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PetrarcaVita solit

Fabio Russo

Petrarca, la solitudine fraintesa (onesta)

 

 

         Solo e pensoso nella moltitudine. O se si preferisce in una trama di relazioni con gli esponenti della cultura specie antica e con personalità del vivere sociale particolarmente a lui contemporaneo. Piú tardi Machiavelli, poi Leopardi, limitandoci a due nomi rappresentativi.

Solitudine pensierosa come prerogativa di fervida disposizione agli altri, ma in modo selettivo e non concreto.  L’“eremita degli Appennini” stava silenzioso anche tra gli amici del Vieusseux e alle lezioni del Puoti. Tenere spirito di riflessione non è possibile senza uno stare distaccato dalla folla. Già Alfieri muovendosi instancabile per la sua Europa era in certo senso solo, non tanto diversamente dal viaggiare esistenziale di un Rilke che ovunque stava assorto con il suo pensiero portando la condizione solitaria dell’animo, i nodi patologico‑speculativi della (sua) esistenza anche in grandi agglomerati urbani (quali Monaco, Parigi, Roma).

Una solitudine dunque che non è proprio eremitaggio o misantropia, ma riservatezza schiva in mezzo alla compagnia, tale da permettere una rete di contatti a piú lungo raggio bene filtrato.

         Sentiamo in Petrarca una vita piena pulsare appunto fuori dall’immediato contingente, unicamente in quella disposizion sacra che nobilita cose o situazioni, o le proietta in una dimensione piú profonda.[1]     Solitudine in una luce di armonia ricca di problemi, che questi problemi cioè li trasforma in un tono di grandezza (non vicina l’ottica neoclassica). Dal rifiuto del presente immediato cosí com’è prende significato lo sguardo indiretto e differito, che tanto ha influito sulle posizioni critiche contrarie, di fittizio e di insincerità, sino a Saba (di cui è non priva di significato, qui, la riserva verso Leopardi anche se portata da altre ragioni).

         Ma sul filo del petrarchismo un tono duro lo ha l’Alfieri. Per non dire il Seicento con l’idea dell’anamorfosi, con le Considerazioni sopra le rime del Petrarca di Alessandro Tassoni. Per tacere il Bruno con lo spirito della dissimulazione, dell’ombra, in particolare con l’impianto e il linguaggio del Candelaio. Cioè un petrarchismo ben poco armonico e raffinato nei casi piú spinti.[2]

         La solitudine fraintesa, o non condivisa.

Si potrebbe dire cosí per Giordano Bruno, nella linea antiletteraria ironica del Burchiello, del Lasca, dell’Aretino. Ciascuno libero al riguardo di accogliere o no un autore emblematico, si capisce. Ma il fraintendimento in parola ci apre un discorso sulla distorsione del modello, fatto qui bersaglio polemico.[3] E mostra il discrimine con il mondo nostro contemporaneo, anche con Leopardi, figurarsi poi con De Sanctis, sostenitore della vita piena animata da passioni morali, civili, religiose. Con la modernità? Verrebbe da dire per questo “Petrarca medievale”, magari senza una rispondenza con la nota tesi del “Boccaccio medievale” di Vittore Branca. È piuttosto una diffidenza storica manifestantesi per gradi: inattuale cosí per Bruno, cosí per Leopardi, tanto per noi oggi, ma attuale certo come grandezza non legata a posizioni storiche (inattuale a sua volta è parso Rilke anche di recente per un certo periodo, a segno della sua grandezza di là dal momento non favorevole). E ben lontano dagli antichi, per quanto studiati attentamente, amati nel loro esistere.

 

         Dunque il mondo filtrato in un’immagine riflessa di solitudine intesa come specificità: la solitudine come condizione e come lente per cogliere le cose. Le opere d’arte «sono di una solitudine infinita» (Rilke), cioè di una specificità unica, espressione che si adatta appunto alla solitudine. Ora questa di Petrarca si estende per tutta la sua scrittura ma, tematicamente, si definisce ben presto in modo emblematico in La vita solitaria   E con la solitudine, chi la vive o la percorre, il Solitario (che tanto rilievo acquista nel mondo di Rilke, il Solitario fra i Solitari come Ibsen). Una figura pure non capita, utilizzando qui le parole di Rilke nel Malte (Parte seconda, XV, trad. di V. Errante), «[…]: la moltitudine non sa. Non ha visto mai un Solitario. Lo ha odiato: ma senza conoscerlo».

Una solitudine compos sui nel giro della bella forma, della dignità elegante che tiene gli spiriti uniti in un convito escludente volgarità, corruzione, quindi la città stessa in quanto non permette una vita appartata.  L’immagine riflessa delle cose si definisce senza ironia, pur frutto di un intellettualismo raffinato teso a stabilire la nuova realtà, appunto quella riflessa, costruita, non la naturale effettiva. Essenziale in ciò la forma del colloquio, la presenza ricorrente di un “tu” denominatore comune, attraverso la memoria, delle varie personalità coinvolte, di una tale rete di voci. Queste sono rilevanti si capisce come dei singoli “tu” nell’impianto della scrittura, ma non proprio autonome, subordinate essendo all’“io” Petrarca. Soliloquio? Nemmeno. Proprio colloquio, ma con l’“io” egemone protagonista, che fa ruotare con garbata disciplina tali figure, figure di un pensiero accentratore inquietamente versato al bello (quale area armonizzatrice delle asperità). In ciò hanno gioco certe elaborazioni verbali ingegnose, dunque prima del Barocco, caratteristiche proprio del discorso petrarchesco e intese in questa venustà dell’espressione portata all’estremo. Piú tardi, su un tale avvicendarsi di forme, la raffinatezza di Raffaello. Ma anche, poi, la ricerca sottile dell’estetismo in tempo tardo romantico e decadente (in qualche modo Carducci, e quindi Pascoli, D’Annunzio).

