Homepage Università di Trieste Ufficio Scolastico Regionale
Universita' degli studi di Trieste  

PIETRO BEMBO, O LA TENUTA DI UN’OPERAZIONE “POLITICAMENTE” CORRETTA

Fabio Cossutta     

Pietro Bembo, o la riuscita di un’operazione “politicamente” corretta

 

L’evoluzione imposta al corso delle nostre lettere dalle teorie del Bembo è cosa nota, ampiamente valutata e discussa. Si riconosce quanto gli intellettuali italiani ad essa si siano adeguati, per ragioni di “grammatica”,[1] di “stile”,[2] di necessità politica – quella stessa che avrebbe portato «gran meraviglia poi e dispetto» ai «critici romantici»[3] –, in taluni casi persino si adombra la convenienza di operare una sorta di unificazione del «mercato librario»[4] del tempo. Nessuno avanza dubbi o riserve sull’accettazione dei principî bembiani,[5] semmai si dibatte sul valore delle opinioni e posizioni diverse, rilevandone volta a volta le manchevolezze o le incongruenze, nella maggioranza dei casi attribuendo al patrizio e letterato veneto quell’autorevolezza morale e spirituale che si sarebbe di riflesso trasferita a quanto egli veniva delineando e realizzando:[6] in breve, l’auctoritas dell’uomo avrebbe trascinato seco, nella dovuta sfera di prestigio e fascino, il senso stesso della sua proposta.

Su tutto questo pare a me non esserci spazio a discussione alcuna. Tuttavia, poiché si è storicamente verificata una contesa, alla fine della quale uno è risultato vincitore assoluto, ed è stato riconosciuto tale per i successivi tre secoli, lungi dal voler rivisitare tutto il dibattito fin qui intercorso e che ancora è destinato a seguitare, varrebbe piuttosto la pena soffermarsi su alcuni punti problematici, su alcuni punti interrogativi rimasti aperti, e sui quali si tenterà di abbozzare una risposta.

È ben vero che la questione della lingua aveva incominciato ad essere impostata (teoricamente parlando) dagli umanisti e aveva trovato poi sbocco nelle grandi – e contrapposte – teorizzazioni rinascimentali;[7] tuttavia non mi pare sufficiente – a capire e inquadrare correttamente le posizioni in campo – il ricorso al principio d’autorità, né applicandolo alla personalità del bembo, né invocandolo come bisogno “primario” delle corti “imbolsite” nell’Italia devastata dagli stranieri eserciti,[8] né proiettandolo come strumento principe della successiva Controriforma. Insomma, detto in breve, non riesco a convincermi che il primato di Petrarca dovesse “necessariamente” comportare la conseguente esclusione di Dante, né che tale esclusione fosse dovuta al “gusto” di messer Pietro, e neppure che la prima (quella che noi dopo Foscolo e i romantici abbiamo recuperato come tale) Corona fiorentina costituisse insopportabile zavorra per i conformismi controriformistici,[9] proprio quando una ampia proiezione nell’aldilà sarebbe stata vista soltanto con favore.

E in effetti, se si va a ripercorrere l’iter della questione, si vede che i letterati umanisti, sia pur disputando ciceronianamente pro e contro, finivano poi per riconoscere la paritaria eccellenza di tutti e tre quei grandi del Trecento, ed il Bembo solo a un certo punto muta rotta e propende per una decisa potatura, vittima della quale rimane il povero Dante, nonostante le amorevoli cure prestategli a inizio secolo. Conversione sulla via di Damasco? Affinamento della propria coscienza “stilistica”? Parrebbe di sí, o, almeno, questa è l’opinione dominante nella critica, che non per caso può trovare giustificazione e appoggio nel gusto “neomedievale” e “neobarbarico” dell’Ottocento romantico, se non fosse che il Foscolo, iniziatore della svolta, tutto può essere definito tranne che ostile ai “classici”, quei classici che avevano trovato proprio in Petrarca l’aedo principe. E non credo neppure che in Bembo sia maturata dopo gli Asolani una coscienza “grammaticale” evoluta al punto da imporgli un aut aut: fuori Dante come «fuori i barbari»; non ci credo perché è opinione corrente del tempo – condivisa sia da Bembo sia da Castiglione – che il primato della “lingua” sia determinato non da peculiarità intrinseche, bensí da coloro che, esprimendosi al meglio, hanno fatto di tale lingua il proprio eccelso e sublime vettore. Cosí si esprime il Magnifico Giuliano nelle Prose, quando afferma che non esiste lingua degna di considerazione senza scrittori che ne diano testimonianza;[10] di tenore analogo sono le conclusioni a cui si perviene dopo una certa schermaglia nel Cortegiano, là dove Ludovico da Canossa e Federico Fregoso contendono un po’ sull’imitazione – e risulta perdente il Fregoso, vicino alla posizione “rigida” del Bembo, mentre prevale il Canossa, portavoce di quell’elasticità cara al Castiglione – ma si ritrovano a condividere talune questioni di principio. Per esempio che non sono le parole antiche a rendere uno scritto degno o non degno, ma è il pensiero in esso contenuto a farne la forza, con la conseguenza che scindere i contenuti dalla loro espressione costituirebbe operazione priva di senno e di senso;[11] ancora, rifacendosi ai grandi “esemplari” modelli dell’antichità, e schierando in campo esempi illustri di scrittori “impuri” epperò immensi nelle opere lasciate (come Livio e la sua “patavinitas”), si ribadisce il principio che dottrina, esperienza e ricchezza d’ingegno fanno grande una lingua, e non l’opposto, e si rileva come tutte le piú geniali “invenzioni” stilistiche nascano da innovazioni, ossia “violazioni” della norma («abusioni dalle regule grammaticali»), che alla fine, grazie ai valori trasmessi, vengono sentite come “piacevoli”, accettate e inserite nella regola.[12] Per un trattato che mira a costruire una figura di perfetto “gentiluomo”, privo affatto di spigoli e asperità, affermazioni di questo genere appaiono rilevanti assai, anche perché, ad osservarle in controluce, esse non inquinano affatto il principio dell’armonia e della possibile “uniformità”: si limitano – in concordia col Bembo – a privilegiare il “pensiero” sulla “parola”, la catena di concetti sulla sintassi che li esprime, i “valori” veicolati sul “veicolo” che li trasporta. Se piú “parco” è il Bembo sull’argomento, non è però egli per nulla distante in via di principio, tant’è vero che Giuliano de’ Medici, nel passaggio sopra citato, aggiunge, nel difendere la sua lingua fiorentina regolata contro la lingua “cortigiana” del Calmeta,[13] che potrebbe a sua difesa portare l’esempio dei suoi «due Toschi», che sarebbero Petrarca e Boccaccio,[14] contro i quali non potrebbe schierarsi campione alcuno che abbia prodotto testi; che è poi il riproporre quanto l’Autore stesso aveva, en passant, ragionato nella dedica al cardinale Giulio de’ Medici (il futuro papa Clemente VII), quando aveva affermato che le leggi della lingua che si vanno cercando traggono origine dalla città di Firenze[15] e dai suoi scrittori, e tale robusto e inossidabile principio sarebbe stato ripreso proprio dal portavoce primo di Pietro, cioè il fratello Carlo, il quale, nello spiegare ad Ercole Strozza la superiorità della lingua fiorentina anche su quella veneziana, porta come argomento (al di là di un certo gusto e una certa sensibilità che egli prova verso il toscano, gusto e sensibilità affinati ed educati dalla “lettura”) sostanzialmente la carenza di autori veneti[16] e, dall’altra parte, la gran copia di scrittori toscani, i quali hanno costruito nel tempo la regola e la gentilezza[17] di quella lingua (letteraria). E, del resto, le lingue sono piú o meno belle e buone a seconda del valore degli scrittori che di esse si sono serviti per lasciare al mondo le loro testimonianze, e pertanto la lingua fiorentina, da cosí tante celebrità supportata, può senza fallo essere riconosciuta come superiore a tutti gli altri volgari. Sottolinea rispondendo lo Strozza – rivolto al Magnifico Giuliano – che tale lode è particolarmente degna di nota, in quanto proviene da un veneziano, persona di grande giudizio, ma pur sempre “straniera” rispetto a Firenze; e Federigo Fregoso è subito pronto ad aggiungere che, a suo avviso, anche i poeti veneziani si sono avvalsi della lingua fiorentina (non solo a maggior gloria di essa ma, soprattutto, a inoppugnabile sostegno delle argomentazioni prodotte).

Ed analoghi riferimenti possono essere riscontrati nel pur dissidente Castiglione, laddove, giustificando la propria scelta della lingua, spiega di non avere imitato il Boccaccio, e neppure usato il toscano al tempo parlato, perché, oltre al fatto che si sarebbe eventualmente trattato di imitazione impropria – avendo il Boccaccio scritto novelle ed essendo invece in fase di composizione un trattato –, il parlar bene nasce soprattutto dall’uso,[18] vale a dire da una pratica viva. In aggiunta, tra i tanti motivi (fra i quali: l’utilizzo di parole desuete renderebbe l’opera meno praticabile) della propria scelta, va inserita inoltre la considerazione in cui viene tenuta la lingua parlata nelle nobili città dell’Italia, da persone ragguardevoli e colte, che la impiegano in alte cose, come affari e imprese di stato, militari e diplomatiche;[19] né, a voler supporre che il toscano nobiliti vocaboli latini corrotti dal tempo, si vede perché tale opera di nobilitazione non possa spettare altresí al lombardo, nella misura in cui a sua volta perpetua certi latinismi;[20] per cui se il Boccaccio è stato imitato, ciò è avvenuto con misura, per quel che si conviene, e assieme a lui altri autori ugualmente degni di stima sono stati osservati come modelli di riferimento:[21] in fondo, è prova di sincerità ed onestà intellettuale presentare se stesso come lombardo, cioè com’egli è, e non risulta nessun divieto o proibizione a scrivere e parlare nella propria lingua. E se qui i punti di vista di quei due grandi letterati del Rinascimento divergono – ma non al punto da scavare un incolmabile fossato –, essi divergono (sobriamente e pacatamente) sulle linee operative e propositive, non sul principio che in tanto esiste una lingua in quanto ci sono persone che la parlano, e, al livello sommo, in quanto ci sono grandi scrittori che la esaltano, e che, guadagnandosi sul campo gloria e fama, diventano inevitabilmente punti di riferimento imprescindibili, a volte – come può accadere nei costumi umani – persino con degli “eccessi”,[22] che, per essere riferiti a quel tempo, in cui la cultura non era ancora inquinata dai mass-media, paiono a me significativi assai.

