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Universita' degli studi di Trieste  

Fulvio Senardi

Petrarca, icona polemica del Saba “civile”

 

I

 

Nella Prefazione al Canzoniere 1921 che riprende in grandissima parte le pagine che inauguravano il manoscritto del 1919 si legge una frase da cui è opportuno partire: ai suoi «sei lettori» Saba annuncia di aver cercato di rimediare, nel libro che licenzia, a quelle omissioni e alterazioni che avevano fatto di Poesie, la raccolta del 1911 con prefazione di Silvio Benco, «una empietà contro (se) stesso».

 

Ero forse troppo giovane ancora per compiacermi, come me ne compiaccio adesso dell’inoppugnabile derivazione petrarchesca e leopardiana di quei primi sonetti e canzoni (non ho capito Dante che verso i ventitre, ventiquattro anni); quasi che l’aver ritrovato da solo nella mia stanzetta a Trieste, cosí beatamente remota da ogni influenza d’arte, e quando nessuno ancora aveva parlato a me di buoni e cattivi autori, il filo d’oro della tradizione italiana, non sia il maggior titolo di nobiltà, la migliore testimonianza che uno possa avere di non essere un comune illuso verseggiatore. (Saba, TP: 1128).

 

Di quella «inoppugnabile derivazione», cui Saba fa accenno con la baldanza un po’ eccessiva di chi si compiace della propria storia di famiglia, non si trova poi quasi traccia nelle liriche del volume; se si eccettuano pochi stilemi che bastano a giustificare quel po’ di frequentazione del canone piú illustre della letteratura italiana del tutto normale per ogni aspirante poeta. D’altro lato Petrarca non è affatto destinato a diventare negli anni che seguono un modello piú frequentato da parte di Saba che lotta fruttuosamente per affermare la propria originalità.

Diverso invece il discorso quando, dopo la parentesi della II guerra mondiale, si fanno piú frequenti in Saba le prese di posizione sulla poesia, sia in chiave estetica che storico‑interpretativa; allora sí che a Petrarca spetta un ruolo importante, ma invariabilmente e severamente intonato a partire da una pregiudiziale polemica.

È ovvio del resto che una messa a fuoco piú approfondita dei valori della propria poesia, e del rapporto tra poesia, cultura e società, dovesse avvenire negli anni della disastrosa conclusione del conflitto mondiale e nel periodo di profondi mutamenti dell’assetto politico‑istituzionale che segue la fine della guerra: breve stagione di intensa conflittualità politico-ideologica, di ideali che escono allo scoperto, di partecipazione entusiastica e a volte rabbiosa ad accese speranze palingenetiche. Allora sembravano improvvisamente riaperti i giochi della storia e poter venire alla parola anche chi, come Saba, aveva lungamente taciuto [“Da quando la mia bocca è quasi muta/ (…), Da quando, in Ultime cose]. E osava finalmente parlare, uscito miracolosamente indenne da un naufragio che aveva segnato lui, ebreo, in maniera particolarmente dolorosa. Soprattutto gli anni 1943-45 erano stati infatti terribili per il poeta: rifugiatosi in un primo momento a Firenze cambia nel solo 1944 11 nascondigli, sempre sotto la minaccia di una delazione e della cattura, consapevole che cadere in mani tedesche avrebbe significato per lui e per la sua famiglia la deportazione e la morte. E come un uomo dallo psichismo tanto fragile possa aver vissuto quegli anni è facile capire; cosí come il sollievo dello scampato pericolo dopo la Liberazione.

Nel 1945, restando lontano da Trieste, può finalmente rendere pubblico, nell’edizione di quell’anno del Canzoniere, il Primo congedo di Preludio e fughe, impubblicabile nel 1928 – «Dalla marea che un popolo ha sommerso / e me con esso, ancora / levo la testa? Ancora / ascolto? / Ancora non è tutto perso?»; può tradurre in poesia il Teatro degli artigianelli (1944) un’immagine di rigenerazione che promette un futuro migliore del recente passato: «Falce e martello e la stella d’Italia / ornano nuovi la sala. Ma quanto / Dolore per quel segno su quel muro». Mentre nelle Scorciatoie che va via pubblicando, mettendo in rilievo l’acme di una barbarie assunta come tragico spartiacque per la storia dell’umanità, ripete il cupo ritornello di «dopo Maidaneck».