Se lui costituisce modello per le età successive, a sua volta costruisce il proprio mondo, diremo le dimensioni dell’esistenza di lui su lontani modelli, «secondo il canone, industriosamente composto pezzo per pezzo, della vita degli uomini illustri del passato». Osservazione di Umberto Bosco, il quale a sostegno rimanda se non altro a «quel grosso manuale per la vita di ogni giorno che è il De remediis utriusque fortunae»,[4] riguardante appunto l’esempio (le cose notevoli da ricordare, per Guicciardini) dei grandi uomini ben saldi agli allettamenti (“tetragoni”) o ai colpi della fortuna. Un taglio mentale quindi contro la corruzione (terrena) verso un elevarsi dello spirito, senza per questo idealizzare. Ancora una volta vien da pensare all’operazione compiuta da Alfieri su Plutarco o prima da Machiavelli sui grandi dell’antichità. Senza dire delle nobili presenze edificanti nei Sepolcri. Insomma una contemplazione ghiotta, ma non idealizzata: quei canoni antichi vanno misurati e confrontati con le esigenze sofferte di lui e del difficile vivere ripreso dal suo occhio. Come l’ingegnosa pecchia del Poliziano, egli «giva predando or uno or altro fiore» (del quale non sembra avere il concetto di erudita varietas, ma piuttosto diremmo di una erudita uniformitas ovvero di una varietas recepita e ricondotta monocorde).

 

         Merita tener presente, prima di procedere, una pagina di Savinio, che è la voce Joy raccolta nella sua Nuova Enciclopedia. Proprio tutta, magari interrompendola nei punti di riscontro con il nostro percorso:

 

Stendhal, Memorie di un turista, volume II, pagina 3: «L’esaltazione d’amore, quel sentimento oggi cosí ridicolo (1838) e che regna sovrano nelle poesie di Petrarca e di Dante, era il principio di ogni cavalleria; la poesia provenzale lo chiamava joy. Nel codice spagnolo il joy era raccomandato come un dovere ai cavalieri. Cosí la spada di Carlomagno si chiama Joyeuse, cioè a dire l’“entusiasta d’amore”.» Oggi ancora in italiano tristo è l’uomo di animo basso, prosaico, nemico di ogni generosità, un uomo da sfuggire e quasi da impiccare. La galanteria provenzale aveva stabilito dei gradi perfettamente distinti attraverso i quali bisognava passare progressivamente. Si era prima di tutto feignaire, ossia esitante; poi prégaire, ossia deprecante; poi entendaire, ossia ascoltante; infine druz, ossia amico. In italiano “drudo” significa amante di donna maritata. Drudo per noi significa amante disonesto, ma una volta significava amico fedele (dal tedesco treu, fedele) e cosí lo usa Dante nel XII del Paradiso, parlando di San Domenico della nobile casa dei Guzman (v. 55): «[…] l’amoroso drudo / della fede cristiana […]».

Anche Montaigne (Essais, “De la Tristesse”) loda gl’Italiani perché hanno fatto “tristezza” sinonimo di “malvagità” e dice: «Io sono del tutto esente di questa passione e non l’amo né la stimo; benché la gente onori in modo particolare la tristezza e di essa adorni la saggezza, la virtú, la coscienza: stupido e brutto ornamento! Gl’Italiani piú ragionevolmente hanno chiamato “tristizia” la malvagità, perché questa qualità è sempre nociva e insensata; e come vile sempre e bassa, gli Stoici ne vietano il sentimento al savio».

 

Interessante per noi il commento che dà di seguito Savinio:

 

Queste parole si affanno a puntino a quella speciale forma di tristezza che presso di noi è diventata forma d’arte e chiamiamo “dolorismo”. Abbiamo scrittori doloristi (Pirandello), pittori doloristi (Casorati), attrici doloriste (Eleonora Duse). Il dolore è considerato piú elegante, piú nobile, piú profondo della gioia. Per quello che è della gioia come “esaltazione d’amore” (il joy), resta a dire che anche nella piú smagliante esaltazione d’amore c’è sempre una ancorché minima ombra che ne macchia la luce; perché l’amore che si ha per altri, sia pure per la Ragione suprema d’amore, non è mai perfettamente puro in quanto implica dedizione di noi stessi; e il joy noi cavalieri senza dama lo serberemo piuttosto per l’amore a noi stessi: a quello che di piú puro e piú alto esprimiamo da noi stessi, alle nostre opere: a ciò che non ci viene da sorgente altrui, ma dalla nostra propria sorgente. La nostra solitudine è la nostra nobiltà. La nostra solitudine è la nostra gioia: il nostro joy. Anche secondo la considerazione “comune” della nobiltà: nobili sono i pochi, gli eletti: a maggior ragione il Solo.