In definitiva, su un punto Castiglione e Bembo – per limitarmi ai due maîtres à penser piú rilevanti – convergono: prima vengono gli autori, poi le testimonianze scritte, da ultimo le regole che contrassegnano una lingua ed uno stile – né si vede come potrebbe esser diversamente, a meno di non voler forzare le cose per esigenze altre. Sarebbe come chiedersi se viene prima la poesia o il poeta: mi pare logico che sia il poeta a fare la poesia e non viceversa, anche se trae linfa dalla frequentazione dei poeti suoi antecessori. Qui, poi, si sta parlando di grandi poeti, non di minori, e se togliamo ai grandi l’“originalità”, ossia la capacità di creare e di “innovare”, non si vede di essi che resti. Per conseguenza, se di lingua “letteraria” vogliamo parlare e della sua “grammatica”, si dovrà ricorrere – per costruirla, o meglio, per ricostruirla – ai “letterati” che l’hanno «usata» (per dirla con Castiglione), ovvero a coloro che l’hanno, con le loro opere, portata a livelli sommi di espressività. E, francamente, ove si voglia sostenere che Dante ha sempre forzato le regole secondo la sua convenienza, che la lingua della letteratura non deve ricavare da lui le regole che si cercano, mentre al contrario il Petrarca non solo ha sempre osservato le regole, ma le ha anche applicate in maniera sottile ed elegante,[23] non si capisce bene di quali “regole” («domine»!) si vada parlando, posto che, se l’uno le ha osservate e l’altro le ha trasgredite, chi è il terzo che le ha scritte?

Non è – questo – il solo punto in cui le argomentazioni del Bembo offrano il fianco all’impugnazione. Si ripercorra rapidamente l’itinerario in progress che porta a fulminare il povero Dante con l’accusa di “ineleganza”. Carlo Bembo cita i “famigerati” versi contenenti la parola «stregghia», la parola «scabbia» e la parola «scardova»: meglio era il tacerle che il dirle, perché usare parole «rozze e disonorate» umilia la poesia, e non è confacente a un livello dignitoso scrivere la parola «biscazza»; Petrarca, al contrario, cercò sempre di dire le cose nella maniera piú acconcia, decorosa ed elegante,[24] e se Dante e Cino rivelano taluni limiti, consistenti nel fatto di risultare alle volte piacevoli senza essere gravi, oppure gravi senza essere piacevoli, solo il Petrarca è riuscito a essere perfetto nel conciliare le due cose sempre.[25] Però piú avanti, non nelle immediatezze invero, viene citato come esempio di «maravigliosa gravità»[26] il sonetto delle Rime in morte che inizia con «Mentre che ’l cor dagli amorosi vermi / fu consumato», e bisognerà pure chiedersi perché questo cuore, fatto pastura di larve e di lombrichi banchettanti, appaia al Bembo meno sconveniente della «scardova» dantesca! Ma soprattutto, che senso ha comparare luoghi dell’Inferno con le Rime? Che senso ha mettere a confronto passaggi di poesia “comica”[27] con versi di poesia “tragica”, per concludere che sono piú “eleganti” i secondi? Perché non azzarda il Bembo un paragone tra la finale Canzone alla Vergine dei Fragmenta e la consimile invocazione alla Vergine, fatta da S. Bernardo nel XXXIII del Paradiso? Sarebbe sí pertinente, ma il confronto si concluderebbe con un verdetto di parità.

Nemmeno appare del tutto fondata e dirimente la considerazione – fatta dal fratello Carlo – che Dante ha voluto occuparsi di tutto, quindi di troppo,[28] e che il suo poema è un enorme campo, nel quale al grano è mescolata troppa erba cattiva e sterile;[29] analoghi criteri di valutazione potrebbero essere applicati al Boccaccio, del quale si accennano taluni limiti di “convenienza” e di “giudizio”, e tuttavia il recupero globale avviene in nome dello stile buono e «leggiadro».[30] Ma si pensi – giusto per ricorrere ad un esempio – alla frequentatissima (da noi almeno) novella di frate Cipolla, nella quale Guccio Imbratta, dopo aver adocchiato la Nuta «grassa e grossa e piccola e mal fatta e con un paio di poppe che parean due ceston da letame, e con un viso che parea de’ Baronci, tutta sudata, unta e affumata»,[31] scende a lei «non altramenti che si gitta l’avoltoio alla carogna»: lo stile ci sarà pure, ma è quello inesorabilmente “comico” che a tale racconto si addice. Né la rassegna delle di lei venustà è compiuta, perché probabilmente il pezzo forte (ammesso che il precedente possa in qualche modo esser considerato “lieve”) trovasi nell’immediato prosieguo, dove – se mai ce ne fosse bisogno – lo “scavo” nei particolari del disgusto continua, descrivendo, con la sufficiente abbondanza, «un suo cappuccio, sopra il quale era tanto untume che avrebbe condito il calderon d’Altopascio», «un suo farsetto rotto e ripezzato, e intorno al collo e sotto le ditella smaltato di sudiciume, con più macchie e di più colori che mai drappi fossero tartareschi o indiani», «le sue scarpette tutte rotte», e «le calze sdrucite»: la sinergia di valori visivi, olfattivi e tattili è compiuta, con il risultato di portarci – se leggiamo con la dovuta riflessione – quasi al vomito. Ancora una volta vien da pensare alla famigerata «scardova»: trovarcene una in quella specie di porcilaia che è la cucina di quell’ostello! Forse la presenza di quel povero pesce avrebbe potuto contribuire a trattenere i nostri conati! E, in ogni caso, al di là delle battute, posto che anche in Boccaccio riscontriamo un’equilibrata alternanza di livelli “alti” e di livelli “mezzani”, non si comprende bene perché ciò che si scusa e copre in quest’ultimo (e che lo differenzia nettamente dal Petrarca) non può trovare giustificazione alcuna per Dante, a meno che non si voglia del tutto espungere dalla letteratura lo stile “comico”. Il che costituirebbe – lo si comprende bene – pura follia. Né sarebbe in qualche modo accettabile il poter nemmeno presumere che il Bembo fosse una specie di sprovveduto, malamente addentro alle cose letterarie e ciabattante in cotal guisa.

Quella specie di attacco frontale portato a Dante può trovare – a mio avviso – una prima giustificazione considerando quanto il pubblico rinascimentale poteva leggere in Gian Francesco Fortunio. Le sue Regole grammaticali, pubblicate – con forte anticipo su tutti – ad Ancona nel 1516, “prima volgare grammatica” secondo la dichiarazione dell’Autore stesso,[32] risultarono – com’è noto – sempre ostiche al Bembo, che, vuoi per ragioni di primato personale,[33] vuoi per altri piú fondati motivi, non riuscí mai ad accettarle. In esse l’operazione di cernita eseguita sui testimoni letterari – al fine di ricavare quelle “regole” che, appunto, solo una tradizione letteraria può dare – era stata condotta in modo da creare una sorta di persuasiva equipollenza stilistica tra il Petrarca e Dante, sia attraverso le affermazioni contenute nel Proemio – dove si enuncia tranquillamente e si prende atto che tutti i talenti d’Italia, di qualunque zona siano nativi, se vogliono comporre rime, assorbono il piú possibile lo stile di Petrarca e di Dante,[34] e dunque con parole toscane verseggiano –, sia attraverso lo sgranarsi degli esempi o testimonianze offerte volta per volta a corredo della sua esposizione dei principî. è vero che il Fortunio riconosce (se cosí si può dire) che della grammatica il Petrarca è stato «diligentissimo osservatore»,[35] mentre a suo dire Dante è stato «molto nelle rime licenzioso»,[36] tuttavia non solo questo giudizio è, in certo senso, viziato da carenza di sensibilità ritmica e da pressoché totale ignoranza del concetto di «licenza poetica», ma anche quando si tratta di operare delle scelte, a favore o contro l’uno o l’altro, sostanzialmente prevale in lui l’atteggiamento di sottomissione all’auctoritas di quei due grandi padri delle lettere italiane. Cosí, se su «fummo» e «fumo» opta per la scelta scempia di Petrarca e critica invece le geminazioni dantesche,[37] in un altro caso, sempre discutendo di scempie e di geminate (Bacco, Baco)[38] porta gli esempi di Petrarca prima (Bacco) e di Dante poi (Baco), ma non decide e rispetta paritariamente i due autori.[39] Vero è ben che tale rapporto “paritario” è per lo meno coonestato da scelte stilistiche “pertinenti”, nel senso che egli cita non solo dall’Inferno, ma anche dal Purgatorio e dal Paradiso, e, inoltre, preleva materiale interessante anche dalla Vita Nuova e dal Convivio: insomma, se può, riesce ad attuare un confronto appropriato di livelli stilistici, la qual cosa non poteva non avere il suo peso nel confermare l’autorevolezza del modello dantesco, associato pari pari a quello petrarchesco e boccacciano. Con tale precedente doveva il Bembo confrontarsi nel 1525, anno della prima edizione a stampa delle Prose.

Ma noi sappiamo che una buona e rilevante parte dell’opera era già composta e circolava manoscritta intorno al 1512-13, tant’è vero che ci è rimasta una sua lettera che accompagna l’invio all’amico Trifone Gabriele di copia dei primi due libri, con la quale lo prega di leggere criticamente quanto finora composto,[40] segnalando senza risparmio tutti gli errori, e lo invita, inoltre, a non trascriversi esemplare alcuno,[41] perché è arciconvinto che mutamenti e cambi saranno in continuazione apportati in moltissimi passi. I fondamenti teorici sono impostati proprio nei primi due libri, e quindi sarà lecito supporre che la questione “dantesca” fosse già allora a lui presente, prima, quindi, che le Regole del Fortunio circolassero a stampa per l’Italia. E se dunque fa dire al fratello Carlo che la lingua delle scritture non deve accostarsi a quella del popolo,[42] sempre mutante e per giunta già assecondata dai dicitori di piazza e dai menestrelli, a meno che sia in condizione di non perdere né gravità né grandezza; che, in aggiunta, è ben piú importante riuscire a far giungere il messaggio alle generazioni successive, senza curarsi di piacere ai contemporanei e mettendoli tranquillamente in non cale, lavorando con questo per l’eternità, o per lo meno in funzione del ricordo trasmesso ai secoli successivi; e se, nel citare per la loro perfezione stilistica Omero, Virgilio, Demostene, Cicerone – i quali sono stati certamente dal popolo capiti e intesi, ma hanno sempre altresí ragionato in maniera personale ed eccelsa, sicuramente non adagiandosi sulle voci popolari – associa ad essi Petrarca e Boccaccio, con la precisazione che questi ultimi non hanno affatto ragionato con la testa o con la bocca del popolo, si può tranquillamente assentire per il Petrarca, ma non si può non ricordare, proprio a quest’ultimo proposito, che Chichibio parla in veneziano, che Currado Gianfigliazzi, «nobile cittadino, liberale e magnifico», nell’apostrofare il cuoco gli rivolge un secco «Che ti par, ghiottone?»[43] (e non si vede come altrimenti avrebbero dovuto esprimersi, non concedendo la circostanza e il luogo occasione alcuna per un parlar “grave” o paludato), che, infine, a tacer d’altro, anche «messer Geri Spina», nel momento in cui deve semplicemente rivolgere una domanda all’oste che sta esibendo un «orcioletto bolognese nuovo del suo buon vin bianco e due bicchieri che parevan d’ariento, sí eran chiari», senza tanti fronzoli o preoccupazioni d’eleganza condecente al suo status, gli si rivolge direttamente con un «Chente è, Cisti? È buono?».[44]

Dunque, a voler essere obiettivi, pure in Boccaccio troviamo – e non possiamo non trovare – elementi tratti dal linguaggio “parlato”, vale a dire stilemi pertinenti al livello “comico”, in questi casi usati, forse, con stile buono e «leggiadro», e tuttavia inespungibili dalla ricchezza complessiva del Decameron. Insomma, Bembo si guarda bene dall’indicare come modelli solo 49 novelle, ed è tutta la raccolta a funzionare come exemplum, sia pure con quelle riserve che – a mio avviso – alludono piuttosto a certi episodi “scandalosi” e sessualmente “licenziosi”; nondimeno l’irritazione del patrizio veneziano si appunta – per Dante – su alcune parole come «scardova», «biscazza» e «stregghia» che, fra l’altro, fino al Cinquecento compaiono una sola volta nei testi letterari italiani (con l’eccezione di «stregghia», la quale ricompare, non per caso, in Burchiello e Berni), e sono hapax in Dante stesso, e che dunque non possono essere assolutamente considerate pietre di futuri scandali. Ma è, per l’appunto, vera irritazione? E se tale deve essere considerata, dove andrebbe a finire la coerenza personale e la stessa struttura intellettuale del Bembo, considerato il fatto che della debolezza di simili obiezioni lui per primo non poteva non rendersi conto?

