
Marzio Porro
Dante Laura la poesia: ancora sul sonetto
34
Il
sonetto 34 Apollo, s’anchor
vive il bel desio, cosí concettoso – a una prima
lettura – e “alessandrino”, dunque non tra i piú amati tra i primi del Canzoniere, vanta una sua notorietà in
gran parte dipendente dagli illustri nomi che, di passaggio, se ne occuparono
contrastando: bastino i nomi di Ernest Wilkins e Francisco Rico.
Testimoniato con varianti rispetto alla
redazione definitiva dell’autografo 1395 alla c. 9v da 1396, il Codice degli abbozzi, esso reca
soprascritta una celebre postilla che recita ceptum transcribj ab hoc
loco.1342 augusti. 21. hora.
6. «iniziato a essere trascritto da questo punto.
1342, il 21 agosto all’ora sesta» secondo l’edizione
piú recente per cura di Laura Paolino.
La lettura vulgata della postilla fino a non molto tempo fa suonava, invece,
ceptum transcribj et incep . ab hoc loco ecc. «iniziato a essere trascritto e
iniziato proprio da questo punto ecc.» che Paolino
corregge in virtú di un tratto di penna autografo che cassa la ripetizione et incep. — Nulla da dire sulla correzione, ma resta il fatto che non di banale errore si tratta, bensí
proprio di una voluta “repetitio” ad enfatizzare il
punto d’inizio di una trascrizione in bella copia che poi, come si sa, prosegue
includendo altri 14 componimenti presenti in 1396. Che Petrarca abbia poi voluto attenuare quell’“amplificatio”
non ne cancella la pertinenza di variante originaria.
Dalla postilla e dalla trascrizione seriale
prendono le mosse gli studiosi che intendono seguire le prime tracce di elaborazione dei RVF
come dantesco “libro”, soprattutto l’amicus transatlanticus Wilkins che
in quel capolavoro di appassionata ricostruzione filologica che è The Making of the
“Canzoniere” , uno dei piú sorprendenti viaggi dentro il “farsi del testo” –
e un testo del tardo medioevo – che siano stati compiuti, indica
definitivamente nel sonetto 34 l’esordio della prima forma del Canzoniere iniziata appunto il 21 agosto 1342.
A
quella data il Canzoniere non poteva essere che una sequenza parnassiana di miti classici – secondo l’opinione vulgata –,
intrecciati alla storia moderna di un amore impossibile il quale, primo degli innumerevoli
che seguiranno, si “incarta” nel falso movimento della
poesia lirica rendendo dolce ciò che invece è amaro, sopportabile ciò che è
insopportabile, gloria e vittoria la sconfitta, ecc. e dunque non poteva che
iniziare da Apollo, Dafne, la metamorfosi in lauro – e tutto quello che 34
contiene – come dall’indispensabile premessa che radicalmente modificava, in
direzione umanistica, senso e significato del “dire di lei” secondo Stilnovo.
Naturalmente, l’indicazione di una prima forma dafnea
del Canzoniere era facilitata, per la generazione che l’amicus rappresentava, dalla
fiducia che essa riponeva in un altro falso movimento sul quale oggi siamo piú
cauti, quello che Petrarca accredita anche in senso biografico tra una
giovinezza tutta dispersa nel secolo e una maturità e vecchiaia appartate,
penitenziali e filosofiche, tra il polo di un’ambizione letteraria acerba e
tutta terrestre e quello della meditazione stoica ed agostiniana. Uno
degli acquisti della recente esegesi consiste invece nel leggere il cammino di
conversione di Francesco come un eterno consistere dentro la stanza delle
proprie ossessioni in cui pulsione mondana e distacco ascetico, o desiderio di
distacco ascetico, coesistono e s’incrementano in un gioco sempre nuovo e
sempre uguale, oltre le vicende politiche e la stessa peste.
Se di movimento verso la conversione si deve parlare,
insomma, si tratterà allora di un lento movimento a spirale: l’anima di
Petrarca è una spirale tra la terra e il cielo ed è per questo che da lui
principia la poesia moderna.