 

E Petrarca era nobile (come Leopardi)? Era abbastanza Solo (come Rilke)? Credendo a Savinio (“se vi pare”), il quadro della riflessione pensosa tiene le distanze dalle occupazioni correnti, tanto da aprire le nostre vedute sulla visuale di Petrarca: le “voci” di Savinio, come questa, sono “scorciatoie” lunghe, assente il fondo moraleggiante in apparenza (anche Savinio vuole dare con esse un taglio di vita).

 

Poi conviene utilizzare qui il punto di vista di Saba, ricavabile dalla sua posizione di pensiero, in particolare per noi Quello che resta da fare ai poeti, le Scorciatoie (12, LAURA – 7, GLI ITALIANI), la lettera a Vladimiro Arangio-Ruiz (Trieste, 8 giugno 1948), anche se tale pensiero sente il mondo finalizzato al suo autore, come nella sintomatica frase «perché venga l’ora di Saba, bisogna che l’Italia abbia prima ritrovata se stessa, la parte migliore della sua tradizione» (Storia e cronistoria del Canzoniere) oppure «La mia poesia […] sarà veduta nella sua giusta luce appena quando l’Italia avrà ritrovato la parte migliore di se stessa» (lettera a Giuseppe De Robertis, Milano, 22 settembre 1946):

 

               Ma non è – almeno non è piú – un enigma. Laura è certamente esistita. È esistita; ed era, alla luce di tutti i giorni, una bionda signora; nelle profondità inaccesse (infantili) dell’anima del poeta, era sua madre; era la donna che non si può avere. E tutta la fascinosa, un po’ monotona, storia del CANZONIERE, di venti e piú anni di corteggiamenti, per non arrivare, per voler non arrivare a nulla, è qui. Se Laura che lo loda, lo rimprovera, lo ammonisce a ben fare, siede in sogno sulla sponda del suo letto, si comporta in tutto e per tutto come una tenera madre col suo amato, e un po’ indiscreto, bambino […].                                                 (Scorciatoie, 12, LAURA)

 

Su tutte queste considerazioni campeggia la direttiva generale che ai poeti resta da fare la poesia “onesta” e che «i poeti sono i soli e gli unici ricercatori del vero» (Quello che resta da fare ai poeti). Credendo a Saba (“se vi pare”), Petrarca ha impiegato «venti e piú anni di corteggiamenti», ma anche diremmo noi estesamente di “carteggiamenti” per arrivare «a nulla». Non sembra proprio (malgrado la coerenza della sua impostazione), come l’accento di vero e di reale non può non stare con la finzione e la forza immaginativa, che tutto altera e coglie da questo l’autentico (due impianti di pensiero diversi, al modo di quelli di Petrarca e di Dante,[5] mentre la dinamica della fantasia – caso Bruno, caso Manzoni – aiuta o concorre alla ricerca del vero, magari «il vero condito in molli versi»).[6]

 

Allora acquista rilevanza la posizione del Bruno, scontata ma comunque da valutare nelle sue ragioni, nel segnale di effetto di un piú vasto ascolto per l’andamento dei tempi. Non è una posizione personale privata, bensí una personale storica che fa tappa, anche se discutibile.  Denota perciò un disagio di certa area culturale, un malessere della società. Cose che egli raccoglie e proietta avanti, nel vicino spirito barocco, piú tardi in filosofi come Schelling, in poeti oggi come Dino Campana o lo stesso Biagio Marin per taluni aspetti o anche Mario Luzi.

Allora il suo linguaggio disinvolto e piuttosto realistico, virulento, fuori da schemi e da ritegno, proteso in una battaglia contro l’incultura del tempo. Vistosa l’avversione ad Aristotele (pure del Petrarca). Indicativa la simpatia per pensatori quali Meister Eckart, Nicola da Cusa, scienziati quali Copernico. Come un fuoco d’artificio i giochi verbali (dopo il Barocco quelli di certo Novecento, la fantasmagoria di Calvino). Tenace e di vis teatrale, imprime una svolta al percorso conoscitivo dell’uomo, anche e proprio nel dileggio di Petrarca, se visto lui non come buffonata ma come richiamo a un diverso modo di fare poesia e attività di cultura: suo bersaglio sempre il malcostume degli strati sociali e uno scrivere che non fa piú per l’età nuova, se visto lui come anticipatore, sempre su Petrarca (ma non solo), del Seicento, di Alfieri, di Leopardi, perché no di Manzoni, di Saba.[7] Capostipite di una linea le cui figure costituiscono in filigrana un riconoscimento proprio di Petrarca, particolarmente quella formulata da Saba: ecco l’attribuzione di poco realistico, di poco vero, ma è giusto quello che Petrarca voleva essere sulla pagina, nell’abito comportamentale diversamente dal vero comune intorno a lui!

Poco realistico, stonato coi tempi. Nel vederlo pure lui cosí, ormai nell’età della Controriforma o del Manierismo, il Bruno si mostra ed è partecipe di certo disagio di tipo tassiano come di esperienze sociali del periodo shakespeariano, lui impegnato a dove poter stare e operare, tra Francia, Inghilterra, Germania, Boemia, Italia (nemmeno Venezia).

