
tipici del pensiero petrarchesco e agostiniano: «la prigionia dell’anima nel
carcere cieco del corpo, il desiderio di una libertà rappresentata come sole
verso cui volare, la soggezione della materia alla carie del tempo,
l’annullamento del tempo – istanti e secoli ridotti a un punto equivalente – la
caducità conseguente della parola e del fascino del canto, destinato anch’esso,
quanto la materia, alla distruzione: un istante all’improvviso rivelato e
subito perduto [è] anche la felicità illusoriamente rincorsa per tutto il tempo
della vita».
Si veda, ad esempio, nella lirica La
grande aspirazione, come l’anelito alla libertà tipico dell’uomo
venga simbolicamente rappresentato nell’immagine dell’albero «schiavo»,
anelante alla luce e al sole, ma in realtà ancorato al terreno dalle radici che
lo tengono prigioniero, che vorrebbe «ali e non rami! piedi e non errori /
ciechi d’ignave radiche!». Il tema percorre tutto il Canzoniere, dove ritroviamo in molti componimenti l’aspirazione a
possedere le ali, in modo che l’intelletto possa levarsi al cielo, al sole,
alla luce di Dio. Ma Pascoli, rispetto alla fonte, rafforza l’idea, tipica
della sua visione del modo, dell’impossibilità a realizzare quell’aspirazione
(«e schiavi abbiamo, per il sogno vano, / noi nostri fiori, voi vostre
parole»).
Inoltre – è un’altra felice osservazione di Nadia Ebani – anche
la successione degli argomenti, nei Primi
poemetti, sembra suggerire l’impostazione graduale dell’argomentazione dei Trionfi: l’incalzante susseguirsi dei
temi della vanità del reale, delle cose, del tempo, dei sentimenti, della
conoscenza, della poesia stessa, non può non suggerire l’idea che il modello
cui Pascoli si ispirò fosse quello del poemetto didattico-allegorico
petrarchesco, pur senza condividere la struttura e le finalità dell’opera, che
segue modelli e obiettivi tipicamente medievali.
Se dalla lettura di
Petrarca, di Agostino, di Leopardi, Pascoli ricava la conferma della vanità di
ogni cosa e di ogni aspirazione, quelle suggestioni vengono poi inserite nel
contesto di una sensibilità diversa, tipicamente sua, pur se legata ai temi e
ai problemi caratteristici del Decadentismo: l’angoscia dell’ignoto che
circonda l’uomo, dell’abisso in cui rischia di precipitare. A questa condizione
di precarietà estrema il poeta può opporre, come estrema difesa, solo un
sommesso appello alla solidarietà umana, che gli sembra di poter riconoscere
nelle parole del cantore della Ginestra,
e in un invito alla pace, che trova il suo riscontro in Petrarca. Ma, ancora
una volta, il poeta trasforma, secondo la sua sensibilità, l’appassionata
esortazione conclusiva della canzone Italia
mia nell’invocazione sussurrata dei Due
fanciulli («Uomini, pace!… Pace, fratelli»), che, come ebbe a scrivere
Pascoli stesso, va pronunciata non «alzando il tono, ma invece abbassandolo».
Ripercorrendo questa rete di rapporti intertestuali,
l’insegnante potrà dimostrare come Carducci e Pascoli, pur in modi diversi,
dialogassero entrambi con Petrarca “alla pari”, come con un contemporaneo,
trovando nella sua opera spunti di riflessione e modelli d’arte sentiti come
attuali. Da questo è possibile ricavare una conferma alla vitalità dei
classici, che si dimostrano capaci di parlare al cuore e all’intelletto degli
uomini di tutti i tempi. D’altro canto, è necessario sottolineare che un simile
approccio di lettura implica il rischio di deformare il pensiero di autori
lontani nel tempo e nello spazio. Compito dell’insegnante sarà allora quello di
storicizzare l’uno e gli altri, Petrarca e i suoi lettori moderni,
comprendendone le ragioni nel quadro dei problemi della cultura e della società
del loro tempo.