L’interesse di Francisco Rico è invece cosí
concentrato sul secondo esordio Voi ch’ascoltate da indurlo ad affermare che Sin èl, el “Canzoniere” casi se esfuma como libro, como espléndida novedad che inaugura
una época en la lirica europea. E in effetti le
obiezioni circa l’esistenza e la consistenza della forma 1342 ed il suo esordio
piú che di ordine filologico e interpretativo sembrano dipendere da un
implicito giudizio sulla pochezza e si direbbe sulla “stupidità” di una
raccolta dafnea a paragone delle scelte sicure
operate negli anni attorno al ’50, a proposito di Familiares, Metrice e RVF, da un “nuovo” Petrarca non piú solo poeta, ma filosofo sublime
che Rico ritrae nella esegesi splendidamente totale, appunto, di Voi ch’ascoltate.
Dopo
Rico effettivamente chi accenna alla prima forma, quasi intimidito dalla figura
del Francesco, diciamo cosí, “cresciuto in sapienza”, sembra farlo piú per il
dovere d’informare che per convinzione fondata nei confronti di quella fase dafnea. Comunque tra prudenze e
diverse accentuazioni di sicurezza i piú recenti interventi di Marco Santagata e Laura Paolino includono a pieno titolo nella
storia del Canzoniere come prima silloge
del 1342 la prima forma di Wilkins.
La questione terminologica non è senza importanza: il termine “silloge” è
infatti nettamente distinto da Santagata dal termine “raccolta”,
quasi sempre di “servizio” o di “riferimento” (la prima già includeva 34) e
ancor piú nettamente – com’è ovvio – da quello di “redazione”. La raccolta è
mera predisposizione di testi in attesa di entrare a
far parte, una volta selezionati, di storie compiute, come sono appunto le
redazioni, la silloge è invece qualcosa di piú perché può già presentare un
principio ordinatore ed un esordio che ne orienti eventualmente il senso:
tale risulterebbe appunto la silloge del 1342, virtualmente segnata di
classicismo, diciamo cosí, laico.
Confortato da questa rinnovata fiducia
nell’ipotesi di un canzonieretto risalente al 1342,
vorrei ora azzardare qualche osservazione, sempre su 34 come incipit di libro,
a partire da una estemporanea postilla di Santagata, come dire, “acquattata” nel suo splendido
commento agli RVF.
Annota dunque lo studioso a 34, 12 l’invocazione
arieggia quella ad Apollo che apre il Par. dantesco: “O buono Apollo […]” (vv. 13 – 26)
in cui colpisce 1) l’uso di quel generico “arieggiare” in tempi di grande attenzione alla fenomenologia dei rapporti
intertestuali 2) il fatto che il nome di Apollo sia proprio l’inizio del
sonetto, cosí come appare praticamente all’inizio dell’invocazione dantesca, e
sia invece del tutto assente nell’ultima terzina cui la nota si riferisce: è un
po’ come se Santagata si fosse trovato per le mani un
riferimento troppo importante per tacerne, epperò
troppo imbarazzante per parlarne davvero e allora lo avesse piazzato un po’ di
sghimbescio, dove non potesse dare troppo nell’occhio.
Come è noto uno dei piú affascinanti dossier che la critica
recente ha aperto sul conto di Petrarca riguarda il problema dei suoi reali
rapporti con le opere di Dante, al di là di qualche vistoso tentativo di depistaggio da lui messo in atto, comprovante – come scrive Rosanna Bettarini
– che non c’è piú niente di filiale che
uccidere il padre:
tentativo a noi fin troppo chiaro nella sua necessità e nella sua miseria, ma riuscitissimo per secoli, a cui cedette – o cosí appare –
perfino Boccaccio, nonostante le terzine dei Trionfi e quant’altro. Ora, è proprio nel
corpo dei testi volgari che si è indagato alla ricerca
delle tracce dantesche e ne sono state trovate – com’è ovvio – in grande
quantità e in ogni dove, lasciate soprattutto (ed è stata in qualche modo la
sorpresa) proprio dal Dante della Commedia.