Lui, già: «L’autore, si voi lo conosceste, dirreste ch’ave una fisionomia smarrita: par che sempre sii in contemplazione delle pene dell’inferno, par sii stato alla pressa come le barrette: un che ride sol per far comme fan gli altri: per il piú, lo vedrete fastidito, restio e bizarro, non si contenta di nulla, ritroso com’un vecchio d’ottant’anni […]» (Candelaio, Antiprologo).  Lontano da Petrarca per l’ironia corposa e a volte grossolana, per il gusto della beffa che anima anche qualche breve racconto inserito nel Candelaio (semmai nello spirito del Boccaccio). Per tutto un abito dissacrante di controragionamenti, spinti sull’assurdo logico nel gioco alterno della fortuna, come si sente nelle parole del personaggio Bonifacio: «Chi ha guadagnato e mantiene tanti bei paesi ne l’Istria, Dalmazia, Grecia, ne l’Adriatico mare e Gallia Cisalpina? Chi orna l’Italia, l’Europa ed il mondo tutto di una tanta Republica a nisciun tempo ed a nisciun modo serva? Il maturo conseglio vineziano. – Chi ha perso Cipri, chi l’ha perso?» (Capo IV, Scena V).[8]

Non solo nella dinamica concitata del discorso scenico, ma pure nel dialogo arguto di tanta sua opera speculativa sussiste l’idea riguardo la fortuna, già panorama articolato del vivere, per lui intesa ora come «uno incerto evento de le cose» (Spaccio, Dialogo secondo).  Per di piú, «non si deve aver per universale che l’anime sieguano la complession del corpo: perché può esser che qualche piú efficace spiritual principio possa vencere e superar l’oltraggio che dalla crassezza, o altra indisposizion di quello, gli vegna fatto» (L’asino cillenico, Interlocutori). (Petr. invece di complessione piuttosto massiccia, di ingegno equilibrato e non estroso, tutto preso da una ricerca di rettitudine, anche di rimbalzo da Laura in quanto «Illa iuvenilem animum ab omni turpitudine revocavit»: Secretum, III)

 

A conferma di tale sua posizione, si aggiunge indicativa la simpatia di lui per il poco petrarchesco, nel secondo Cinquecento a Napoli, Luigi Tansillo (tra Venosa e la paterna Nola), seguace di una diversa concezione dell’amore rispetto a quella del Petrarca, dovuta a certa fantasmagoria accorta del variare di un nucleo tematico, rotti i canoni di misura e temperanza stilistica, versato il pensiero in un gioco di espressioni ambivalenti, licenziose (tutti elementi accetti al Bruno).

E poco petrarchesco nello stesso Leopardi, fra altri vari motivi di lui, il senso drammatico de La vita solitaria sua, con il ripetuto «infesto» e con la dissonanza psicologica di fondo: l’assidersi «Sovra un rialto» dominato da «altissima quiete» e l’obliare «quasi me stesso e il mondo», il contrasto fra la «cara luna» con il suo «tranquillo raggio» e «Infesto scende / il raggio tuo […]», «Infesto occorre / per le contrade cittadine il bianco / tuo lume al drudo vil», «Infesto alle malvage menti, / […]».   

Laddove anche il dramma in Petrarca viene carezzato attraverso un filtro sapiente di dosature, di compensazione dell’equilibrio, perduto o mancante: gioco infaticabile di armonia diremmo compensata secondo un ingegno teso a una superiore compostezza («ingenio fui aequo potius quam acuto […]»: Seniles, la conclusiva Posteritati).  E la scrittura poetica ricupera la realtà di per sé, recepita come fittizia, fuggevole. Diventando qui il fittizio piú autentico del mondo circostante dominato dal trascorrere del tempo, dalla labilità del vivere. Fittizio, in virtú della forza concettuale dell’immaginazione, non il tratto di un atteggiamento insincero fuorviante, tutto preso il poeta da questo disegno orchestrato sí da compensare la realtà oggettiva.

Il lungo (“eterno”) lavoro di Petrarca risponde dunque, piú che a una idealizzazione astratta, al bisogno di imprimere una svolta al modo di vedere le cose, al corso del pensiero esistenziale. Qui perdura qualche aspetto dei modi provenzali e della lezione stilnovista, come principalmente si fanno sentire i dilemmi dell’intimo, nonché dei tempi futuri. Ma, senza finire sotto l’influsso di questi, senza calarvisi tutto compreso, ma tenendo distacco da quella gran materia di scissione dell’anima che ha tanta parte e sempre maggiore nell’età moderna, sino nel senso odierno di dissonanza. Ora, questa parte della mente petrarchesca (del suo “io”) vive e rimbalza piú avanti, oggi (il “tu”, il “moi” per Valéry). E si presenta come dissonanza perturbata, senza la parte di compostezza e di bella forma. Una entità complessa, bilanciata in due parti: una di Petrarca (del suo “io”), una di noi (il “tu”, il “moi”). Questa, che sente l’armonia lontana di Petrarca. Quella, che tiene in germe la nostra, pure lontana. Si possono incontrare le due parti? Può lo spirito di dissonanza da Saba e Quasimodo indietro sintonizzarsi su quella parte e capirla, che è la voce manifesta (visibile e non nascosta) di Petrarca? Mentre quella non manifesta, in sordina, preme verso di noi (la “posterità”), dai modi dissacranti antiletterari di Cecco Angiolieri, Burchiello, Aretino, Giordano Bruno sino a quelli di Montale e Saba (già Pascoli),[9] o di qualche altro in tal senso significante.