Per la verità, a voler cercare con attenzione e sottigliezza (soprattutto sottigliezza), qualche indizio significativo si trova: per esempio, nel Prologo al II Libro,[45] in cui l’Autore stesso, rivolgendosi ancora una volta al cardinale Giulio, riconosce l’eccellenza di Dante – definendolo incontestabilmente «grande e magnifico poeta», che ha dato un contributo notevolissimo alla crescita del volgare letterario, lasciandosi, e di molto, indietro gli altri. Se poi fu il Petrarca a esprimere tutte le grazie della poesia volgare, e infine il Boccaccio, che si rivelò nato per la prosa, e se dopo di questi due nessun altro è riuscito a toccare quei vertici, l’affermazione viene certamente usata per vituperare il secolo presente[46] – nel quale pure la lingua latina è tornata a splendere come ai suoi aurei tempi – e per invitare i contemporanei affinché scrivano in volgare, lingua nella quale si ragiona, purché sia un volgare elegante ed alto, i cui supremi punti di riferimento debbono essere costituiti esclusivamente da quelle due corone fiorentine; tuttavia in questo passo la funzione “essenziale” e insieme “monumentale” svolta da Dante non è affatto negata, né sottovalutata.[47] Trattasi però di un prologo, nel quale il Bembo parla direttamente al suo dedicatario, mentre i punti salienti del dibattito, condotto dai personaggi che si ritrovano a “questionare” nel palazzo patrizio di Venezia, su Dante esprimono una condanna ed un distacco nettissimi. E allora? A quale dei due Bembo si deve prestar fede? all’autore Pietro o al fratello Carlo (l’amatissimo fratello Carlo pieno di attenzioni e di amore per Pietro,[48] che si prendeva carico di tutti gli affanni, e al diletto congiunto concedeva cosí lo spazio e il tempo necessari per l’ambito ozio culturale), che in quella costruzione letteraria assume la funzione di portavoce delle idee‑guida? E Pietro, alla fin fine, costruisce presupposti ai quali aderisce con convinzione, oppure vi si piega – pur essendone l’artefice – obtorto collo?

La questione non è semplice, ed è per di piú complicata dal fatto che Bembo e Castiglione congiuntamente, i due maggiori trattatisti del nostro Rinascimento (e, forse, non soltanto loro due), compiono la scelta di esprimersi – pur mantenendo taluni dissensi – attraverso un parlare coperto. Ci sono delle lettere che testimoniano la stima del Castiglione per il Bembo, e insieme le rinnovate richieste di un giudizio sul Cortegiano,[49] nonché suggerimenti per emendarne gli eventuali errori. Ma c’è, soprattutto, una grande affinità nell’affrontare – in entrambe le opere – i passaggi piú spinosi e delicati, fra i quali si colloca proprio la questione della lingua.

Se può rinvenirsi, nelle Prose, un passaggio apertamente polemico, esso è dedicato proprio alla teoria “cortigiana” e al Calmeta che la propugna,[50] con vigorose contestazioni mosse tanto dal Magnifico Giuliano quanto da Trifone Gabriele, pervenendo in fine alla conclusione secca che non solidi argomenti sono quelli del Calmeta e di tutti coloro che sostengono simile tipo di lingua come modello.[51] Piú “sinuosa” è la condotta di consimile disputa nel Cortegiano, anche perché (o soprattutto perché) è proprio in direzione del Calmeta che Castiglione si schiera, facendosi rappresentare da Ludovico da Canossa.

L’ideale di “misura” non può mai in nessun momento essere tralasciato, e dunque se si vuol “ben” parlare, bisogna evitare sempre l’affettazione, e fuggire il malo esempio di taluni Lombardi i quali, dopo un breve periodo di soggiorno all’estero, acquisiscono l’abitudine di inframmezzare nei loro discorsi parole ora romane, ora francesi, ora spagnole, ora “altre”.[52] Quel che viene qui criticato è, ovviamente, l’eccesso, per cui ciò che dovrebbe costituire piacevole “eccezione” diventa all’opposto sgradevole e pesante “abitudine”; tuttavia Federico Fregoso oppone che, nel parlare, non sarebbe forse buona cosa usare le parole toscane antiche, poiché sarebbe segno di affettazione;[53] viceversa, nello scrivere, il loro uso sarebbe commendevole, poiché esse darebbero agli scritti quell’autorità e quella gravità di cui ogni scritto abbisogna. Obietta a sua volta il Conte che appare cosa ben bizzarra usare negli scritti ciò che si evita nei parlati,[54] essendo la scrittura testimonianza di ciò che si ragiona e dice, la quale ha il pregio di tramandarsi nel tempo (dunque – ciceronianamente – vita e memoria delle parole): per questo motivo deve essere certamente piú limata e sorvegliata, ma non al punto di discostarsi da quel che “effettualmente” si pensa e si dichiara; si tratterà allora – ancora una volta – di selezionare le piú belle e rilevanti delle espressioni “in uso”, tenendo però ben fermo che non deve esserci iato alcuno tra bel parlare e bello scrivere. Pertanto sarebbe da lodare colui che, oltre a fuggire gli anacronismi ormai desueti (cioè gli arcaismi “toscani”), impiegasse nella sua espressione, scritta e parlata, le parole piú belle e piú graziose che hanno acquisito diritto di cittadinanza e in Toscana e in altri luoghi della italica penisola.[55] Ribatte Federico che la lettura è, e deve essere, cosa impegnativa, per cui qualche parola o passaggio difficile non solo non guasta, ma addirittura stimola il lettore e lo mantiene sollecito nello sforzo di comprendere.[56] Ecco perché l’antico toscano è preferibile, in quanto è pregno di quella maestà derivante dal tempo, e solo cosí si dona allo scritto la grazia e la venerazione necessaria.[57] Aggiungasi che tante parti d’Italia sono, pur nella equivalente nobiltà loro, tra loro diverse assai, e non sarebbe invece equivalente impiegare negli scritti il bergamasco al posto del fiorentino! Meglio è dunque, a fugare ogni dubbio, prendere il Petrarca e il Boccaccio come modelli[58] – e di Dante non si fa qui parola alcuna. Successivamente Ludovico, nel ribadire la propria posizione, concede al toscano letterario i meriti che gli competono, e aggiunge che tali meriti sono stati acquisiti per merito di tre nobili ingegni letterari, dei quali menziona solo il Petrarca;[59] piú avanti precisa meglio il senso dell’eclettismo “moderato”[60], e conclude ritenendo che Petrarca e Boccaccio, se fossero vivi, aggiornerebbero la lingua usata nei loro scritti[61] (e sconsiglierebbero chi pedissequamente li imita): di nuovo compaiono le punte di diamante del magistero letterario fiorentino, e il nome di Dante ancora una volta non c’è. Il dissenso dalla posizione del Bembo è tanto netto nella sostanza quanto attenuato negli argomenti usati:[62] soprattutto c’è il silenzio su Dante, che non è forse una rimozione, ma è senza dubbio un segno di cautela. Per altro, se Pietro è alquanto severo nel togliere valore alla contemporaneità, invitandola a guardare al lontano passato[63] “imitandolo”, Baldassar, nel contestare la rigidità del principio “imitativo”, considerato costrizione dell’umano ingegno, che in quella camicia di forza non bene si esprime, e inoltre contributo – nel momento in cui soffoca le capacità innovative – all’impoverimento e al deperimento della lingua stessa che viene imitata, suggerisce di sviluppare e ampliare il patrimonio consegnatoci da Petrarca e Boccaccio, e dare credito ad altri autori piú recenti – sempre toscani – come Poliziano e Lorenzo il Magnifico,[64] invece di ritenerli inferiori a quei sommi. Il pensiero dei due è qui alquanto distante, e tuttavia quel che li avvicina (che vuole mantenerli avvicinati) è il grande rimosso, il quale occultamente sembra reggere le fila di questo discorso: se si esalta l’innovazione e la capacità creativa e ricreativa del letterato e del poeta, come si fa a trascurare la grande lezione offerta – in questo specifico campo – proprio da Dante? Ed un’ulteriore sorpresa ci attende proseguendo la lettura, quando cioè si scopre che è presente, in quella folla di nobili anime, anche il Calmeta,[65] che però nella discussione sulla lingua non ha proferito verbo (!), come se la cosa non lo riguardasse: se l’insieme degli elementi qui riportati non configura un evidente caso di espressione coperta, non so come altrimenti si potrebbe definire.

Ma rimozioni e coperture costituiscono in entrambi gli autori elementi sintomatici di una scelta di costume e di civiltà considerata in quel momento come la piú preziosa e la piú produttiva, a tal punto che anche le divergenze individuano quel modo come l’unico possibile per coesistere uniti, e dissentire in maniera dialogicamente costruttiva e non polemicamente disgregativa. Se ci si sforza di rilevare elementi comuni nei due massimi trattati del primo Cinquecento, si rimarrà colpiti nel constatare che proprio sui temi piú caldi e delicati le cautele poste in atto sono straordinariamente simili, e che su tutto domina la preoccupazione di pacificare gli animi, dopo averli allertati, ma senza portarli all’esasperazione. Per restare al Cortegiano, la disputa sulla lingua, continuata tra Federico Fregoso e Ludovico da Canossa, tra il fautore dell’imitazione “ciceroniana” di Petrarca e Boccaccio,[66] e colui il quale sta dalla parte del “pensiero” come valore determinante, di contro alle “parole”, esaltate come qualificanti dall’altro,[67] viene chiusa da Emilia Pia, che ne rileva la lunghezza e la fastidiosità, e suggerisce di rimandarla ad altro tempo.[68] Il tirarsi per i capelli rischia di nuocere, anche perché (soprattutto perché) non c’è modo di conciliare due punti di vista al momento assai distanti.