Per la prima volta Saba appare perfettamente consapevole della funzione civile della poesia e dei doveri etici dello scrittore, e si sente chiamato a fare la sua parte per raddrizzare, nei limiti concessi a chi abbia la penna come arma, la pianta-uomo che era andata crescendo storta. Ovvia, di conseguenza, la sua vicinanza ai Partiti della sinistra, per quanto sarebbe difficile considerare il poeta come un comunista in servizio permanente effettivo; piú volte scriverà negli anni a venire di sentirsi appartenente piuttosto al «partito di Freud» che ad ogni altra formazione politica tradizionale, orgoglioso di vivere l’arte e la poesia in modo eccentrico rispetto ad ogni militante ortodossia: «Ma voi – intendo voi comunisti militanti – la pensate diversamente e sulla poesia e sulle arti in generale: questo è sempre stato – se ti ricordi i nostri colloqui romani – uno dei motivi del nostro dissenso» (ad Antonello Trombadori, Trieste, 26.I.1952 – in Marcovecchio, p. 238). Aggiungendo, in una lettera dello stesso anno a Carlo Muscetta, di sentirsi, come tutti i poeti del resto, «un bambino, un individualista, un anarchico, un selvaggio, qualcosa insomma da essere preso e messo immediatamente (senza, possibilmente, inutili processi) al muro. Questo dal punto di vista del Partito, di tutti i partiti in generale» (Muscetta, p. IX).

 

II

 

Per cogliere l’atteggiamento di Saba nei confronti di Petrarca e della sua poesia nell’arco di quegli anni cruciali trasceglieremo in primo luogo alcuni giudizi assolutamente emblematici; poi, sullo sfondo di quella poetica che è stata piú dettagliatamente esplicitata nelle pagine auto-esegetiche di Storia e cronistoria del Canzoniere, cercheremo di capire le ragioni delle aspre prese di posizione del poeta.

 

Da Storia e cronistoria del Canzoniere

 

L’araba fenice di filosofi – del quale abbiamo nella “Prefazione” raccontata la “divertente storiella” delle sue relazioni con Saba – avvicinava, per la sua vastità ed altezza spirituale il “Canto a tre voci” ad uno del Paradiso (…) E veramente questo “Canto a tre voci” è la poesia piú “alta” di Saba (…) Molti anni dovranno ancora passare prima che gli italiani comprendano questa poesia. Perché venga l’ora sua, perché venga l’ora di Saba, bisogna che l’Italia abbia prima ritrovata se stessa, la parte migliore della sua tradizione. Occorre in altre parole un altro Risorgimento, e che – come accadde appunto nel Risorgimento – i valori petrarcheschi (che sono legati a quelli della morte) cedano un’altra volta davanti ai valori danteschi (che sono quelli della vita) [ TP, 253]

 

Né si può dire che le poesie [di Saba] sbagliate o sbagliate in alcune parti, sieno inutili alla sua opera e alla comprensione di questa. Anche le poesie meno riuscite possono, per certi aspetti, illuminare il lettore, aiutarlo a comprendere – ad apprezzare – meglio i risultati definitivi (…) Sappiamo molto bene che la critica di oggi (o di ieri?) segue altri criteri di giudizio; che cerca, non solo in ogni opera, ma in ogni singolo frammento della stessa, un’ipotetica purezza (…) La verità è che la perfezione “costante ed assoluta” non è di questo mondo. Chi molto fa molto sbaglia; e forse, nell’arte come nella vita, perfezione e grandezza non vanno sempre d’accordo. Dante ha sbagliato piú, e piú spesso del Petrarca; ciò non toglie che questi stia al primo come una candela al sole. [TP, 119]

 

Da Scorciatoie e raccontini

 

LAURA. Quanto si è discusso per sapere se Laura è, o no, esistita (…) Ma non è, almeno non è piú, un enigma. Laura è certamente esistita. È esistita; ed era, alla luce di tutti i giorni, una bionda signora; nelle profondità inaccesse (infantili) dell’anima del poeta, era sua madre; era la donna che non si può avere. E tutta la fascinosa, un po’ monotona storia del CANZONIERE, di venti e piú anni di corteggiamenti, per non arrivare, per voler non arrivare a nulla, è qui (…) La figura di Laura assorbí tutta la tenerezza del poeta. La sua sensualità egli la rivolse ad altro (ebbe – si racconta – non infecondi amori ancillari) (…) Ma l’amore, l’amore vero, l’amore intero, vuole una cosa e l’altra; vuole la fusione perfetta della sensualità e della tenerezza: anche per questo è raro. Cosí non c’è, in tutto il lungo CANZONIERE, un verso, uno solo, che possa propriamente dirsi d’amore; molte cose ci sono, ma non LA BOCCA MI BACIò TUTTO TREMANTE, il piú bel verso d’amore che sia stato scritto.

[TP, 12]

 

 

Da Appendice di Scorciatoie disperse

 

GLI ITALIANI hanno sempre (meno in qualche raro periodo di ascesa) preferito Petrarca a Dante. La fortuna esterna della mia poesia urtò a questo scoglio.