E la solitudine, che è un modo di vivere, pare inevitabilmente fraintesa, incompresa in vari momenti storici. Impossibile viverla (nello spirito)[10] cosí, oggi. Come impossibile essere dissonante (nell’esito stilistico) e poco solitario[11] per un Petrarca, ieri.

 

Quest’esigenza di vita raccolta possiamo dirla con le parole di Leopardi, bene intendendo in esse l’animo di Petrarca (che ha interessanti punti in comune con Leopardi, sebbene da un’impostazione storico-culturale differente, come per la figura del Solitario in sintonia con Dio oppure in addentramento nell’intimo dell’esistere)

 

Ad ogni filosofo, ma piú di tutto al metafisico è bisogno la solitudine. E in somma si può dire che il filosofo e l’uomo riflessivo coll’abito della vita sociale non può quasi a meno di non essere un filosofo di società (o psicologo, o politico ec.), coll’abito della solitudine riesce necessariamente un metafisico […]. (Zib. 4138-9, 12 maggio, Festa dell’Ascensione, 1825)

 

Nel convincimento che non può avere modi spigliati in società chi sia portato per abito mentale a riflettere silenzioso, pensando e meditando sui casi della vita, secondo la propria specificità (unicità) intellettiva. Che è una pagina illuminante dello Zibaldone.   

Ed ecco il confronto fra i due tipi di vita, nel De vita solitaria, accostati come le complementari raffigurazioni del Buon governo e del Mal governo. Fissati secondo un taglio di rappresentatività piuttosto agile e discorsiva, a riprese alternate/intrecciate (dell’“uomo indaffarato” e dell’“uomo solitario”):[12]

 

Si alza l’uomo indaffarato, infelice abitatore delle città, in piena notte, svegliato dalle proprie preoccupazioni o dalle voci dei clienti; spesso anche per paura della luce, spesso atterrito da apparizioni notturne […]: cosí l’infelicissimo artefice ordisce prima dell’alba la tela delle sue attività diurne, in cui avvolgere se stesso e gli altri.

Si alza l’uomo solitario e libero da affari, sereno, ristorato da un adeguato riposo […], egli subito inizia a cantare nelle ore tranquille dell’aurora: devotamente prega il portiere delle sue labbra di aprirle per le lodi mattutine che stanno per uscirne e chiama in suo aiuto il Signore del suo cuore, scongiurandolo di affrettarsi, poiché non si fida affatto delle proprie forze ed è conscio e timoroso dei pericoli che lo minacciano. […] trabocca di un lieto dolore e di lacrime di felicità. Nessuno dei sollazzi degli indaffarati, nessuna delle delizie cittadine, nessuna vanitosa esibizione di potenza regale potrà mai eguagliare questa condizione […].

[…] E quello sta seduto con la fronte rannuvolata, lo sguardo serio, le sopracciglia aggrottate, il naso arricciato, la guance pallide, distaccando faticosamente le labbra incollate, sollevando a stento il capo, stordito dai bagliori e dagli odori. Gonfio per la crapula della sera prima e turbato per l’esito degli affari del mattino, non sa piú dove si trova; intento a meditare futuri imbrogli […] suda, manda cattivo odore, rutta, sbadiglia e, assaggiando ora questa ora quella vivanda, per tutte prova nausea.

[…] Il nostro solitario, invece, non fa nulla in modo affrettato […].

Il solitario invece è pieno di una gran gioia onesta, pieno di santa speranza, pieno di amore devoto, non come quello di Niso per Eurialo, ma come quello di Pietro per Cristo; la sua coscienza è integra……?

                                                                         (Libro Primo, II)                                                         

 

Cui segue (a tale pista tematica che si ritrova piú avanti nel breve componimento poetico del Frugoni Poeta e Re) l’indicazione poi di figure emblematiche da tenere presenti (Seneca che «ricorda con non poco piacere la solitudine che sperimentò in Corsica», Cicerone viceversa «L’unico tra i letterati che vedo non tollerare con sufficiente serenità la solitudine […] non tanto perché egli odiasse la solitudine in se stessa, quanto perché ne odiava la causa, cioè la rovina delle leggi e della giustizia»: Libro Secondo – Mentre «è odiosa la solitudine di Tiberio […], vecchio feroce e malvagio»: Libro Primo, VII). Intanto nell’introspezione di fondo imperniata sul Solitario, secondo cadenze da Secretum, fatte di colloqui virtuali alla pari (oggi le “interviste impossibili”):

 