Non è solo questione di bon ton: se è vero che le cavillazioni rischiano di annoiare, è altrettanto vero che lo scontro frontale rischia di ferire, specialmente quando non è in grado di produrre soluzioni e alternative concrete. Lo stesso trattamento è riservato al punto dolente della crisi contemporanea dell’Italia (come paese intero e come singole istituzioni), che per ben due volte si affaccia nel discorso, dà luogo ad alcune amare, talvolta pungenti considerazioni, dopodiché si preferisce tornare alla piú distensiva dissertazione principale, quasi che essa in sé avesse il pregio di far per lo meno diminuire il disagio quotidianamente vissuto. Nell’un caso si replica alle deprecazioni del Machiavelli (senza mai farne il nome, beninteso),[69] nell’altro si giunge a coonestare paradossalmente lo strazio inferto dagli stranieri agli Italiani, suggerendo che la colpa è di chi subisce un processo di decadenza senza frapporvi una reazione:[70] in ambedue i casi, tuttavia, il discorso accennato viene subito lasciato per non apportare gravezza e fastidio[71] (e, aggiungo io, quel filo di disperazione che è sempre dotato di enormi capacità corrosive).

Quasi il medesimo calamo sembra usato dal Bembo in uno dei pochi passi in cui si fa menzione della crisi storica e politica in cui l’Italia sta precipitando. Parla il Magnifico Giuliano, e auspica che l’antico barbaro servaggio non abbia piú a rinnovarsi, per quanto gli Italiani d’allora fin troppo si adoperino per scontrarsi fra loro, e per cedere parti del nostro italiano patrimonio ora alla Francia ora alla Spagna;[72] è il mondo ch’è «guasto», e lo si vede dal fatto che ciascuno, dimentico dell’antico valore, attenta al patrimonio altrui per goderselo da solo, né si perita, per raggiungere tal fine, di chiamare al soccorso personale gli stranieri aizzandoli contro il proprio stesso sangue. Lamentele fondate – commenta Ercole Strozzi – però sterili e improduttive,[73] e dunque è meglio proseguire a dissertar della lingua, attraverso il quale dibattito si ha comunque modo di affondare il coltello nella piaga, ma per ragioni di stile e di letteratura, seguendo le quali, e pungolando “qualificati” gruppi minoritari, si può sperare di incidere sulla coscienza degradata dei piú. È il nucleo del discorso di Carlo Bembo. Non è la moltitudine degna di consacrare alcunché, ma soltanto pochissimi uomini, colti e rettamente pensanti, che non del parere della folla si curano, ma soltanto del proprio fondato criterio di valutazione. Dunque per queste minoranze “esemplari” bisogna scrivere, e scrivere bene, poiché esse successivamente riusciranno a sviluppare il pensiero tramandato ed eventualmente contribuiranno anche a diffonderlo.[74] Tale affermazione può essere in via di principio attenuata, ma va rilanciata con forza ogniqualvolta il presente si sviluppi gramo e miserando, e avvenga che quel che si trova nelle scritture degli antichi sia migliore di quel che i contemporanei sono in grado di produrre. Tutte le volte che il passato si presenta qualitativamente migliore del presente, ad esso bisognerà ispirarsi trascurando la contemporaneità; per cui scegliendo di imitare il Boccaccio e il Petrarca si può far molto meglio che seguendo l’inconsistente modello attuale,[75] e si sa che essi scrissero ed elaborarono meglio di chiunque altro oggi presuma di affacciarsi alla ribalta delle lettere. Anche in questo caso, cosí come per il Calmeta, la polemica è forte, quasi aspra, però investe direttamente il mondo delle lettere, non la società civile, e tanto meno la struttura della corte: semmai aggredisce frontalmente il povero Dante, e tuttavia con argomenti fragili e non pertinenti; nell’altro caso Dante non è addirittura mai nominato dal Castiglione nel corso di tutta l’opera sua. Per entrambi, con gli opportuni distinguo, tra chi auspica che si riguadagnino celermente vette a suo tempo frequentate, e chi concede qualche cosa di piú alla creatività del presente, è bene scrivere in volgare, avendo come punto di riferimento, rigido o elastico, quello della tradizione regolata fiorentina. E ritroviamo in entrambe le opere, quasi fosse una specie di Leitmotiv, la soddisfazione espressa da Giuliano de’ Medici per il tributo offerto al primato della lingua toscana.

Non sarebbe ragionevole, afferma nel Cortegiano il magnifico Giuliano de’ Medici, in un sobrio e pacato intervento, da parte sua impugnare l’opinione di chi celebra il primato della lingua toscana;[76] e, nelle Prose, sempre il medesimo Giuliano si dichiara comunque “soddisfatto”, quale che sia la posizione destinata a prevalere, poiché, se “esemplare” viene proclamato il fiorentino moderno, la centralità dell’Arno e suoi dintorni è ribadita senza titubanza alcuna, e se anche si loda il fiorentino antico, sempre di “fiorentino” si tratta, e l’onore in ogni caso ridonda alla “patria” sua Firenze.[77] Ma non è Giuliano – per l’appunto – colui che tale eccellenza esalta, né senso forte avrebbe avuto che un Medici perorasse una causa cosí vistosamente inclinata pro domo sua: piuttosto risulta estremamente significativo, ed anche “politicamente” rilevante, che siano Adria e Liguria (a suo tempo, nel secolo di Petrarca, cosí divise e pugnaci) a convergere e a trovarsi concordi nell’additare qualcosa di profondamente condiviso agli Italiani, tant’è vero che, nel I libro, Carlo Bembo chiama a sostegno della sua tesi la voce di Federico Fregoso, e nel II libro è proprio Giuliano il Magnifico a chiedere di essere sostenuto dagli esempi e dagli argomenti di Carlo Bembo e Federigo Fregoso per seguitare a ragionare della lingua letteraria piú confacente.[78] Firenze, dunque, al centro della Penisola, che attrae e governa l’equilibrio e la concordia ideale degli Italiani, conciliando Alpi e Appennini, Tirreno e Adriatico, senza che possa in alcun modo scattare una reazione o un’emulazione, essendo parimenti i Fiorentini costretti a guardare, non beatamente se medesimi, ma quel loro glorioso passato che da essi pure deve essere recuperato. Cosí facendo, tutte le potenze italiane del tempo vengono messe sullo stesso livello, vengono cioè perequate dalla distanza verso il passato che è uguale per tutte, e che insieme chiama ed incita ad uno sforzo comune, in nome di quei valori di civiltà e di cultura che altri – non gli Italiani – stanno travolgendo, e che semmai agli Italiani spetta salvaguardare e riproporre con severa compattezza.

Il progetto è indubbiamente affascinante, politicamente ineccepibile, quasi “coercitivo” per le coscienze piú sensibili ed avvertite, quelle degli intellettuali, che non a caso su siffatte posizioni si attesteranno per qualche secolo in futuro. Resta da chiarire, però, perché Dante in questa visione d’assieme cosí costruttiva non possa stare, e dia anzi quasi fastidio, specie ove si tenga conto della stima e del prestigio a lui riconosciuti – in strettissimo e ideale collegamento con le altre due “glorie” fiorentine – fin dai primi umanisti, e segnatamente dal circolo fiorentino stretto attorno a Coluccio Salutati, di cui dà testimonianza Leonardo Bruni attraverso le parole di Niccolò Niccoli.[79] Sono fiorentini, o comunque toscani, coloro che hanno un forte interesse anche “patriottico”, e non solo culturale, a tenere alto il vessillo della poesia “volgare” in un contesto dove il latino è considerato la lingua “principale”, ed è ancora un fiorentino illustre, Leon Battista Alberti, a spingere affinché la ricchezza espressiva e poetica del volgare non vada dispersa, ma venga ripresa ed ampliata, sia per recare giovamento ad un maggior numero di persone,[80] sia perché, a suo giudizio, la tradizione letteraria fino a quel punto stratificata si dimostra ricca ed eccellente, e, pur essendo l’antica lingua latina un serbatoio di ricchezze e occasioni espressive, non c’è motivo alcuno per disprezzare la moderna lingua toscana. Anzi, dopo essersi assunto l’onere di sistemare a tavolino, nero su bianco, una prima «grammatichetta» della lingua toscana, non per caso, nella conclusione dell’opera, loda Dio per avere avuto egli (e assieme a lui tutti coloro che ne sono interessati) la possibilità di ricavare e ordinare i principî primi della «nostra» lingua, di qualcosa cioè che costituisce patrimonio condiviso di una città, di una regione, e del contributo storico dalle medesime alla civiltà elargito, e invita, conseguentemente, i concittadini a onorare con tale mezzo la comune patria, fidando nel fatto che il “nuovo” latino possa essere rappresentato dal “volgare” di Toscana, del quale si può finalmente esibire una regola, che ne dimostra l’ordine e ne attesta la solidità storica.[81]

La prospettiva si modifica nel secolo successivo, specialmente perché, scricchiolando non poco la situazione generale dell’Italia tutta, il richiamo all’unità e all’armonia di intenti passa anche attraverso una precisa proposta di impegno culturale, che veda al centro dell’attenzione, delle cure, e dell’onore comune non piú una singola “patria”, che pacificamente compete con le altre, ma l’intera nazione italiana, ovverosia quel tessuto fitto di intrecci culturali, politici, storici e civili, che copre quel che Dante chiamava «giardin de lo ’mperio»[82] e Petrarca con eleganti versi latini definiva «chara Deo, tellus sanctissima».[83] Si può tranquillamente dire che sono non‑fiorentini coloro che con maggior forza si fanno carico di tale problema, e che sono con grande proprietà ritratti sia nelle Prose che nel Cortegiano, e tuttavia ad un fiorentino si rivolgono, e perché appartenente a prosapia illustre, per meriti politici ed anche culturali, nonché parente di ben due papi (e cruciali entrambi: Leone X e Clemente VII) da quella casata espressi, e soprattutto perché sarebbe impensabile, in un processo di cosí alta ricomposizione, fare a meno di Firenze. Forse proprio qui sta la chiave del problema, nel senso che riconoscere il magistero dei Fiorentini e considerarli come la fucina ideale per temprare il linguaggio delle lettere, deve comportare che i Fiorentini medesimi si riconoscano in detta fucina, vi si muovano a proprio agio, e non giungano mai ad avvertirla come possibile labirinto di inghippi ed inganni. La cosa si renderebbe possibile – addirittura probabile – qualora, come parte integrante della lega da malleare, fosse accreditato anche Dante, in quel frangente storico soprattutto.

Lumi derivano dalla lettura del Discorso del Machiavelli, del quale è nota l’enfasi “petrarchesca” posta a suggello delle pagine finali del Principe, mentre a supporlo affine per temperamento e carattere al grande «Exul immeritus», saremmo certamente nel giusto, ma sbaglieremmo ad estendere queste affinità anche al gusto letterario, condizionato da ben precise – e diverse – scelte politiche e patriottiche.