Tra i
protagonisti di questa vicenda, a segnalare le singole citazioni puntualmente
disseminate lungo tutto l’arco dell’opera, ma soprattutto a
indicare nella bellissima Introduzione
ai Trionfi come proprio il Petrarca
volgare sia l’unico e “naturale” continuatore delle grandi invenzioni di Dante,
come la saldezza delle partiture dantesche sia di costante soccorso alla
fragilità ed alle inadempienze costruttive di Francesco, figura proprio Santagata e dunque tanto piú colpisce l’atteggiamento forse
piú prudenziale che reticente.
A
guardar bene nei termini propri della verifica intertestuale cosí come
stabiliti da Maria Corti,
gli elementi che collegano i due testi sono comunque significativi: importante
il vocativo iniziale O buon Apollo;
Apollo e anche i riferimenti diretti al mito dafneo
l’amato alloro 15; Vedra’mi al pié del tuo diletto legno / venire, e coronarmi de le
foglie 25–26; Sí rade volte, padre,
se ne coglie / per triunfare o cesare o poeta 28-29; che parturir
letizia in su la lieta / delfica deità dovría la fronda / peneia, quando
alcun di sé asseta 30-33 in relazione alle due quartine e all’ultima
terzina, anche se si tratta di relazione di ordine contenutistico e non
linguistico o formale; formale – e dunque importante – invece il rapporto tra vedra’mi 25 e sí vedrem 12 entrambi ad inizio di
terzina; nel campo dell’opinabile rientrano invece i casi di fronda 32, fronde 7; ombra 23, ombra14; virtú 22, vertú 9 data l’alta frequenza d’uso dei tre
termini in poesia, ma nel quadro generale anche queste presenze acquistano un
loro peso. Mi sembra che ci sia quanto basta per poter affermare che tra i due testi è praticamente sicuro un rapporto di intertestualità,
cioè che Petrarca fosse, a qualche livello, consapevole della traccia dantesca
in 34.
In
genere i due testi vengono indicati come “invocazione”
ad Apollo: penso che si possa tentare qualche ulteriore precisazione. Un po’ di anni fa Paolo Ramat ha studiato
la tipologia degli incantesimi medievali di area germanica:
nella prospettiva di stabilire un modello morfologico che consentisse di
selezionare gli incantamenta
“incantesimi” veri e propri dalla gran massa di scongiuri, ricette, preghiere
con cui sono mescolati nei manoscritti, Ramat adotta
(e adatta) la nozione di “funzione” elaborata da Propp
(e da altri) ed arriva a stabilire una formula per gli incantesimi in generale
che nella sua forma piú semplice consiste di M + C in cui M indica la funzione
mitica e C la funzione conativa costitutive di
qualsiasi testo che voglia definirsi incantesimo. Un esempio minimo: Come Cristo guarí
al cavallo la lombaggine, cosí io possa guarirla a questo cavallo con l’aiuto
di Cristo,
in cui è evidente in prima posizione l’evento archetipico,
ciò che è accaduto nel mito una volta per tutte e che di conseguenza deve
sempre ripetersi (M), ed in seconda la volizione particolare che il fatto si
ripeta hic et nunc (C); L’attualizzazione a
livello sintattico della similarità tra i due momenti (cosí…come, ma in altri casi può anche trattarsi di un periodo
ipotetico, ecc.) implica una formula un po’ piú complessa M + [(M > ) C].
Nel
passaggio da una struttura antropologica elementare, ma comunque
costitutiva, come quella indicata, alla densità concettuale e figurale del
discorso dantesco, tutto ovviamente si complica, ma intatti restano, mi pare,
il senso ed il “desiderio” dell’incantesimo, oltre che la sua “disseminazione”
formulare. Volendo, infatti, riscrivere l’invocazione secondo la tipologia di Ramat,si ottiene
O buono Apollo, a l’ultimo lavoro
fammi
del tuo valor sí fatto vaso
come dimandi a dar l’amato alloro Inv. + [C ( < M)] +
…………………………………….
Entra
nel petto mio, e spira tue
sí come
quando Marsia traesti
de la
vagina de le membra sue [C (
< M)] +
…………………………………….
vedra’mi al piè del tuo diletto legno
venire,
e coronarmi de le foglie
che la
materia e tu mi farai degno ( C +M )
in cui
la due funzioni M e C sono sempre presenti e sapientemente organizzate in una
sorta di “repetitio” ascendente ed alternata alle
terzine di diversa tipologia (Inv. sta
per vocativo).