Cosí la penso e tra gli estremi occupo una posizione intermedia. Se uno prova gioia soltanto in mezzo alla folla, ha bisogno di pietà piuttosto che di confutazioni. Ma l’altro dice: «Fuggi perfino il singolo»; a costui non so che cosa rispondere. Mi tocchi, Seneca, lo ammetto, e mi opprimi con il peso della tua autorità e saresti forse vicino a piegarmi se non si opponesse un altro non inferiore a te (anzi, se lo dico piú grande non credo di suscitare il tuo sdegno). Marco Cicerone, trattando dell’amicizia, afferma che non soltanto coloro per i quali l’amicizia, dopo la virtú, è la cosa piú gradita, ma anche gli uomini rozzi e selvaggi, che si tengono lontani dal consorzio umano – ne trovò a stento un solo esempio in tutto il mondo – non possono resistere se non «trovano qualcuno» (egli non lo definí “amico”, la loro natura non lo permetteva) «qualcuno con cui sfogare il fiele della propria amarezza».            (Libro Primo, VII)

 

Vita operosa e amica,[13] fondamentale proprio nella condizione solitaria. «[…] ho mai consigliato di trascurare, per amor di solitudine, le leggi dell’amicizia: dico che bisogna fuggire la folla, non gli amici» (Libro Primo, VII), ancora, di seguito «L’inattività sia moderata e dolce, non eccessiva; la solitudine serena, non spietata; sia infine solitudine, non barbarie» (ivi).  Sostenendo del pari, lo abbiam già visto, la sua prerogativa onesta.

Allora la solitudine non inerte, e non sconveniente (non “odiosa”).

 

Ma, il vivere solitario essendo quello di un vivere dall’intenso trasporto, di passione costruttiva e amorosa spinta, apre altre considerazioni pure fuori dal De vita solitaria. Entrano in gioco componenti di gusto e di costume compositi, che han permesso uno sguardo anche rischioso da parte di certi studi e studiosi come Denis de Rougemont su un piano di contaminatio mistico‑romantica e sociologica.[14] Come Charles‑Albert Cinghia,[15] accolto dal Rougemont nel suo impianto valutativo: «Chiunque […] sa che un uomo è stato superlativamente innamorato: Petrarca. E, quel che piú conta, è vero… […]: egli lo era in modo straordinario, incendiario, solare [n. 7. C.A.Cingria, Petrarca]. In Petrarca ciò che ci sorprende è questa passione inconfessabile che animava per la prima volta i simboli dei trovatori d’un soffio perfettamente pagano, e non piú affatto eretico! Siamo agli antipodi di Dante, ma altresí dei retori che questi attaccava. Il “segreto” di cui piú sopra parlavo si è volatilizzato: non vi compie piú alcuna funzione. Il linguaggio dell’Amore è divenuto alfine la retorica del cuore umano».[16] Cioè, piú indietro, «il paradossale segreto dell’amor cortese: affettato e freddo quando non celebra che la donna, ma tutto ardore di sincerità quando esalta la Saggezza d’amore: allora il suo cuore batte davvero. Dante stesso, che non è mai cosí appassionato come quando canta la Filosofia, intensifica ancora il suo ardore allorché essa divien Scienza di cose sacre. [...] Dante la definirà, nel suo Convivio, come il segreto che bisogna velare con una “bella menzogna”. Tutto ciò anche i Catari lo sapevano: ma, giova rilevarlo, non l’hanno mai dichiarato. E’ proprio per il fatto che Dante e i suoi amici si sono indotti a definire l’arte loro, che nei poeti italiani meglio che altrove ci è dato sorprendere il vero mistero dei trovatori».[17] Sicché, dopo individuati i temi del trobar, «Era prossimo il tempo in cui i poeti avrebbero dovuto soccombere alle seduzioni dello specchio e della retorica profanata. Vedremo Petrarca lasciarsi prendere “da ciò che non è”, cioè dall’immagine della sua Laura, che troppo a lungo, come gemerà piú tardi, lo tratterrà dall’“andare verso il Signore”».[18]

A questo punto il Rougemont, riprendendo noi il suo discorso interrotto a «la retorica del cuore umano» (significativo il titolo del paragrafo: 4. Petrarca, o il retore convertito), viene precisando: «Questa “profanazione” radicale darà origine, ne abbiam visto il perché (al II libro), a una poesia piú idonea d’ogni altra a servire la mistica ortodossa».[19] Lasciato parlare lo studioso, diciamo in sintesi per lui il seguito: che l’essenza di ciò va vista nel piacere della sofferenza e in un senso romantico del dolore, attraverso le figure di Lancillotto, Tristano, i nomi (posteriori a Petrarca però) di Santa Teresa d’Avila, di San Giovanni Della Croce, ovvero dello stesso Sant’Agostino quale personaggio del Secretum (precisamente De secreto conflictu curarum mearum). Tesi avvincente, ma non percorribile con sicurezza per l’idea quasi di compiacimento (della sofferenza) che vi s’insinua (non adatto ai santi qui nominati), di pathos, per di piú, secondo una maniera (direbbe Savinio) “dolorista”. Anche di quell’attenzione ai propri casi, per la quale possiamo tener presente il Momigliano, l’idea di un grande (soverchio?) amore di sé, amore triste e insieme distaccato (un po’ neutro), non sempre convincente da qualche angolatura critica.