Per chiarire: la tradizione del “patriottismo letterario” fiorentino non si attenua affatto nel Cancelliere, e tutta l’opera presa in esame si muove all’insegna dell’esaltazione di una leadership che sola Firenze in Italia può vantare, considerato che le provincie rilevanti sono non più di cinque (Lombardia, Romagna, Toscana, Terra di Roma e Regno di Napoli), caratterizzate da favelle assai diverse,[84] sprovviste di una degna tradizione letteraria (al punto che anche letterati provenienti da quelle terre usano il toscano perché migliore e piú acconcio alla scrittura),[85] addirittura talvolta contraddistinte da un parlare barbaro che rasenta la bestemmia.[86] Non spira irenismo da queste pagine del Machiavelli, e si comprende anche da ciò il motivo di una famosa “esclusione”. Nondimeno, nel momento in cui è proteso nello sforzo di ribadire una posizione di preminenza, quando si rifà agli esordi delle nostre lettere è d’obbligo per lui richiamare le famose tre Corone[87] come vertici di uno sviluppo messo in movimento da scrittori essenzialmente “fiorentini” (con l’eccezione di un bolognese, un aretino e un pistoiese).[88] Quell’operazione di forgiatura della lingua è stata possente, a tal punto che coloro i quali vogliono seguitare in tale lavoro, per onorare quell’idioma che essi coltivano e amano, debbono seguitare a plasmare in fiorentino i forestierismi, riconoscendo tuttavia che la loquela che cosí viene arricchita ed innovata sempre fiorentino rimane e non diventa per questo lingua altra:[89] su questo si articola principalmente il dialogo simulato con Dante, per costringerlo ad ammettere che quella benedetta lingua “curiale” di cui fa cenno è in realtà fiorentino puro, non cortigiano.[90] Su questo aspetto sembra concentrarsi l’intero dibattito, a sostegno di quella tesi – discussa e rigettata dal Bembo, ed anche dal Castiglione – che vede con favore il fiorentino parlato, quindi vivo e “contemporaneo”, come base per qualunque elaborazione letteraria vogliano fare gli Italiani di qualunque contrada. E tuttavia, pur volendo far tralucere la “fiorentinità” di Dante, a maggior gloria della comune patria Firenze, proprio su alcuni aspetti tutt’altro che secondari Machiavelli appunta le sue critiche ed i suoi strali.

Poiché Boccaccio afferma esplicitamente di aver composto in volgare “fiorentino”, e Petrarca non si è mai pronunciato in proposito,[91] essi non debbono essere discussi, essendo l’uno dichiaratamente fiorentino e l’altro “neutrale”;[92] su Dante però, che sostiene di aver usato una lingua “curiale”, merita soffermarsi: e con il pretesto della questione linguistica fioccano le censure. Pur riconoscendo esser egli stato quasi in ogni sua cosa uomo eccellente, per ingegno, cultura, gusto, gli rimprovera ciononostante di aver mancato gravemente nei confronti della patria sua, ingiuriandola, infamandola, sparlando di lei e dei suoi cittadini; e non limitò le sue offese a qualche parte isolata della Commedia, ma la infarcí tutta di spirito di rivalsa e di contumelie, tanto si ritenne offeso dal verdetto dell’esilio, e tanto per l’intera sua vita perseguí il sogno di una vendetta. Firenze – giunge a dire Machiavelli – ha davvero allevato una serpe nel suo seno; e tuttavia la sorte, che benignamente l’ha fatta prosperare, ha smentito le calunnie di quel suo pur illustre cittadino, e ha messo a nudo le sue menzogne, tanto che ora essa è la piú celebre delle province cristiane, a disdoro di quel figlio ingrato che, per portare all’estremo l’ingiuria alla sua patria, volle persino rinnegare la lingua nativa, sforzandosi di dimostrare che non fiorentina era la favella che sosteneva il suo elevato stile. A ciò abbassandosi, Dante ha infirmato la sua stessa costruzione, e poco credito finiscono con l’avere le sue “trovate”, come i Fiorentini condannati tra i ladroni, Bruto in bocca di Lucifero e persino Cacciaguida nel Paradiso: insomma, le colpe di Dante verso Firenze sono gravi a tal punto da farlo ritenere un mentecatto, degno di essere espulso.[93] Non si tratta di impeti stravaganti dettati da cattivo umore. Tutta l’opera è ispirata da amor patrio, tant’è vero che ciò è proclamato chiaramente fin dall’esordio, nel quale un rilievo adeguato meritano coloro che hanno il torto di rivoltarsi quando dalla patria patiscono ingiustizie e affanni. Per quanto da essa possa essere stato offeso, chiunque nel sentimento e nelle azioni opera contro la patria sua può a buon diritto essere definito “parricida”. Nefasta cosa è non onorare o addirittura il battere la propria madre e il proprio padre: è pertanto cosa sciagurata ledere la propria patria, dalla quale mai si patisce offesa tale da meritare risposta tanto colpevole. È inoltre la patria colei che ti definisce e ti sostiene, e, quand’anche decida di esiliarti (il che può capitare), sempre somma è la riconoscenza che a lei devi, perché sacra a te deve essere quanto sacro è Iddio, e la sua difesa contro ogni nemico o detrattore è dovere supremo, civile, morale e religioso.[94] Da questi forti e “sacrali” presupposti scaturiscono le critiche, non personali ma patriottiche, rivolte a Dante, il quale piano piano finisce per diventare quasi il nemico primo di Firenze, tanto materiale ha accumulato – nella sua pur meritoria opera – per fornire di miccia i di lei avversari. E la questione delle “cadute” nelle asprezze del parlato appare qui con palese evidenza: non si tratta – per il Machiavelli – di alternanze di stile, si tratta di vere e proprie macchie che deturpano la patria, perché le oscenità, che pure Dante non si è risparmiato, disonorano l’intero poema, gettando infamia anche sul parlar materno, che per l’appunto è fiorentino.[95]

Quale che sia la data di composizione del Dialogo,[96] è da presumere che esso rifletta opinioni e giudizi in Firenze circolanti. Stando cosí le cose, è evidente che, per mantenere un equilibrio in cui anche i Fiorentini potessero fare la propria parte, era necessario che qualunque arma contro di loro venisse preventivamente spuntata: era cioè necessario espungere Dante dal canone letterario, poiché i suoi concittadini per primi, in quel clima teso di forti rivalità e competizioni (per l’egemonia, per le contese territoriali, per il Papato), avevano ritenuto conveniente ripudiarlo. Né desta la cosa meraviglia, se si ricostruisce, anche solo in parte, il fitto mosaico di contrapposizioni che hanno marchiato la cruenta storia d’Italia dopo la calata di Carlo VIII e i primi decenni del Cinquecento, contrapposizioni nelle quali ognuno ha la sua parte, e non piccolo è il ruolo ricoperto – fra gli altri – oltre che da Firenze, anche da Venezia e Genova (i cui portavoce animano da protagonisti, non per caso, le opere di cui qui ci si occupa).

L’inimicizia tra Firenze e Venezia è un fatto che già insanguina la politica italiana prima del 1505, quando Ercole d’Este riesce a portare a termine una mediazione, per altro non risolutiva né foriera di futura pace.[97] Ma le manovre delle potenze italiane si intrecciano perversamente anche con le battaglie che i Fiorentini debbono sostenere per mantenere la supremazia sulla Toscana, scontrandosi con Pisani e Lucchesi, dietro i quali si erge l’ombra minacciosa di Genova,[98] e ancora con i Senesi, dai quali li divide un «odio antico».[99] Né le fortune dei Medici – piú italiane che fiorentine, almeno fino agli anni ’30-40 – costituiscono salvaguardia o usbergo sufficiente, semmai rappresentano un pericolosissimo innesco di potenziali aggressioni, qualora le sorti in Roma cangino per leggi naturali, e l’eventuale successore di un papa Medici abbia in animo di presentare alla patria del pontefice defunto il conto per le operazioni di nepotismo portate dal predecessore a buon fine.[100] E ancora nel 1529 la pace da poco conseguita è considerata un bene per tutta Italia, ma un male proprio per Firenze.[101] Per quanto noi si abbia una visuale dei fatti – considerati storicamente rilevanti – diversa, gli uomini di allora con queste mosse si misuravano sulla scacchiera d’Italia, considerata comunque ancora il centro della cattolicità; e il verminaio scoperto da Carlo VIII, con i Veneziani impugnati da quasi tutti gli altri potentati d’Italia,[102] avrebbe seguitato a brulicare negli anni a venire, quando «crudelissimi accidenti, infinite uccisioni, sacchi ed eccidi di molte città e terre» avrebbero steso un pesante velo di empietà e di incapacità politica[103] sulla sorte della penisola tutta, e nemmeno i papi (passi per Giulio II,[104] ma addirittura il supremo mecenate Leone X)[105] sarebbero riusciti a sottrarsi alla logica perversa della violenza e dell’eccidio, contribuendo, da par loro, a esacerbare e squilibrare gli animi e le coscienze.

Dopo questa rapida, e necessariamente sommaria, ricognizione storica, si capisce meglio quanto fosse costoso, ma altresí necessario, il parlar coperto di Castiglione e di Bembo, e insieme perché tanto l’uno quanto l’altro, dopo un breve[106] ma incisivo accenno ai mali della contemporaneità, portino gli interlocutori a parlar d’altro. Il mondo era «guasto», ed era sufficiente il menzionarlo, grondando un po’ quasi tutti gli Italiani di ferite inferte da fraterna mano. Se gli uomini – scrive il Bembo negli Asolani – avessero l’animo altamente proteso verso i valori eterni, il vivere sarebbe molto piú dolce e piú bello di quello che invece risulta nel momento in cui le cure del corpo (cosí riscontrava in quei frangenti) sovrastano quelle dell’anima, rendendoci meno degni della nostra umanità.[107] Solo pensando ai valori “veri”, celesti e non caduchi, ci si trova completamente appagati, perché nell’oltremondo mancano tutte le miserie e i crucci terreni, mancano le meschine rivalità proprie dei mortali, nessuno è a rischio di assalti o di congiure, domina la lealtà e la tranquillità, specie quando arra è fornita da Colui che è amore eterno, eterna pace, eterna serenità.[108] Viceversa in terra egoismo e insaziate brame di onori e di potere sconvolgono il mondo, rompono gli umani equilibri, affogano i vincoli umani nel sangue fatto scorrere a fiumi, spettacolo purtroppo assai ricorrente in quell’“aureo” secolo, dominato da scontri di sovrani incapaci di pensare se non alla potenza personale.[109] Se si conducesse la vita con l’animo volto all’eterno, quasi con il riso sulle labbra si sopporterebbero le angustie e i mali terreni, e l’alternanza di glorie e di rovesci sarebbe agevolmente sostenuta con animo temperato e tollerante.