Passando a Petrarca si deve notare in primo
luogo che la specie dell’incantesimo si fa ancora piú evidente e, mi si
consenta, incantante; anche l’articolazione delle due funzioni è, se possibile,
piú semplice e chiara (le tipologie discorsive in RVF sono sempre antropologicamente
elementari e la complessità della poesia risulta da tutt’altri livelli) e inoltre si torna alla sequenza
primaria indicata da Ramat in cui M precede C
Appollo,
s’anchor vive il bel desio
Che
t’infiammava a le thesaliche
onde,
et se non ài l’amate chiome
bionde,
volgendo
gli anni, già poste in oblio: ( Inv. + M ) +
dal
pigro gielo et dal tempo
aspro et rio,
che
dura quanto ‘l tuo viso s’asconde,
difendi
or l’onorata et sacra fronde,
ove tu
prima, et poi fu’ invescato
io ( C + M ) +
…………………………………..
sí vedrem poi per meraviglia inseme
seder
la donna nostra sopra l’erba,
et far de le sue braccia a se stessa ombra. C
Dunque
non solo i due testi sono avvinti da stretti rapporti
intertestuali, ma essi sono costruiti a partire da una medesima tipologia
discorsiva, sono, dal punto di vista antropologico, due incantesimi il cui
scopo, almeno nella finzione letteraria (ma non tanto), è di ordine pratico e manipolatorio: dopo che essi sono stati pronunciati, la
semplice professione di eventi esemplari di ordine mitico, o religioso,
modificherà i dati del reale. Consentirà all’uno di dire l’indicibile e di
conquistare cosí la gloria della corona e all’altro di assistere con il dio a una sfuggente e misteriosa epifania.
Sempre nel settore dell’intertestualità,
uscendo dai confini di 34, non è difficile trovare negli
RVF altre citazioni dall’“incantesimo”
dantesco: a tacere d’altro, si prenda la canzone “della Gloria” (119), testo
anch’esso – non a caso – profondamente segnato dal tema dell’incoronazione
poetica e dunque dal mito dafneo, e datato ad anni
comunque non lontani dal 1342. Nella terza stanza la Gloria pronostica a
Francesco che il gran desio di lei pur d’onorato fin lo farà degno e poco prima aveva ricordato che per
breve tempo almen qualche favilla si accende in
qualche raro cuore (con allusione a quello di Francesco), rispondendo cosí
direttamente alla cauta profezia di Dante e – ciò che piú conta – con le sue
stesse parole; Santagata in nota rileva il rapporto
intertestuale senza commentare.
E altro
si potrebbe aggiungere a conferma dei vincoli che in partenza da Par., I 13 - 36 legano a sé punti vari
di RVF,
ma, dando ormai per scontato ciò che è scontato, vorrei tornare al punto di
partenza. Dunque Petrarca nell’estate del 1342, a poco
piú di un anno dall’incoronazione in Campidoglio, si accinge per la prima volta
a disporre le sue rime in una sequenza dotata di senso, o, anche, comincia a “sperimentare”
la possibilità di allestire un libro e il sonetto che sceglie ad orientarne
evidentemente la lettura è un sonetto dafneo che
richiama in modi espliciti un luogo di Dante.
Sono
sempre stato convinto che l’analisi dei rapporti intertestuali, oltre a
testimoniare la tenuta della memoria poetica, e a saggiare la solidità
istituzionale del linguaggio della poesia, si riveli
indispensabile soprattutto quando ci consente di cogliere e di comprendere i
dialoghi che si intrecciano tra i poeti, se è vero che, almeno i maggiori,
parlano ai contemporanei ed ai posteri tanto quanto, in modo discreto e un po’
misterioso, ai poeti che li hanno preceduti.
Una volta dimostrato, insomma, che un sonetto di Petrarca è
pieno di ricordi danteschi, l’importante sarà comprendere il testo nuovo sullo
sfondo del testo citato, vedere se il Dante di partenza ci consente di capire
qualcosa di piú, o di diverso, del Francesco di arrivo, o anche se, e in che
modo, Francesco reagisce a Dante.