Mentre Petrarca, coerente al proprio cammino della “vita solitaria” (un “itinerarium mentis ma anche amoris ac elegantiae in Deum, et in Virginem ipsam, comunque in foeminam”), osserva mesto «I’ vo piangendo i miei passati tempi / i quai posi in amar cosa mortale, / […]: / sí che, s’io vissi in guerra ed in tempesta, / mòra in pace et in porto; e se la stanza / fu vana, almen sia la partita onesta» (Canz. CCCLXV), la stanza della dimora terrena non sufficientemente ricca di significati, secondo il modo di condursi proprio della solitudine come del “segreto”. Il senso della vita che non annoia, che non vuol essere grave! E della morte, «La morte è fin d’una pregione oscura / all’anime gentili; all’altre è noia» (Trionfo della morte, II).

Come “pregione” a un certo punto diventa l’amore per Laura (già donna virtuosa, dal potenziale angelico). Frutto di una disposizion d’animo in “amore honesto”, lo confessa egli stesso (Seniles, la conclusiva Posteritati), cioè per colei dal significato ancor troppo terreno (le Madonne non abbastanza “mature” nell’arte toscana del Quattrocento all’occhio di Rilke), per quella sua morte, “bella” eppure “mors acerba sed utilis”. “Mors” con tali prerogative, allora avviata al cammino della sua “maturazione”, ravvisabile anche fuori dal Canzoniere, in quella costruzione della propria vita e immagine fissata dalle Familiares come dalle Seniles, dai tratti del Secretum o da talune notazioni dei Trionfi.[20]

 

 

Siffatta solitudine, cosí “fraintesa” in vario modo, risulta alla fin fine operosa e “onesta” secondo le parole proprio di Saba per la poesia. Perché Petrarca ha risolto il mondo delle forme tumultuose e discordanti o svianti in una realtà autentica, in un cielo di assoluto individuato nella prospettiva della “bella forma” come della “solitudine” quale stile di vita («O sempre inquieto ed ansante [Cicerone]? Perché la calma […] abbandonasti? [...]. Ti compiango, amico»: Seniles, XXXIV, 3). Prospettiva o pista o via di armonizzazione per ricercare se non costruire questo cielo assoluto, lui finalmente «solutus ac liber» (Familiares, XIII, 8). Ricercatore pure Petrarca, ancora secondo le parole di Saba per i poeti, a suo modo del “vero” (attraverso una fictio, non disdegnando nemmeno forme dure, come il verbo “rutta” riguardo l’“uomo indaffarato”). E “solutus”, appunto, da impacci politici ed esistenziali amorosi troppo svianti (per lasciarlo “liber”), sciolto insomma nel senso di slegato (come quando Dante dice «ond’io da tutte queste cose sciolto, m’era con Beatrice suso […]»). Perciò “liber”, tale da condursi secondo modi intimi e smorzati. “Solitario” dunque a queste condizioni, e savio.



[1] Emblematico il tema oggi di Manlio Pastore Stocchi, P. tra società e solitudine proposto all’Incontro di studio per il settimo Centenario della nascita, Francesco Petrarca 1304-1374, Ateneo Veneto, 12 nov. 2004, e che riprende sue precedenti ricerche.

[2] Lui invece tutto polito non solo nello scrivere, appassionato a osservarsi e controllarsi, bene attento a sé, quando ricorda al fratello Gherardo in anni non piú giovanili «Che paura che i capelli mi si scompigliassero, che un soffio di vento mi arruffasse i ricci! Come fuggivo i quadrupedi che mi venivano incontro o di dietro, perché la veste profumata e nitida non s’insudiciasse o perdesse le pieghe!»

[3] Si pensi anche allo stesso Dante, non accolto in età umanistica specie latina, secondo le affermazioni programmatiche di Cristoforo Landino, «Chi ha da essere buon toscano ha da esser buon latino», e di Niccolò Niccoli nel commento di Umberto Bosco: «Apparentemente, la disputa umanistica pro e contro Dante è una disputa pro e contro l’uso del volgare. Ma quando vediamo i letterati umanisti preferire generalmente il P. all’Alighieri, comprendiamo il vero senso dello spregio di un Niccoli per Dante, “poeta da ciabattini”. Il quale nei Trionfi è appena ricordato, in fila con gli altri poeti erotici in volgare, e la piú alta creazione d’amore, Paolo e Francesca, è posta con le popolari creazioni cavalleresche, “ove conven che ’l vulgo errante agogni”: fantasie apprezzabili solo dagli indotti. E il volgare di Dante, inversamente che quello del P., non è apprezzato proprio perché esso si stacca decisamente dal latino; la cui erudizione è, sí, ammessa: ma è altresí giustamente riconosciuta la natura medievale della scienza, della filosofia, degli ideali in genere che vi si rispecchiano» (F. P., AA.VV., I Maggiori, I, Orientamenti Culturali, Milano, 1956, p.160).

[4] Ivi, p. 143.

[5] La loro “incompatibilità” mentale, se prestiamo fede ancora a Umberto Bosco, per il quale «In una famosa Familiare al Boccaccio (XXI, 15), il P. dice in sostanza di non poter invidiare Dante: poeta, sí, ottimo, ma “in suo genere”, nobile “quod ad rem”, ma per il resto “popularis”: questi aveva posto la sua mira in un genere d’arte che egli, il P., aveva abbandonato sin da giovane, e non senza che anche la sorte toccata al poema dantesco lo inducesse all’abbandono: la sorte di esser “lacerato” per trivî e botteghe, di esser lodato da “insulsi et immodici”, da “ineptissimi laudatores”. Or qui non è questione di diversità della lingua adoperata; si tratta d’“incompatibilità estetica” tra i due, come ben vide Vittorio Rossi. Ma al disotto della diversità di gusto c’era tra i due poeti una diversità d’impostazione dello stesso concetto dell’arte, che l’uno destina – essenzialmente – a tutti gli uomini, l’altro ai soli letterati» (Op. cit., p. 142).