[TP, 888]

 

Dall’Epistolario

 

A Alberto Mondadori

Milano, VI 1946

 

(…)

 

Voglio raccontarti (…) quello che mi è accaduto, uno di questi giorni, con un giovane letterato, persona a te nota ed a me carissima. Ero seduto con lui al caffè; egli leggeva alcune delle Mediterranee (…) “Ulisse” era una di queste poesie. La poesia nel suo complesso gli piacque. Ma ecco che, come ne rileggeva il primo verso, vidi Aldo Borlenghi fermarsi ed arricciare il naso, Il verso dice:

 

Nella mia giovinezza ho navigato

 

Gli chiesi il perché del suo visibile disappunto. Mi rispose che il verso non era “bello”; lo trovava anche troppo “scoperto”. Ora quel verso (tecnicamente ineccepibile) non è, in se stesso preso, né bello né brutto; è solo un inizio, che vive in funzione del componimento di cui fa parte, dei dodici versi che lo seguono, ai quali dà e dai quali prende rilievo (…) Dice, con rara spontaneità, quello che deve dire, nel modo piú semplice e diretto possibile (…) Guardavo la faccia del mio interlocutore. Bella era; e nel nobile senso della parola, mediterranea (….) La sua faccia – che mi ricordava uno di quei paesaggi toscani troppo e da troppi secoli elaborati dalla mano dell’uomo, diventati avari – concordava esattamente col suo giudizio. Quell’uomo doveva necessariamente aver paura di un’immediatezza come di una bomba; ammirare – come egli stesso volentieri confessa – assai piú Petrarca che Dante. Era, in una parola, un petrarchista. Soffriva di un male, europeo per estensione, ma italiano alle origini; e di questo male almeno, io, nato agli estremi confini della patria, o non ho mai sofferto, o solo, e non in profondità, nella mia prima giovinezza. Attraverso l’innocente verso citato e la disapprovazione che esso suscitava in Aldo Borlenghi, mi sono persuaso una ultima volta che gli italiani (che sono nella loro vita istintiva e – vedi Verdi – nella musica, uno dei popoli piú immediati della terra) non sopportano, in poesia, la vita, senza averla preventivamente uccisa e mummificata. Perché poi questo processo che essi chiamano di “astrazione lirica”, ed io di “congelamento” o di “involuzione”, sia avvenuto proprio per la poesia, oggi come oggi, o non lo so ancora, o non voglio ancora dirlo. Ma che sia avvenuto è certo; come pure è certo che va cercata in esso una delle ragioni sia, in generale, del loro – sotto la varietà delle apparenze univoco – petrarchismo, sia, in particolare, della, fino a ieri almeno, contrastata fortuna della mia poesia

(Marcovecchio, pp. 158-159)

 

 

*  *  *

 

 

A Giuseppe De Robertis

Milano, 22.IX.1946

(…)

 

Una sola cosa voglio dirle: io sono stato “vittima” del petrarchismo oggi imperante in Italia, come sempre nei periodi di decadenza. Il Risorgimento si accompagnò al culto di Dante, e dette anche un grande critico, il solo che abbia avuto l’Italia: De Sanctis. Pochi giorni or sono un caro giovane sosteneva con me, senza pudore, l’assoluta prevalenza dei valori petrarcheschi su quelli danteschi; che sarebbe come dire che una candela manda piú luce e piú calore del sole. Udire una mostruosità simile è oggi, purtroppo, cosa comune. La mia poesia, con tutti i suoi difetti (specialmente giovanili, che io sono il primo a non ignorare) sarà veduta nella sua giusta luce appena quando l’Italia avrà ritrovato la parte migliore di se stessa (…) Fino a quel giorno i valori “letterari” avranno sempre la prevalenza sui valori “poetici”; tradotto in altri termini questo vuol dire che si preferirà sempre la menzogna alla verità; piú esattamente ancora un sogno voluto (almeno in gran parte) sognare (Petrarca) a un sogno sognato veramente (Dante)

[Marcovecchio, pp. 175-6]

 

*  *  *

 

A Vladimiro Arangio-Ruiz

Trieste 8.VI.1948

 

(…)

 

Resta la poesia. Sono d’accordo interamente con lei, se si toglie il Petrarca; gran parte almeno del Petrarca. Quell’uomo che fu una delle piaghe d’Italia (diremo meglio uno dei piú schietti rappresentanti delle itale piaghe), sarà stato grande al suo tempo; oggi, a me almeno, dice assai poco. Ci sento qualcosa di falso, di voluto (di un amore voluto provare e non provato in effetti) che confina – ecco una cosa che le sembrerà strana e NON LO E’ – addirittura col pornografico (…) Dante è cosí grande che, se si mettessero sopra un piatto della bilancia tutti i poeti di tutti i tempi e sull’altro Dante, credo che vincerebbe ancora Dante (…) E il contino Giacomo Leopardi, gobbo, misero, masturbatore, ha avuto il coraggio – raro in un paese di venduti; nessuno mi assicura che se Croce non fosse stato un grande agrario non sarebbe diventato fascista – ha avuto il coraggio, dico, di rifiutare l’abito talare per non fare cosa che le sue convinzioni gli proibivano di fare, e non diventare (come dice egli stesso) spregevole ai propri occhi (Non c’è dubbio che il Petrarca avrebbe scritto il suo bell’inno al Duce, pur sapendo di cosa si trattava).