Vediamo: Petrarca inizia una raccolta con un
sonetto in cui si appella ad Apollo‑sole perché protegga l’alloro, cioè Laura‑Dafne, da dati climatici negativi, e renda
cosí possibile l’epifania positiva di alloro‑Laura‑Dafne,
richiamando, con molte parole simili, il luogo, ad inizio della terza Cantica
in cui Dante invoca Apollo perché quasi il dio parli attraverso di lui e dunque
lo metta in grado di descrivere la parte suprema del suo viaggio. Il corto
circuito che si istituisce tra i due testi è tale per
cui non può non nascere il dubbio che anche Petrarca stia parlando non solo di
Laura, ma anche di poesia, che, insomma il testo abbia anche un significato metapoetico. Impossibile in effetti
pensare che Francesco traesse suggestioni dal proemio‑invocazione‑incantesimo
del Paradiso trascurando del tutto il
senso profondo e la funzione del testo modello.
Certo
tutto può capitare in poesia, ma dubito fortemente che il Petrarca non fosse consapevole direi quasi della inevitabilità che i suoi
lettori, già a quella data e anzi soprattutto a quella data, potessero cogliere
il rapporto tra proemio del Paradiso
e sonetto d’esordio, tra l’uno e l’altro “incantesimo”. Ecco
allora che si può allegare un significato nuovo rispetto a quello vulgato,
soprattutto nelle terzine, dove Apollo è chiamato non solo a proteggere Laura‑Dafne,
ma anche l’ispirazione poetica e la poesia stessa.
Sui
dati biografici e letterari implicati dalla diffusa presenza nei RVF del mito dafneo
sono stati versati, si sa, fiumi d’inchiostro
e non è certo mia intenzione ritornare sull’argomento, se non per segnalare una
sorta di asimmetria presente nello schema dei
significati trasposti. In sintesi: stabilita l’equivalenza Apollo‑Francesco
e Dafne‑Laura, il sistema simbolico implica
elementi fondanti come “Amante”, “Amore impossibile”, “Poeta”, su un versante,
e, su quello opposto, “Amata”, “Amore negato”, “Lauro‑corona poetica”,
cui di volta in volta si aggiungono elementi simbolici particolari, o legati ai
poteri conferiti nel mito alla divinità (in 34, ad esempio, Apollo è anche il
sole e, per alcuni, il dio della medicina), o piuttosto implicati dai primi per
metonimia e/o sineddoche.
La singolare asimmetria che vorrei segnalare riguarda proprio la reticenza dei
commentatori a intendere la corona di lauro come metonimia (ed emblema) della
poesia stessa, sia dell’attività poetica che del suo prodotto.
La
ragione di tanta prudenza credo consista nel timore
ricorrente che la sequenza completa Laura‑alloro‑poesia sia il
primo passo verso la completa cancellazione di Laura come personaggio, ed
eventualmente persona, tutta assorbita in mera funzione simbolica. Dubbi sulla
consistenza esistenziale di Laura, oltre il ruolo di “corona di
alloro” e dunque di mero emblema della poesia, avanzarono già
significativamente i contemporanei, tra gli altri Boccaccio, suscitando le
giuste rimostranze di Francesco,
preoccupato che si appiattisse cosí il mirabile fantasma che stava creando, che
si riducesse ad una dimensione, quella di semplice “insegna”, una figura in cui
si conclude la grande invenzione medievale della “Donna” e soprattutto si apre
il discorso tutto moderno, nonostante le radici classiche, sul movimento
ciclico e ossessivo del desiderio, sulla contraddizione come forma costitutiva
della coscienza di sé e degli altri.
Il
rischio, mi pare, che storicamente si è dato, è stato proprio l’opposto e cioè si è trascurata, o quanto meno mortificata, la funzione
simbolica di Laura, sempre potenzialmente presente tutte le volte che il testo
si riferisce al mito dafneo. Un segno della grandezza
di Petrarca consiste proprio nella mirabile fusione tra il piano esistenziale e
quello simbolico, come naturale in un poeta che non ha perso il gusto per il
simbolismo esplicito della cultura che lo precede, ma che ormai ha appreso
sulle pagine degli auctores
la misura del verosimile e tutto lo spessore della malinconia terrena, come piú
o meno negli stessi anni capitava all’amico Simone Martini.