[6] A parte il Tasso, son da ricordare la frase del Bruno per cui «l’occhio di carne non vede il vero» e riguardo la componente fantastica del Manzoni gli studi di Mario Puppo e di Claudio Varese.

[7] Fa pensare, trattandosi non di personalità artistica nell’ottica della propria poetica ma di acuto critico in veste imparziale, la posizione attenta e prudente (per taluni aspetti terribile e non lontana da quella di Saba) di Attilio Momigliano nel quadro della sua Storia letteraria: «Tuttavia [non si finirebbe di tessere la sua biografia: tante sono le notizie che egli ci ha lasciato di sé!] molte incertezze rimangono su di lui, perché l’interpretazione di quelle notizie, per un uomo complicato come il P., non è facile. : […]. Il P. parlò di sé con la meticolosità, preziosa per i posteri, dei poeti che si vogliono bene, e con la schiettezza un po’ ingannevole degli scrittori che amano parlare di sé. Ebbe certo qualità grandi […]; ma diede troppa importanza a tutti gli atti della sua vita, si curò troppo di informare i posteri della propria vita di grande poeta e di gran dotto; e perciò continua a parere, pur fra i nobili sentimenti che lo animarono, un uomo vano e – per questo rispetto – piccino. Altri dissero di sé molto, senza parere vanesi: il Leopardi, per esempio; ma l’epistolario latino del P., cosí vasto, cosí ordinato nelle raccolte […], non può sembrare l’epistolario d’un grande.

Per apprezzarlo nei suoi lati intimi e poetici, bisogna liberarlo dalle pedanterie, dalle troppe esercitazioni letterarie sopra un argomento morale, e dagli innumerevoli elementi che interessano la storia della cultura europea. Rimane allora un piccolo nucleo poetico: la corrispondenza di un meditativo, di un uomo tormentato […].

Il Canzoniere è tutt’altra cosa. Nel P. delle rime non è rimasto nulla dell’angustia dell’uomo: […]. Il Canzoniere è una situazione fantastica che il P. si è formato sopra un fondamento morale isolando nel suo temperamento ciò che esso aveva di piú profondo, quella tendenza malinconica affettuosa e meditativa che ha messo il suo capolavoro nel novero di quelli che esprimono insuperabilmente uno degli stati d’animo caratteristici dell’uomo.

Il Canzoniere ha iniziato nella storia della psicologia poetica un’era nuova e ha insegnato per molti secoli, in Italia e fuori, un’intonazione di sentimento fino allora ignorata […]» (Milano-Messina, 1964(VIII), pp. 65-66). Una posizione che richiede a noi pure qualche prudenza.

[8] Si veda l’Introduzione a G. B., Candelaio, a cura di Giorgio Bàrberi Squarotti, Torino, 1964.

[9] «il disintegratore della forma poetica tradizionale», secondo la nota affermazione di Alfredo Schiaffini.

[10] O criticamente accettarla, come il Momigliano. Anche se questo, pur non accolto, è lo stile e il colore di un mondo, fuori dal Canzoniere.

[11] Diremmo, “de la Solitude, avant toute chose!”. E dalla solitudine quella musica di velature fra toni limpidi, di sofferta ricerca di un dignitoso amore per la vita, e per sé. Aveva caro anche suonare il liuto, quest’anima solitaria che si nutriva di amicizia, degli amici, che si disacerbava cantando.

[12] O dello stato di “negotium” e di “otium”. Anche, agostinianamente, della “città dell’uomo” e della “città di Dio”.

[13] Nella lettera al Boccaccio chiude dicendo «Addio, mio dolcissimo fratello» (Seniles, VI).

[14] L’Amore e l’Occidente. Eros morte abbandono nella letteratura europea, [L’Amour et l’Occident, Paris, Libr. PLON 1939] trad. di Luigi Santucci, introd. di Armanda Guiducci, Milano 1977 e 1993 (da cui si cita).

[15] Saggista e scrittore francofono svizzero come D. de Rougemont, autore di Petrarca, avec une notice de Christophe Calame, Lausanne, Éditions L’Age de l’Homme [1932] 2oo3.

[16] Rougemont, Op. cit., pp. 234-5.

[17] Ivi, pp. 230-31.

[18] Ivi, p. 234.

[19] Ivi, p. 235.

[20] Conviene ricorrere a questo punto alle osservazioni illuminanti qui di Manlio Pastore Stocchi, per il quale «Quando il discorso si avvia gli eventi e le loro risonanze sono già sottratti alla storia puntuale e appropriati alla memoria: da allora la loro “distanza” non muta nella dimensione temporale perché il P. li porta ormai con sé o meglio porta con sé quel ricordo ormai definitivo donde si è mossa l’opera sua.» Per questo fissa la sua immagine di vita e al tempo stesso si tiene distaccato.

© Copyright 2001 CSIA - University of Trieste Ultima modifica il 01.09.2005
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