[Marcovecchio, pp. 199-200]

 

III

 

Per un agevole accesso alla concezione della poesia di Saba in quel torno d’anni, e per affrontare quindi adeguatamente armati il problema che ci interessa, si potrebbe partire dall’auto-definizione delle prime pagine di Storia e cronistoria del Canzoniere. Quella formula in cui Saba si chiude difensivamente, per affermare la propria specificità di scrittore, come in un inespugnabile quadrilatero concettuale: la sua poesia, eccoci al dunque, andrebbe a contraddistinguersi per “conservatorismo”, “autobiografismo”, “dilettantismo” ed “epicità”. Del resto, a ben vedere, tutta intera la riflessione di Storia e cronistoria non è in fondo che lo svolgersi di questo punto di partenza, nel tempo stesso assertivo e polemico: polemica, va specificato, portata sia contro la poesia contemporanea, sia contro i critici sordi al valore dell’arte di Saba e incapaci di coglierne e di qualificarne la specificità, che contro la cultura italiana del ’900, riassunta nella figura di Croce, e considerata come l’ultima agghiacciante espressione di alcuni vizi “eterni” della società, non solo letteraria, del nostro Paese. Per venire in tema c’è poco da aggiungere per quanto riguarda il “conservatorismo”, e basta una frase per spiegarlo: «nascere a Trieste nel 1883 era come nascere altrove nel 1850» (115). Parole famosissime e spesso citate. Da qui, confermato da un paragone che si arricchisce dei nomi di Ungaretti e di Montale, deriva il fatto che Saba «è il poeta meno, formalmente, rivoluzionario che ci sia» (115).

Piú complesso il discorso per l’“autobiografismo”: «ogni poeta è, in un certo senso autobiografico» (116), spiega Saba; e la constatazione è completata, nel cuore del libro, da un riferimento a Petrarca che ci ha «detto perfino il giorno, l’ora e il millesimo della morte di Madonna Laura» (247). «L’egocentrismo di Saba fu a volte eccessivo» (116), concede Carimandrei, l’alter-ego che firma la Storia e cronistoria; tanto che, se è innegabile che «l’autobiografia di Saba è cosí umana che ognuno può ritrovarvi parte di sé (…) il lettore deve, per identificarsi a lui, compiere talvolta un piccolo sforzo, come quello che occorre per vivere in compagnia di una persona che abbia origini alquanto diverse dalle nostre» (117). Un passo dove, ammettendo l’eventualità di qualche piccolo scoglio di fruizione, viene sottolineata da una parte, e orgogliosamente, l’assoluta normalità della vita di Saba («esser uomo tra gli umani / io non so piú dolce cosa» – VI fuga, Tpo, 383), mentre si allude, dall’altra, alla capacità della poesia di provocare “identificazione”. Sfioriamo cosí un aspetto cruciale dell’arcobaleno di funzioni che Saba attribuisce all’arte: prospettive che il poeta va chiarendosi in diversi passi di Storia e cronistoria e che io debbo qui, per ragioni di spazio, drasticamente sintetizzare: al poeta dunque tocca il compito di “piangere e capire” per tutti («Pianse e capí per tutti era il tuo motto» – Tre poesie alla musa, Mediterranee, Tpo, 532). Ma non solo: gli spetta anche la missione di prendere per mano il lettore consentaneo e condurlo con sé, mentre si muove dall’ombra alla luce («Triste ma soleggiato è il mio cammino; / e tutto in esso, fino l’ombra è in luce» – All’anima mia, in Trieste e una donna), in un percorso che, nell’ambito della complessità psicologica ed estetica dell’esperienza di fruizione della poesia, corrisponde ad una specie di catarsi oppure, consentitemi l’espressione impropria ma coerente con l’ambito culturale piú caro e familiare a Saba, a una sorta di “psicoterapia”.