Trascurare uno dei due piani vuol dire compromettere un equilibrio molto
delicato e non comprendere a fondo il poeta.
Il senso vero, allora, del sonetto è quello di
un incantamentum
affinché: 1) il favore celeste protegga Laura da ogni male, climatico, ma non solo,
il pigro gielo
e il tempo aspro e rio vivono di
referenti immediati tanto quanto simbolici, in cui una eventuale
malattia (la donna indisposta è interpretazione ancora vigente per Santagata), i tempi oscuri e pericolosi, la miseria del
secolo chiedono un intervento della divina provvidenza altrettanto efficace; 2)
allo stesso modo l’iddio sovrintenda all’esercizio della poesia e lo difenda
dalla Voluptas,
dalla pigrizia, dall’accidia – e da tutti quei nemici mortali della poesia con
tanta discrezione evocati nella già ricordata canzone “della Gloria” (119, 46–60)
– e aggiungerei perfino dall’“ideologema”, già cosí umanisticamente operante – e in senso non del tutto
negativo – in Petrarca, per cui comunque la poesia autentica è quella in
latino. Ideologema, appunto, perché, contraddittoriamente, Petrarca “sa” che è la
poesia volgare quella che per lui davvero conta. Ad apertura di raccolta
dunque Petrarca chiede grazia per la figura femminile che ne sarà al centro e
ispirazione poetica per cantarne le virtú e la funzione. Se
l’incantesimo avrà buon fine la divinità e Francesco assisteranno all’epifania –
ed alla quotidianità serena – di Dafne‑Laura e di Poesia unite nel
simbolo e soprattutto nel libro.
Quanto all’“ombra”
con cui i rami‑braccia proteggono la pianta – cauteloso
ausilio dal dardeggiare divino del sole‑ispirazione, entrambi riflessi da
Laura‑lauro – essa si accompagna, in vincolo indissolubile, al simbolo
del lauro (ma anche d’un bel faggio
54, 7) ed è il luogo per eccellenza della meditazione e della scrittura, il “grembo”
dolce dell’ozio letterario, lo studiolo appartato, catafratto ai rumori del
mondo dove, se soccorra la presenza d’un fiume Cosí cresca il bel lauro in fresca riva,/ et chi’l piantò pensier’ leggiadri et alti / ne
la dolce ombra al suon de l’acque scriva 148, 12-14, per allegare una
dichiarazione tutta esplicita sulla equivalenza di amore e scrittura. Inoltre
l’attività poetica, continuamente alimentata dall’alloro, sussiste se si dà la
concentrazione e la pace che appunto solo quell’ombra dona: L’arbor gentil che
forte amai molt’anni,
/[…]fiorir faceva il mio debile ingegno / a la sua
ombra […].
Lo spettacolo della vitalità felice di Laura‑lauro è dunque anche lo
spettacolo della poesia tutta dispiegata a raccontare un amore, ed i suoi casi
sereni o tormentosi, conseguente ad un incantesimo iniziale che ha cancellato
una volta per tutte ostacoli e difficoltà inscritti nei tempi e soprattutto
nell’indole contrastata di Petrarca.
Accettare il collegamento di 34 al proemio del
Paradiso, cosí come la possibilità di
una sua lettura metapoetica apre, ovviamente, una
serie di problemi che voglio qui soltanto citare. Il primo riguarda un punto
che esorbita dai limiti di 34 e dell’anno 1342 e investe il problema
dell’incoronazione poetica dell’anno precedente.