Questo richiamo alla pace e alla concordia, completato nelle Prose, si sforza in sommo grado di contrapporre agli imperativi dominanti del fratricidio e della congiura una logica altra, che ritessendo i rapporti, “culturali” in primis, ma poi politici fra gli italiani di qualità, additi soprattutto i motivi e gli strumenti di unione, senza escludere nessuno, soprattutto senza escludere coloro che della civiltà italiana sono stati i costruttori primi, e cioè i toscani con Firenze al centro. Se Dante viene, dai Fiorentini per primi, visto come strumento del nemico (e si pensi a quel che potevano farne i Pisani, i Senesi, i Lucchesi, a tacer d’altri), a malincuore, ma per un principio cogente di necessità, è opportuno stendere su di lui un velo, anche perché il grande poeta “civile” della conciliazione tra gli Italiani è stato proprio Petrarca, non Dante, il cui giustizialismo di fondo ha impregnato di aggressività (non priva, per altro, di giustificazione) il suo immenso poema quasi tutto. Ebbene, le numerose invettive da Dante scagliate contro Firenze, ma anche contro l’Italia, e contro il Papato e l’Impero … in quel momento storico rischiano di “arrogere” danno a danno, e di fornire, sia agli Italiani sia agli stranieri, potenti strumenti per incrementare odi e divisioni.[110] Non si deve dimenticare, inoltre, che i potentati italiani hanno, e sentono di avere, un ruolo ancora fondamentale sull’intero scacchiere europeo: l’oceano Atlantico non è al momento divenuto il bacino principale degli scambi economici, Venezia è tuttora la prima potenza marinara della Cristianità (e Lepanto rappresenterà il suo trionfale canto del cigno), Roma continua ad essere al centro di un intero universo, le cui corrosioni si stanno allargando, ma non al punto da rivelarsi crepe. Per un paio di secoli, fino al brusco risveglio ottocentesco, tale sarebbe rimasta la coscienza di sé che avrebbe animato gli spiriti italici, e linfa vitale avrebbero tratto proprio da Petrarca. Successivamente, dopo la pace di Vienna, divenuta la maggior parte della Penisola un insieme di protettorati minori di un’unica grande potenza europea, gli animi si sarebbero eccitati per un risveglio e un’azione compatti e aggressivi, e a quel punto Dante sarebbe stato richiamato in servizio alla grande.

Questo, però, è un problema diverso, che ha bisogno di tempo (parecchio) per giungere a maturazione.

 



[1] È la posizione espressa da C. Dionisotti, Introduzione a Pietro Bembo, Prose della volgar lingua. Gli Asolani. Rime, a cura di Idem, Torino, 19932, p. 24, che riprende la precedente edizione, intitolata Prose e Rime, Torino, 1966, e che, assieme ad altri suoi interventi, è stata ripubblicata in Id., Scritti sul Bembo, a cura di C. Vela, Torino, 2002 (la cui Introduzione, pp. XV-XLVIII, è una splendida e vivida ricostruzione dell’uomo, dello studioso, del letterato, che con passione si immergeva in quei testi dai quali usciva in seguito con profili critici equilibrati, e pure estremamente coinvolgenti).

[2] Posizione diversa, quasi opposta, è quella formulata da L. Fortini, Itinerari di scrittura: Pietro Bembo e gli «Asolani», «La Rassegna della Letteratura Italiana», VIII-3, 1984, pp. 393, 398; cfr. inoltre R. Fedi, La fondazione dei modelli. Bembo, Castiglione, Della Casa, in Storia della Letteratura Italiana,diretta da Enrico Malato, vol. IV, Il primo Cinquecento, Roma, Salerno Ed., 1996, pp. 518-528; V. Formentin, Dal volgare toscano all’italiano, in Ibidem, pp. 190-198.

[3] Cfr. C. Dionisotti, Pietro Bembo e la nuova letteratura, in AA.VV., Rinascimento europeo e Rinascimento veneziano, a cura di V. Branca, Firenze, 1967, p. 59 (ripubblicato in Scritti sul Bembo cit.).

[4] Cfr. P. Sabbatino, La «scienza» della scrittura, Dal progetto del Bembo al manuale, Firenze, 1988, pp. 59-60.

[5] Per una generale panoramica si vedano B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze, 1960, cap. VIII; V. Coletti, Storia dell’italiano letterario. Dalle origini al Novecento, Torino, 1993; P. Trovato, Storia della lingua italiana. Il primo Cinquecento, Bologna, 1994; Id., La lingua italiana. Profilo storico, Bologna, 1994; e, inoltre, M. Vitale, La questione della lingua, Palermo, 1984 [1a edizione 1960, succ. edd. 1964, 1971, 1978]; F. Bruni, Sistemi critici e strutture narrative. Ricerche sulla cultura fiorentina del Rinascimento, Napoli, 1969; P. Floriani, Bembo e Castiglione. Studi sul classicismo del Cinquecento, Ro­ma, 1976; Id., I gentiluomini letterati. Studi sul dibattito culturale nel primo Cinquecento, Napoli, 1981; G. Mazzacurati, II rinascimento dei moderni. La crisi culturale del XVI secolo e la negazione delle origini, Bologna, 1985; Id., Misure del classicismo rinascimentale, Napoli, 199O2; M. Pozzi, Lingua, cultura, società. Saggi sulla letteratura italiana del Cinquecento, Alessandria, 1989; M. Tavoni, La linguistica rinasci­mentale, in Storia della linguistica, a cura di G. Lepschy, Bologna, 1990, vol. II; C. Marazzini, La lingua italiana. Profilo storico, Bologna, 1994.

[6] Cfr. G. Mazzacurati, Pietro Bembo e la questione del “volgare”, Napoli, 1964, p. 156; C. Giovanardi, La teoria cortigiana e il dibattito linguistico nel primo Cinquecento, Roma, 1998, p. 57.

[7] Si rimanda in particolare a C. Grayson, Grammatici e grammatiche del Rinascimento, in AA.VV. Rinascimento europeo e Rinascimento veneziano, a cura di V. Branca, Firenze, 1967, p. 73-74; C. Dionisotti, Pietro Bembo e la nuova letteratura, in Ibidem, p. 57; Mazzacurati, Pietro Bembo cit. in generale; Fedi, op. cit. pp. 525-529; Giovanardi, op. cit., pp. 29-99; senza dimenticare i fondamentali rilievi sull’importanza assunta dal greco formulati da C. Dionisotti nel suo volume Gli umanisti e il volgare fra Quattro e Cinquecento, Firenze, 1968.

[8] Nel 1516 tale risulta essere la situazione dell’Italia secondo quanto afferma G. Galasso, La crisi della libertà italiana, in Storia della Letteratura Italiana, diretta da Enrico Malato, vol. IV, Il primo Cinquecento, Roma, Salerno Ed., 1996, p. 593: «Ora la Francia era a Milano, l’Aragona a Napoli, gli Svizzeri sull’Alto Ticino. La diminutio capitis e l’annullamento dell’autonomia italiana erano evidenti, benché Venezia avesse recuperato tutta la sua Terraferma nei con­fini del 1499, Massimiliano d’Asburgo avesse dovuto rinunziare alle sue pretese su di essa e la Chiesa avesse accresciuto il suo Stato con Parma e Pia­cenza. Anche sul piano militare, nel giro di un ventennio, si era passati dalla condizione del 1495, quando un esercito tutto italiano aveva piegato a For­novo l’esercito di Carlo VIII, a quella delle ultime campagne, in cui si era confermato “che le forze italiane erano in grado di integrare un grande esercito, [...] ma non di sostenere una campagna autonoma contro i piú potenti eserciti stranieri”».

[9] Interpreto liberamente il significato assunto dal petrarchismo “rigido” teorizzato dal Bembo. Sulla questione si vedano il famoso saggio di G. Contini, Preliminari sulla lingua del Petrarca, in Varianti e altra linguistica, Torino 1970 (l’impostazione risale al 1951), dove sta scritto che, se può apparire eccessivo parlare di «monoglottia letterale», tuttavia «è certa l’unità di tono e di lessico» (p. 172); inoltre si rimanda a Formentin, op. cit., pp. 221-222.

[10] «… ma questo ragionare per aventura e questo favellare tuttavia non è lingua, perciò che non si può dire che sia veramente lingua alcuna favella che non ha scrittore.» (Pietro Bembo, Prose della volgar lingua, secondo l’edizione cit. a cura di C. Dionisotti, I, xiv)

[11] «E perché voi dite che le parole antiche solamente con quel splendore d’antichità adornan tanto ogni subietto, per basso ch’egli sia, che possono farlo degno di molta laude, io dico che non solamente di queste parole antiche, ma né ancor delle bone faccio tanto caso, ch’estimi debbano senza ’l suco delle belle sentenzie esser prezzate ragionevolmente perché il divider le sentenzie dalle parole è un divider l’anima dal corpo: la qual cosa né nell’uno né nell’altro senza distruzione far si po.» (Cito da Baldassar Castiglione, Il libro del Cortegiano, a cura di B. Maier, Torino, 19813, I, xxxiii, 4)

[12] «La bona consuetudine adunque del parlare credo io che nasca dagli omini che hanno ingegno e che con la dottrina ed esperienzia s’hanno guadagnato il bon giudicio, e con quello concorrono e consentono ad accettar le parole che lor paion bone, le quali si conoscono per un certo giudicio naturale e non per arte o regula alcuna. Non sapete voi che le figure del parlare, le quai dànno tanta grazia e splendor alla orazione, tutte sono abusioni dalle regule grammaticali ma accettate e confirmate dalla usanza, perché, senza poterne render altra ragione, piaceno ed al senso proprio dell’orecchia par che portino suavità e dolcezza?» (Ivi, xxxv, 7-8)

[13] Sull’argomento si segnalano in particolare P.V. Mengaldo, Appunti su Vincenzo Calmeta e la teoria cortigiana, «La Rassegna della Letteratura Italiana», lxiv, 1960, pp. 450-461; Mazzacurati, Pietro Bembo e la questione cit., pp. 65-66; Formentin, op. cit., pp. 198-199; Fedi, op. cit., pp. 525-526; R. Drusi, La lingua «cortigiana romana». Note su un aspetto della questione cinquecen­tesca della lingua, Venezia, 1995; Giovanardi, op. cit., pp. 29-57.

[14] «Perciò che se io volessi dire che la fiorentina lingua piú regolata si vede essere, piú vaga, piú pura che la provenzale, i miei due Toschi vi porrei dinanzi, il Boccaccio e il Petrarca senza piú, come che molti ve n’avesse degli altri, i quali due tale fatta l’hanno, quale essendo non ha da pentirsi.» (Op. cit., loc. cit.)