Cosí ad Arangio-Ruiz, da Trieste, l’11 marzo del 1948:

 

Io ero forse piú ammalato di tutti, o almeno la mia malattia era piú caratterizzata, ma TUTTA L’UMANITA’ è AMMALATA, ed anche – circa – della mia stessa malattia. Credo – e l’ho detto in SCORCIATOIE – che il profondo disagio dell’uomo d’oggi sia quello di non esser piú un piccolo bambino, e di voler comportarsi ancora come se lo fosse, di non saper rinunciare insomma ai “complessi” che accompagnano inevitabilmente la prima infanzia. La crisi è lunga e dolorosa e corrisponde esattamente a quella di cui soffre il bambino fra i 5 e i 6 anni. Voglio tentare un esempio. Dio – nel senso di un Dio personale, di un Dio padre (...) – è morto nella coscienza di quasi tutti gli uomini. Ma non è morto il bisogno che essi hanno ancora di un padre, appunto perché si sentono – vogliono sentirsi – ancora piccoli bambini. Essi vogliono quindi sostituirlo; e l’hanno sostituito infatti...con Hitler, Mussolini e dei simili. È un esempio che andrebbe molto approfondito, e non so nemmeno se ho fatto bene a citarglielo. Insomma, io non so vedere la crisi attuale che sotto un punto di vista spirituale (psicologico). Anche la tremenda questione economica è secondaria, appena un derivato (...) E sono rassegnato ma desolato di vedere che non ci sono altre 1000 persone in Europa, o meglio in tutto il mondo, che sanno la verità di queste semplici cose (Lavagetto, 1981: 390)

 

Una “malattia” da sconfiggere usando le cure piú opportune: da qui, come esempio estremo e semiserio, la fantasia di leggere qualche pagina di Ernesto ai professoroni dell’Università di Roma riuniti per conferirgli, il 27 giugno 1953, la laurea in lettere honoris causa:

 

Oh Dio, se invece di quel discorsetto avessi potuto leggere Ernesto (chiudendo d’autorità gli ascoltatori nell’Aula Magna; in modo che avessero potuto dire a se stessi e agli altri che ascoltavano solo perché obbligati dai cordoni della Celere), credo che sarebbero tutti impazziti di gioia, compreso il Magnifico Rettore e Funaioli, che deve essere sugli ottanta. La gente, Bruno mio, ha un bisogno, un bisogno urgente di “mettersi in libertà”, di essere insomma liberata dalle sue inibizioni. Questo sarebbe il mestiere della mia vecchiaia: disgraziatamente, se lo esercitassi, la Celere sarebbe contro di me e non contro il pubblico…Ed Ernesto non aveva inibizioni, o poche poche, e in forma piú graziosa che angosciosa (non era un decadente, era un primitivo)

(A Bruno Pincherle, Roma, 30. VI. 1953, in U.Saba, Ernesto, p. 145)

 

In realtà Saba aveva operato da sempre in questo senso; con maggior consapevolezza del fare soprattutto dopo la cura con il dottor Weiss, ovvero dopo il Piccolo Berto; proprio quando il piccolo (Um)berto «è rinato durante una cura psicanalitica, il cui procedimento consiste nel rimuovere, o cercar di rimuovere, il velo d’amnesia che copre gli avvenimenti della primissima infanzia, e trovare in essi le ragioni dei conflitti che lacerano la vita dell’adulto (potremmo dire per l’umanità, solo che quello che, per il singolo è l’infanzia, per l’umanità è la preistoria. L’umanità – lo si è visto troppo bene – è ammalata dalla sua preistoria)» (Storia e cronistoria, TP: 261).

La funzione “consolatoria” e catartica dell’arte si amplia acquistando cosí nuove e piú ricche sfumature: l’empatia che viene garantita dalla poesia cordiale e comunicativa di Saba, quella sua musa «dai semplici panni» (ivi, 309), che rifiuta ogni vezzo «cerebrale» (309, ivi) o «intellettualistico» (203), capace di «conpalpitare» (289) con gli altri e di «commuover(li)» (292), sembra anche in grado di alimentare una «aspirazione alla salute» (a proposito del Canzoniere, ad Antonello Trombadori, 26 gennaio 1952). «La poesia è, per Saba, quello che sarebbe per un uomo perduto in un inverno polare, una porta che si apre improvvisamente ad accoglierlo» (295). Utopia attualissima, «dopo Maidaneck», considerando che si deve attribuire all’ignoranza dell’inconscio e delle «strane leggi che governano (…) sia negli uomini di pensiero che negli uomini d’azione, gran parte degli errori e degli spaventevoli mali che funestano il nostro infelice secolo» (Poesia, filosofia e psicanalisi, 1946, in Prose sparse, TP, 971).