Alle spalle di questo tema cruciale della vita e dell’opera di Petrarca ci
sarebbe Dante e la profezia di Par. I,
34-36 Poca favilla gran fiamma seconda:/
forse di retro a me con miglior voci/ si pregherà perché Cirra
risponda. Una delle ragioni allegate da Dante nella sua preghiera ad Apollo
perché lo sorregga nell’ardua impresa è che se lui non arriverà alla corona
poetica il suo esempio potrà spronare miglior
voci della sua ad ottenere il riconoscimento. E
chi piú del giovane, ambiziosissimo Petrarca, poteva identificarsi nella “miglior
voce” e trafficare di conseguenza per ottenere il titolo? Impallidiscono sullo
sfondo di questa storia le figure dei precedenti incoronati Albertino
Mussato e Convenevole da Prato e ancor piú netta si staglia l’immagine
ingombrante e paterna di Dante a guidare con mano ferma persino il cursus honorum di Francesco.
Sarà
appena il caso di ricordare che la corona poetica che Dante richiede per sé e
anche per colui che avrà forse[…]miglior voce riguarda la poesia in volgare, se richiesta in
virtú, appunto, della terza cantica. Petrarca, si sa, si mostra rigido nel
collegare l’incoronazione poetica unicamente alla poesia latina,
sostanzialmente al grande progetto dell’Africa. Su questa linea mal si
comprenderebbe l’inizio dafneo della silloge, ma allo
stesso modo mal si comprende l’ossessione dafnea, che, anche dopo la redazione Correggio,
scorre zampillante per tutto il Canzoniere. Gli è che la condanna, o la deminutio tutta
ideologica e “militante”, delle rime amorose e con esse
della poesia in volgare, in cui per altro si deposita proprio il “senso”, il
desiderio e, si direbbe, il distillato esistenziale della Laureatio, non è che una delle molte contraddizioni che fondano la modernità
di Petrarca. Contraddizioni che presentano una curiosa
struttura a chiasmo: ciò che conta sul piano esistenziale è poca cosa nelle
professioni di fede e, viceversa, ciò che è professato come irrinunciabile si
rivela pleonastico e ridondante nell’esistenza partecipata e quotidiana.
Francesco, insomma, gioca sempre su almeno due tavoli, e uno dei due, quello su
cui “dice” che non vorrebbe giocare ( e/o gioca di nascosto) è quello della
partita con Dante, con la tradizione romanza, con le rime volgari che alla fine
risultano, nella sostanza, vincenti. L’“uccisione” del padre è seguita da una
dedizione cosí costante e tenace da renderla poco piú che un sogno giovanile,
ma è comunque il sogno che ha consentito a Francesco
di inventarsi una voce davvero nuova e altissima, quale non si coglie, checché
se ne dica, nella poesia latina, nelle pur splendide “Epistole” ecc.
Ultimo
interrogativo: il Paradiso è, in
qualche modo, “la cantica di Beatrice”, il Canzoniere
1342 principia dal Paradiso come
modello formale e, ovviamente, da Laura. Che dire, allora, del classicismo
laico, cui accennavo sulla scorta di Santagata, come tonalità generale della prima silloge?
Certo Petrarca di 34 toglie all’Apollo dantesco tutti gli elementi cristiani, a
partire dalla vistosa citazione biblica di 13-15,
che lo rendono cosí “giottesco”: il suo cammeo è
nitido e trasparente, è già un gioiello umanistico. Ma al di
là di un gusto tutto nuovo e maturo per le cose antiche, nulla toglie
che la silloge potesse essere, in base al modello, il Paradiso di Beatrice‑Laura
, il libro in cui veramente Laura potesse svolgere, fino in fondo e “piena di
luce” il ruolo di mediatrice verso la salvezza . Vale a dire ciò che non
riuscirà piú ad essere, con i ben noti squilibri,
il Canzoniere “moralizzato” secondo Agostino, dopo il gran fuoco innovatore che
aveva bruciato quel troppo di “fisica”, di aristotelismo scolastico, di “moto
delle intelligenze angeliche” che pervade dall’inizio alla fine il mito di
Beatrice: ormai davvero la grande ombra fiorentina si era fatta meno
incombente, aveva, con discrezione, liberato di sé il libro “moderno”, e poteva
essere sfidata a viso aperto nelle terzine del libro “antico”, i Trionfi… Nulla ci dicono in proposito le
poche reliquie che della silloge del ’42 ci sono rimaste. Bisognerebbe
ricorrere, anche noi, ad un incantesimo perché, improvvisamente, ci fosse
restituita qualche altra carta di quello scrittoio mirabile…