[15] «…della vostra città di Firenze e de’ suoi scrittori, piú che d’altro, si fa memoria in questo ragionamento, dalla quale e da’ quali hanno le leggi della lingua che si cerca, e principio e accrescimento e perfezione avuta.» (Op. cit., I, i)

[16] «Ma io non voglio dire ora, se non questo: che la nostra lingua, scrittor di prosa che si legga e tenga per mano ordinatamente, non ha ella alcuno; di verso, senza fallo, molti pochi…» (Ivi, I, xv)

[17] «E se il Cosmico è stato letto già, e ora si legge, è forse perciò che egli non ha in tutto composto vinizianamente, anzi s’è egli dal suo natío parlare piú che mezzanamente discostato. La qual povertà e mancamento di scrittori, istimo essere avenuto perciò che nello scrivere la lingua non sodisfà, posta, dico, nelle carte tale quale ella è nel popolo ragionando e favellando, e pigliarla dalle scritture non si può, ché degni e accettati scrittori noi, come io dissi, non abbiamo. Là dove la toscana e nel parlare è vaga e nelle scritture si legge ordinatissima, con ciò sia cosa che ella, da molti suoi scrittori di tempo in tempo indirizzata, è ora in guisa e regolata e gentile, che oggimai poco disiderare si può piú oltra, massimamente veggendosi quello, che non è meno che altro da disiderare che vi sia, e ciò è che allei copia e ampiezza non mancano.» (Ibidem)

[18] «… e nella lingua, al parer mio, non doveva, perché la forza e vera regula del parlar bene consiste piú nell’uso che in altro, e sempre è vizio usar parole che non siano in consuetudine. Perciò non era conveniente ch’io usassi molte di quelle del Boccaccio, le quali a’ suoi tempi s’usavano ed or sono disusate dalli medesimi Toscani.» (Op. cit., A Don Michel de Silva, II, 5)

[19] «E perché al parer mio la consuetudine del parlare dell’altre città nobili d’Italia, dove concorrono omini savi, ingeniosi ed eloquenti, e che trattano cose grandi di governo de’ stati, di lettere, d’arme e negoci diversi, non deve essere del tutto sprezzata, dei vocabuli che in questi lochi parlando s’usano, estimo aver potuto ragionevolmente usar scrivendo quelli, che hanno in sé grazia ed eleganzia nella pronunzia e son tenuti communemente per boni e significativi, benché non siano toscani ed ancor abbiano origine di fuor d’Italia.» (Ibidem, 7) – Al qual proposito, gioverà rilevare come, proprio per opera del Castiglione, siano entrate allora per la prima volta nel lessico letterario italiano parole come «crianza», mai prima attestata nel significato di “educazione”, che deriva dallo spagnolo e che in seguito si è imposta anche nell’italiano parlato, soprattutto nell’aggettivo “screanzato”; inoltre «attillato», che comunemente ancor oggi viene usato, e che sempre dallo spagnolo deriva; non ha avuto successo, viceversa, l’ispanismo «tampoco», che è rimasto voce sentita come straniera. Un tanto per far riscontrare quanti “barbarismi” infarciscano l’opera del Castiglione, quanto – dunque – si debba esser egli sentito “lontano” dal Bembo, quanto – infine – tale distanza non solo non abbia mai inficiato il reciproco rapporto di stima, ma non abbia nemmeno mai dato luogo ad accese polemiche, che pure avrebbero avuto occasione di scoppiare: ideali superiori riportavano entrambi al principio del dissenso armonioso e rispettoso. Sulla questione si avrà modo di ritornare piú avanti.

[20] Cfr. Ibidem, 11-13.

[21] Cfr. Ibidem, 15-16.

[22] Trattasi di un rilievo incidentale di Federico Fregoso, il quale osserva che noi spesso, invece di seguire il nostro giudizio, ci appoggiamo alla opinione altrui e la facciam nostra; e cita il caso di versi attribuiti per ischerzo al Sannazaro e ritenuti eccelsi, salvo poi, venuto alla luce il vero insignificante autore, esser d’un subito spregiati. «…e se licito è dir il vero, voi stesso e noi altri tutti molte volte, ed ora ancor, credemo piú alla altrui opinione che alla nostra propria. E che sia ’l vero, non è ancor molto tempo, che essendo appresentati qui alcuni versi sotto ’l nome del Sanazaro, a tutti parvero molto eccellenti e furono laudati con le maraviglie ed esclamazioni; poi, sapendosi per certo che erano d’un altro, persero súbito la reputazione e parvero men che mediocri.» (Ivi, II, xxxv, 3)

[23] è un sottile, però contraddittorio, ragionamento di Giuliano de’ Medici: «Perciò che egli niuna regola osservò, che bene di trascendere gli mettesse, né ha di lui buono e puro e fedel poeta la mia lingua, da trarne le leggi che noi cerchiamo. E se il Petrarca, che osservantissimo fu di tutte, non solamente le regole, ma ancora le leggiadrie della lingua, disse…» (Bembo, Prose cit., III, xlviii) Contraddittorio in sé, per le ragioni esposte, ma altresí contraddetto in fatto da un passaggio precedente, il quale rileva “improprietà” toscane in alcuni passi tanto del Petrarca quanto del Boccaccio: «Ché non Amamo Valemo Leggemo, ma Amiamo Valiamo Leggiamo si dee dire. Semo e Avemo, che disse il Petrarca, non sono della lingua, come che Avemo eziandio nelle prose del Boccaccio si legga alcuna fiata, nelle quali si potrà dire che ella, non come natía, ma come straniera già naturata, v’abbia luogo.» (Ivi, III, xxvii)

[24] Cfr. ivi, II, v.

[25] Cfr. ivi, II, ix.

[26] «… egli molto piú adopera e può nelle rime; le quali maravigliosa gravità accrescono al poema, quando hanno la prima sillaba di piú consonanti ripiena, come hanno in questi versi: “Mentre che ’l cor dagli amorosi vermi / fu consumato, e ’n fiamma amorosa arse …» (Ivi, II, xvii)

[27] Su tale problema cfr. M. Tavoni, Le “Prose della volgar lingua”, il “De vulgari eloquentia” e il “Convivio”, in AA. VV., «Prose della volgar lingua» di Pietro Bembo, Atti del Convegno di Gargnano del Garda (4-7 ottobre 2000), a cura di S. Morgana, M. Piotti, M. Prada, Milano, 2001, p. 131.

[28] «… quanto sarebbe stato piú lodevole che egli di meno alta e di meno ampia materia posto si fosse a scrivere, e quella sempre nel suo mediocre stato avesse, scrivendo, contenuta, che non è stato, cosí larga e cosí magnifica pigliandola, lasciarsi cadere molto spesso a scrivere le bassissime e le vilissime cose; e quanto ancora sarebbe egli miglior poeta che non è, se altro che poeta parere agli uomini voluto non avesse nelle sue rime. Che mentre che egli di ciascuna delle sette arti e della filosofia e, oltre acciò, di tutte le cristiane cose maestro ha voluto mostrar d’essere nel suo poema, egli men sommo e meno perfetto è stato nella poesia.» (Ivi, II, xx)

[29] «… si può la sua Comedia giustamente rassomigliare ad un bello e spazioso campo di grano, che sia tutto d’avene e di logli e d’erbe sterili e dannose mescolato …» (Ibidem)

[30] «Che quantunque del Boccaccio si possa dire, che egli nel vero alcuna volta molto prudente scrittore stato non sia; con ciò sia cosa che egli mancasse talora di giudicio nello scrivere, non pure delle altre opere, ma nel Decamerone ancora, nondimeno quelle parti del detto libro, le quali egli poco giudiciosamente prese a scrivere, quelle medesime egli pure con buono e con leggiadro stile scrisse tutte; il che è quello che noi cerchiamo.» (Ivi, II, xix)

[31] Cito da Giovanni Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Milano, 1976, VI, x, 8.

[32] «discendendo io nel campo primo volgare grammatico» – Cito da Giovan Francesco Fortunio, Regole grammaticali della volgar lingua, a cura di B. Richardson, Roma-Padova, 2001, Proemio dell’Autore, 18. Sull’argomento esiste una cospicua bibliografia, che muove da un primo, incisivo, contributo del Dionisotti, Ancora del Fortunio, «Giornale Storico della Letteratura Italiana», CXI, 333, 1938, seguito da Id. Il Fortunio e la filologia umanistica, in AA.VV., Rinascimento europeo e Rinascimento veneziano cit.; inoltre P. Floriani, Grammatici e teorici della letteratura volgare, in Storia della cultura veneta,Vicenza, 1980, III-2; I. Paccagnella, Grammatica come scienza. L’approssimazione di Fortunio (1516), in AA. VV. Literatur und Wissenschaft, Begegnung und Integration. Festschrift für Rudolf Baehr, a cura di B. Winklehner, Tübingen, 1986, e, del medesimo autore, La terminologia nella trattatistica grammaticale del primo trentennio del Cinquecento, nel vol. misc. Tra Rinascimento e strutture attuali, a cura di L. Giannelli ad altri, Torino, 1991; G. Belloni, Alle origini della filologia e della grammatica italiana: il Fortunio, in AA.VV., Linguistica e filologia, Atti del vii Convegno Internazionale dei linguisti (Milano, 12-14 settembre 1984), Brescia, 1987 (con successivi approfondimenti, sulla critica e sulla filologia rinascimentali, in Laura tra Petrarca e Bembo, Studi sul commento umanistico‑rinascimentale al «Canzoniere», Padova, 1992); G. Patota, I percorsi grammaticali, in Storia della lingia italiana, a cura di L. Serianni e P. Trifone, vol.I, Torino, 1993; si aggiunga Formentin, op. cit., pp. 209-210; Grayson, op. cit. in generale; Fedi, op. cit., p. 529; infine il denso saggio di Introduzione di B. Richardson cit. Per il testo, oltre alla presente edizione, si può ricorrere anche a quella curata da M. Pozzi, Torino, 1973, e alla ristampa anastatica dell’edizione di Venezia, 1552, pubblicata a Bologna nel 1979.

[33] Cfr., al riguardo, Dionisotti, Introduzione cit., p. 38.

[34] «…vederemo che tutti li pellegrini italici ingegni di qualunque si voglia regione che di scriver rime prendano diletto, quanto piú possono il stile del Petrarcha et di Dante se ingegnano con quelle istesse loro tosche parole di seguitare.» (Fortunio, op. cit., Proemio, 13)

[35] Cfr. ivi, I, 90.

[36] Cfr. ivi, II, 29.

[37] Cfr. ivi, II, 97-98.

[38] Cfr. ivi, II, 44.

[39] La cosa è di una certa evidenza, e in ogni caso, in merito, il Dionisotti, Ancora del Fortunio cit., segnala con una certa precisione questo fatto: «Per parte mia noterò che, a differenza del Bembo, il Fortunio spessissimo ricorre a Dante, le citazioni del quale risultano anzi, da una agevole e istruttiva stati­stica, piú numerose d’assai nelle Regole di quelle del Petrarca e del Boccaccio.» (nota 1, p. 243)

[40] «Averete con questa, M. Trifon mio caro, quanto sin qui ho scritto sopra la volgar lingua, che sono due libri, e forse la mezza parte di tutta l’opera; come che io non sappia tuttavia quanto oltra m’abbia a portare la materia, che potrebbe nondimeno essere piú ampia che io non giudico: dico quando io ne verrò alla sperienza. E mandovegli cosí poco riveduti e ripuliti come essi medesimi vi dimostreranno. […] Ora vi priego tutti insieme, e ciascuno separatamente, che poi che avete voluto questa parte cosí come è, imperfetta e incorretta, vediate diligentemente e notiate ogni cosa che vi ritroverete star male, o meno che a satisfazione vostra, o molto o poco. E da ciascuno di voi voglio uno estratto e un quinternetto degli errori o avertimenti che per voi si saranno veduti, senza risparmio alcuno. Il che doverete far volentieri pensando che questa opera ha da essere a commune utilità degli studiosi di questa lingua.» (Pietro Bembo, Lettere, ed. crit. di E. Travi, Bologna, 1987-1993, 315, 1-23 passim, a Trifone Gabriele, a. 1513)

[41] «Io non so se io vi debbo pregare a non ne pigliare essempio alcuno, che la mercatanzia non porta la spesa. Pure se fosse alcuno cosí scioperato e ozioso che pensasse di pigliar questa fatica, lo priego per niente a non lo fare, quando esso può esser certo che io la muterò e rimuterò in moltissimi luochi.» (Ibidem, 26-31)

[42] Il passo – meritatamente famoso – costituisce l’intero capitolo XVIII del I libro delle Prose.