Ma affinché ciò possa realizzarsi la poesia deve percorrere una strada di «sublimazione» (Storia e cronistoria, 342), non di «astrazione lirica» (ivi), o rimozione, deve in altre parole mantenere vivo in sé, mentre realizza la propria non patologica (sottolineatura mia) operazione difensiva, una traccia del percorso che la ha portata verso nuove e piú alte mete: «immergersi profondamente nella “calda vita” e possedere al tempo stesso molta forza di sublimazione» (232), dove «nessun divorzio avvie(ne) fra la poesia e la vita, fra il poeta e la sua Musa» (309). Tutt’altra cosa insomma che un processo di rimozione, dove accade che l’Io, nel respingere contenuti inaccettabili, senza farli emergere alla luce della coscienza, prepara il terreno a un possibile ritorno del rimosso in forma di sintomi nevrotici. Per questa ragione, nonostante il fatto che la «fascinosa e un po’ monotona storia del Canzoniere» (Scorciatoie, 12, TP. 12) verta, in apparenza, sull’amore, Petrarca non è stato capace di scrivere un solo verso propriamente amoroso («fusione perfetta della sensualità e della tenerezza» – ivi): «molte cose ci sono, ma non LA BOCCA MI BACIò TUTTO TREMANTE, il piú bel verso d’amore che sia stato scritto» (ivi).

Ed è difficile trovare una definizione migliore per la condizione della poesia auspicata da Saba, per rendere operante la sublimazione, che quella desanctisiana di «vivente» («L’essenza dell’arte non è l’ideale né il bello, ma il vivente» – De Sanctis, Saggio critico sul Petrarca, 1858 /1868-9). Taide di Malebolge, ricordava ancora De Sanctis, è piú viva di Beatrice quando essa è allegorica o risponde a combinazioni astratte (cfr. De Sanctis, 1983. P. 33)

Ora, chi pensasse a una presa di posizione irrimediabilmente arretrata, sbaglierebbe di grosso; non troppo diversamente infatti si esprimeva Cesare Luporini nei primi anni Quaranta, indirizzando in senso esistenzialistico la sua polemica con il crocianesimo: «la “fantasia” ha per l’artista un senso attivo non in quanto lambiccata escogitazione, ma in quanto è un “far apparire”, ossia un disvelare la realtà profonda del mondo umano (…)» (Luporini, P. 162).

A partire dalla “filosofia della vita” primonovecentesca (radici di ques’albero: Schopenhauer e Nietzsche), e si intendono Dilthey, Simmel, Bergson (ciascuno con caratteri particolari e specifici), Saba finisce per avvicinarsi, in un certo qual senso, a Husserl che, nel volume La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, del 1935-6 per quanto riguarda la sua sezione principale, ma pubblicato postumo nel 1954, contrappone la dimensione originaria, precategoriale della vivente soggettività (Lebenswelt) al rigore cristallizzante della scienza che costringe e snatura la Lebenswelt nella camicia di forza di metodi, formule, teorie.

Se sostituiamo a Lebenswelt il nodo calda vita‑sublimazione‑poesia (non stiamo parlando di un poeta?) e al riduzionismo scientifico denunciato da Husserl la rigidità dei distinti crociani, ecco che la “crisi” messa in luce dal filosofo di Prossnitz si può rionoscere, sub specie aestheticae, anche nel provinciale contesto italiano.

Abbiamo iniziato parlando di “autobiografismo” e dopo un’ampia parabola siamo scivolati di fatto nel “dilettantismo”: una qualità che Saba rivendica alla propria poesia in forza delle sue “disuguaglianze”. Disuguaglianze che avrebbe saputo evitare anche un «“letterato” infinitamente inferiore come poeta a Saba, ma (forse appunto per questo) molto piú avveduto» (117).

 

Uno dei suoi maggiori titoli – aggiunge – è forse quello di non aver scritto mai, o quasi mai, per il solo desiderio di scrivere, o per altri motivi ambiziosi; questi – s’intende – coesistevano, ma non erano mai causa sufficiente. Quasi tutte le sue poesie sono nate dal bisogno di trovare, poetando, un sollievo alla sua pena; piú tardi anche da una specie di gratitudine alla vita (…) sappiamo molto bene che la critica di oggi o di ieri segue altri criteri di giudizio; che cerca non solo in ogni opera, ma in ogni singolo frammento della stessa, un’ipotetica “purezza” (…) Chi molto fa molto sbaglia; e forse, nell’arte come nella vita, perfezione e grandezza non vanno sempre d’accordo. Dante ha sbagliato piú, e piú spesso, del Petrarca; ciò non toglie che questi stia al primo come una candela al sole. (Storia e cronistoria, in TP:119)

 

Spianare le disuguaglianze, selezionare, distillare, quando tutto ciò non sia il risultato di una maturazione che fa diventare, nel calore dell’ispirazione, del tutto «invisibile» (119) l’operazione purificatrice e assolutamente naturali i suoi risultati estetici, ma nasca al contrario da puro e semplice «virtuosismo fine a se stesso» (ivi), condanna la poesia a restare muta al cuore dei lettori, a rimanere faccenda esclusiva di “letterati”, per impiegare un termine che acquista in Saba, negativamente, un risvolto quasi categoriale: «in poesia prima si sente, poi al caso si comprende: questo è stato il caso del De Sanctis» (268), afferma Carimandrei. Che è, poi, sotto il profilo fruitivo ed interpretativo, concetto speculare a quanto rivela il famoso diagramma che Saba invia nel 1953 a Quarantotti Gambini per chiarire la propria idea di poesia: tre righe parallele con lo stile al livello piú basso, poi la linea della testa (l’intelligenza potremmo dire), quindi, al di sopra, la linea del cuore. Se la poesia supera anche la III, spiega Saba, «è Dante (nasce una volta in un millennio…se nasce). La maggior parte degli scrittori attuali, anche se superano le prime due linee, raramente arrivano a toccare la III» (Il vecchio e il giovane, 137)

L’ultimo punto riguarda l’“epicità”: «vogliamo dire che (Saba) non solo canta dei sentimenti ma anche dipinge figure e racconta fatti» (119). Un tema che è strettamente legato al motivo del dilettantismo, lo completa e lo specifica: perché zavorra, diseguaglianze, zeppe e mende – la grana “opaca” della scrittura dei poeti “dilettanti” – fanno inevitabilmente parte di una poesia che ambisce alla dimensione poematica di canto generale (una sorta di “romanzo” in versi, come Saba suggerirà in piú luoghi: per esempio Storia e cronistoria, 217, 325). In effetti, a ben vedere, sono proprio queste due caratteristiche a rappresentare la piú netta forma d’opposizione, sia sul versante del fare che dell’interpretare, ad ogni poetica frammentista, a quell’arte e a quella critica (si intendono ovviamente gli ermetici e Croce) che, per eccesso di concentrazione, selezione, raffinatezza, cerebralismo, punta le sue carte estetico‑conoscitive su lampeggianti, isolate epifanie.

Una piú lunga citazione, tratta dall’auto-commento di Autobiografia, chiarirà perfettamente le cose:

 

Saba ha sempre sentito che, dove l’intima necessità si presenti, tutto può essere detto, in versi come in prosa: che aver limitata la poesia all’espressione di alcuni attimi (sieno pure attimi luminosi) fu uno degli errori nati dalla sfiducia e dalla stanchezza (che erano nel tempo), e che ogni estremo di raffinatezza si risolve – nell’arte come nella vita – in un estremo impoverimento. E forse di tutto si può accusare Saba fuori che di impotenza di fronte alla Musa, a cui, secondo noi, si devono ricondurre i casi Mallarmé, Valéry, ecc. “Quando non si può entrare in profondità si complica e si nasconde. È umano ma non nascono figli”(...) Ma il discorso sarebbe lungo (…) Oltre il resto correremmo il rischio che il nostro “al di là” sia scambiato ancora una volta con un “al di qua”, e la poetica che noi intendiamo difendere, e che è quella di Dante, con quella di …Aleardo Aleardi (Storia e cronistoria, in TP, 207)

 

Nelle pagine finali di Storia e cronistoria, in polemica con Gargiulo (paradigma, agli occhi di Saba, di quel fronte critico che era stato sordo alla sua poesia), Carimandrei ribadisce questi concetti con una lunga auto-esegesi che pare capace di riassumerli tutti, mostrando i nessi che organicamente li collegano:

 

Saba non “indica” altezze; quando le raggiunge (e non sempre, lo ripetiamo, gli accade di raggiungerle) vi porta con sé il lettore (…) Il dato quotidiano permane (…) ma bottega, amori, vita di Saba, tutto, per quel processo che abbiamo chiamato di sublimazione e che non può essere che spontaneo, è portato su un piano piuttosto elevato. Dipende dalle esperienze che uno ha fatto della vita e dell’anima (…) il suo “sorridere benevolmente” alla loro lettura o esaltarsi, come è certo che, scrivendoli, si era esaltato il poeta (…) Saba riconosce una certa interdipendenza fra le singole parti della sua opera; una continuità che non può non essere spezzata senza danno dell’insieme; che tutto insomma nel Canzoniere, il bene e il male, si tiene, e che spesso volte quel bene è condizionato – magari illuminato – da quel male (…) a chi chiedesse se convenga leggere tutto Saba, e meglio ancora leggerlo tutto di seguito (…) oppure scegliere, noi risponderemmo che, essendo egli esattamente l’opposto di un poeta frammentario, conviene fare una cosa e l’altra, cioè prima una e poi l’altra (TP, 343-4)

 

È abbastanza chiaro ormai cosa Petrarca abbia rappresentato per Saba nel breve periodo del suo impegno di scrittore “civile”: riallacciandosi alle posizioni della generazione romantico-risorgimentale e senza alcun personale approfondimento di natura esegetica, il poeta triestino vi riconosce tutto ciò che rifiutava sul piano della poesia, dell’estetica, del ruolo politico e della figura pubblica dell’intellettuale. Petrarca finisce cosí per diventare un feticcio, un bersaglio di comodo che rinvia all’ermetismo e al crocianesimo o peggio ancora, che rappresenta, agli occhi di Saba, alcuni tra i peggiori vizi storici dell’intellettuale italiano: il servilismo, il trasformismo, il disimpegno. In questo senso gli giunge utile ciò che di De Sanctis aveva appreso in primo luogo dall’amico Giacomino, ovvero da Debenedetti, che nei Saggi critici I serie, 1929 (ristampati nel 1989) aveva iniziato quella riflessione sul critico irpino che sarebbe sfociata nella Commemorazione di De Sanctis, pubblicata su «Solaria» nel 1934. E da qui fin troppo facile l’approdo a quelle pagine della Storia della letteratura italiana che, a proposito del Canzoniere, descrivendo il processo per cui «l’arte si afferma come arte e prende possesso della vita», concludono dichiarando che nel poeta d’Arezzo «l’artista gode; l’uomo è scontento (…) l’uomo è minore dell’artista» (F. De Sanctis, P. 252).

Singolo acuto di un discorso ben altrimenti complesso che andrebbe, ma non è possibile, seguito per intero, e nel cui ambito Saba poteva senza dubbio riconoscere, in luce positiva, il mitologema estetico-esistenziale della “calda vita” nell’istanza desanctisiana del radicamento storico-sociale dell’arte e, in luce negativa, sempre in relazione a Petrarca, la miseria umana del poeta-letterato.

Un ultimo rapido rilievo; come è stato possibile notare dai pochi documenti citati, di fronte a Petrarca viene sempre o quasi sempre schierato, nella riflessione di Saba, Dante Alighieri, quasi a marcare una contrapposizione (altro raccordo con il clima ottocentesco!): parlare dell’uno significa implicare l’altro, esaltare il fiorentino, nei termini di un paragone sovente esplicito, vuol dire svalutare il poeta di Laura. Ora, se consideriamo che Storia e cronistoria del Canzoniere si chiude con due interventi di Piovene e Quarantotti Gambini che suggeriscono, piú o meno velatamente, una sorta di “dantismo” di Saba (quel carattere che Muscetta espliciterà, introducendo l’einaudiana Antologia del Canzoniere, definendo il triestino «dantesco poeta dell’unità» – cfr. Muscetta, 1969: LXII) e se riflettiamo sul destino di Saba, poeta esule e perseguitato (e pur tuttavia generoso portabandiera di una palingenesi psicologico-politica da realizzare nel nome di Freud grattando la rogna, con le sue Scorciatoie, dalla coscienza e dall’inconscio degli italiani), ecco che prende rilievo davanti ai nostri occhi una imbarazzante identificazione, che potrebbe anche aver contribuito – nel senso di quel «fratricidio» di cui parla Saba nella Scorciatoia 4 come del sostituto italiano del complesso edipico – a determinare i contenuti del suo accanito j’accuse anti-petrarchesco.

 

Bibliografia

 

Nota Bene – Se non diversamente indicato i numeri di pagina fra parentesi dopo una citazione virgolettata si riferiscono a Umberto Saba, Tutte le prose, op. cit.

 

Umberto Saba, Tutte le prose, a cura di Arrigo Stara, Mondadori, Milano, 2001. Sigla TP

Umberto Saba, Ernesto, Einaudi, Torino, 19792

Umberto Saba, Tutte le poesie (sigla TPo), Mondadori, Milano, 1998

Umberto Saba, La spada d’amore, Lettere scelte 1902-1957, a cura di Aldo Marcovecchio, Milano, Mondadori, 1983.

Umberto Saba - Pierantonio Quarantotti Gambini, Il vecchio e il giovane, Carteggio 1930-1957, Milano, Mondadori, 1965.

Umberto Saba, Antologia del Canzoniere, a cura e con introduzione di Carlo Muscetta, Einaudi, Torino,1969 (I ed. 1963)

 

Mario Lavagetto, a cura di, Per conoscere Saba, Milano, Mondadori, 1981

Cesare Luporini, Situazione e libertà nell’esistenza umana, Editori Riuniti, Roma, 1993 [I ed. 1941]

Francesco De Sanctis, Saggio critico sul Petrarca, Einaudi, Torino, 1983

F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Sansoni, Firenze, 1965

 

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