[43] Decameron cit., VI, iv, 14.

[44] Ivi, VI, ii, 6.

[45] Prose cit., II, ii: «Venne appresso a questi e in parte con questi, Dante, grande e magnifico poeta, il quale di grandissimo spazio tutti adietro gli si lasciò».

[46] «Vedesi tuttavolta che il grande crescere della lingua a questi due, al Petrarca e al Boccaccio, solamente pervenne; da indi innanzi, non che passar piú oltre, ma pure a questi termini giugnere ancora niuno s’è veduto. Il che senza dubbio a vergogna del nostro secolo si trarrà …» (Ibidem)

[47] Non bisognerebbe mai dimenticare l’ambiente nel quale Bembo è cresciuto, caratterizzato da grande stima, che si potrebbe quasi dire culto, per Dante. Cfr., a tal proposito, C. Dionisotti, Pietro Bembo, voce stilata per l’Enciclopedia Dantesca, poi confluita in Scritti sul Bembo cit., p. 170; E. Pasquini, Le “Prose della volgar lingua” e il linguaggio poetico di Dante, in AA. VV., «Prose della volgar lingua» di Pietro Bembo cit., pp. 142-143 e, nello stesso volume, C. Segre, Bembo e Ariosto, pp. 5-7.

[48] è una appassionata testimonianza ricavabile da una lettera inviata a Lucrezia Borgia nel 1504: «Perciò che io non solamente ho un fratello perduto, che suole tuttavia essere grave e doloroso per sé, ma ho perduto un fratello, che io solo d’amendue i miei  genitori  nato  avea,  e  che  pure  ora  nel  primo  fiore  della  sua giovanezza entrava, e il quale, per molto amore di me ogni mio volere facendo suo, nessuna cura maggiore avea che di tutte alleggiarmi sí ch’io a gli studi delle lettere, i quali esso sapea essermi sopra tutte le cose cari, potessi dare ogni  mio tempo e pensiero; … » (Lettere, ed. cit., 192, 9-15)

[49] Sono due passi di due lettere inviate dal Castiglione al Bembo da Mantova, la prima in data 20 ottobre 1518, la seconda in data 15 gennaio 1520, in cui il discorso si sposta (e si risposta) sul Cortegiano: «… prego V. Sig. che pigli fatica anch’essa di leggerlo, o tutto, o parte, et auertirmi di quello che le parerà, accio che se ’l libro non può esser senza molti errori: sia almeno senza infiniti. V.Sig. non guardi alla scrittura: perché quella sarà poi fatica d’un altro, et se a lei non piace quello ch’io gli faccio dire e di quel modo, muterò, leuarò, giungerò, come le piacerà, et a quella mi offero sempre et raccomando.» (Lettere da diversi re e principi e cardinali e altri uomini dotti a Mons. Pietro Bembo scritte, rist. an. Ed. Sansovino 1560, a cura di D. Perocco, Bologna, 1985, III, 8) «non hauendo almen qualche sintilla, in generale, se non si può in particolare, del suo iudicio sopra questo pouero Cortigiano, sí che V. Sig. si degni di compiacermene …» (Ivi, III, 9)

[50] «A cui il Magnifico: – E quale domine lingua cortigiana chiama costui? con ciò sia cosa che parlare cortigiano è quello che s’usa nelle corti, e le corti sono molte: perciò che e in Ferrara è corte, e in Mantova e in Urbino, e in Ispagna e in Francia e in Lamagna sono corti, e in molti altri luoghi. Laonde lingua cortigiana chiamare si può in ogni parte del mondo quella che nella corte s’usa della contrada, a differenza di quell’altra che rimane in bocca del popolo, e non suole essere cosí tersa e cosí gentile. […] E il Papa medesimo, che di tutta la corte è capo, quando è valenziano, come veggiamo essere ora, quando genovese e quando d’un luogo e quando d’altro. Perché, se lingua cortigiana è quella che costoro usano, et essi sono tra sé cosí differenti, come si vede che sono, né quelli medesimi sempre, non so io ancor vedere quale il nostro Calmeta lingua cortigiana si chiami.» (Prose cit., I, xiii, passim)

[51] «Ora, allo ’ncontro, molte cose recò il Calmeta in difesa della sua nuova lingua, poco sustanzievoli nel vero e a quelle somiglianti che udito avete, volendo a messer Trifone persuadere, che il parlare della romana corte era grave, dolce, vago, limato, puro, il che diceva dell’altre lingue non avenire, né pure della toscana cosí apieno. Ma egli nulla di ciò gli credette, né gliele fece buono in parte alcuna; onde egli o per la fatica del ragionare, o pure perciò che messer Trifone non accettava le sue ragioni, tutto cruccioso e caldo si dipartí –.» (Ibidem, concl.)

[52] «Sarà adunque il nostro cortegiano stimato eccellente ed in ogni cosa averà grazia, massimamente nel parlare, se fuggirà l’affettazione; nel qual errore incorrono molti, e talor piú che gli altri alcuni nostri Lombardi; i quali, se sono stati un anno fuor di casa, ritornati súbito cominciano a parlare romano, talor spagnolo o franzese, e Dio sa come; …» (Castiglione, Op. cit., I, xxviii, 10-11)

[53] «Allor messer Federico, – Veramente, – disse, – ragionando tra noi, come or facciamo, forse saria male usar quelle parole antiche toscane; perché, come voi dite, dariano fatica a chi le dicesse ed a chi le udisse e non senza difficultà sarebbono da molti intese. Ma chi scrivesse, crederei ben io che facesse errore non usandole perché dànno molta grazia ed autorità alle scritture, e da esse risulta una lingua piú grave e piena di maestà che dalle moderne.» (Ivi, xxix, 1-2)

[54] «Parmi adunque molto strana cosa usare nello scrivere per bone quelle parole, che si fuggono per viciose in ogni sorte di parlare; e voler che quello che mai non si conviene nel parlare, sia il piú conveniente modo che usar si possa nello scrivere. Ché pur, secondo me, la scrittura non è altro che una forma di parlare che resta ancor poi che l’omo ha parlato, e quasi una imagine o piú presto vita delle parole, e però nel parlare, il qual, súbito uscita che è la voce, si disperde, son forse tollerabili alcune cose che non sono nello scrivere; perché la scrittura conserva le parole e le sottopone al giudicio di chi legge e dà tempo di considerarle maturamente. E perciò è ragionevole che in questa si metta maggior diligenzia per farla piú culta e castigata; non però di modo che le parole scritte siano dissimili dalle dette, ma che nello scrivere si eleggano delle piú belle che s’usano nel parlare.» (Ibidem, 5-7)

[55] «Però certo è che quello che si conviene nello scrivere si convien ancor nel parlare; e quel parlar è bellissimo, che è simile ai scritti belli. Estimo ancora che molto piú sia necessario l’esser inteso nello scrivere che nel parlare; perché quelli che scrivono non son sempre presenti a quelli che leggono, come quelli che parlano a quelli che parlano. Però io laudarei che l’omo, oltre al fuggir molte parole antiche toscane, si assicurasse ancor d’usare, e scrivendo e parlando, quelle che oggidí sono in consuetudine in Toscana e negli altri lochi della Italia, e che hanno qualche grazia nella pronuncia.» (Ibidem, 8-9)

[56] «Allora messer Federico, – Signor Conte, – disse, – io non posso negarvi che la scrittura non sia un modo di parlare. Dico ben che, se le parole che si dicono hanno in sé qualche oscurità, quel ragionamento non penetra nell’animo di chi ode e passando senza esser inteso, diventa vano; il che non interviene nello scrivere, ché se le parole che usa il scrittore portan seco un poco, non dirò di difficultà, ma d’acutezza recondita, e non cosí nota come quelle che si dicono parlando ordinariamente, danno una certa maggior autorità alla scrittura e fanno che ’l lettore va piú ritenuto e sopra di sé, e meglio considera e si diletta dello ingegno e dottrina di chi scrive; e col bon giudicio affaticandosi un poco, gusta quel piacere che s’ha nel conseguir le cose difficili.» (Ivi, I, xxx, 1-3)

[57] «Però, nello scrivere credo io che si convenga usar le parole toscane e solamente le usate dagli antichi Toscani, perché quello è gran testimonio ed approvato dal tempo che sian bone, e significative de quello perché si dicono; ed oltre a questo hanno quella grazia e venerazion che l’antiquità presta non solamente alle parole, ma agli edifici, alle statue, alle pitture e ad ogni cosa che è bastante a conservarla; e spesso solamente con quel splendore e dignità fanno la elocuzion bella, dalla virtú della quale ed eleganzia ogni subietto, per basso che egli sia, po esser tanto adornato, che merita somma laude. Ma questa vostra consuetudine, di cui voi fate tanto caso, a me par molto pericolosa e spesso po esser mala; e se qualche vicio di parlar si ritrova esser invalso in molti ignoranti, non per questo parmi che si debba pigliar per una regula ed esser dagli altri seguitato. Oltre a questo, le consuetudini sono molto varie, né è città nobile in Italia che non abbia diversa maniera di parlar da tutte l’altre. Però non vi ristringendo voi a dechiarir qual sia la megliore, potrebbe l’omo attaccarse alla bergamasca cosí come alla fiorentina, e secondo voi non sarebbe error alcuno.» (Ibidem, 4-5)

[58] «Parmi adunque che a chi vol fuggir ogni dubbio, ed esser ben sicuro, sia necessario proporsi ad imitar uno, il quale di consentimento di tutti sia estimato bono, ed averlo sempre per guida e scudo contra chi volesse riprendere; e questo (nel vulgar dico) non penso che abbia da esser altro che il Petrarca e ’l Boccaccio; e chi da questi dui si discosta va tentoni, come chi camina per le tenebre senza lume e però spesso erra la strada.» (Ibidem, 6)

[59] Questa adunque [la lingua volgare] è stata tra noi lungamente incomposta e varia, per non aver avuto chi le abbia posto cura, né in essa scritto, né cercato di darle splendor o grazia alcuna; pur è poi stata alquanto piú culta in Toscana, che negli altri lochi della Italia; e per questo par che ’l suo fiore insino da que’ primi tempi qui sia rimaso, per aver servato quella nazion gentil accenti nella pronunzia ed ordine grammaticale in quello che si convien, piú che l’altre; ed aver avuti tre nobili scrittori, i quali ingeniosamente e con quelle parole e termini che usava la consuetudine de’ loro tempi hanno espresso i lor concetti; il che piú felicemente che agli altri, al parer mio, è successo al Petrarca nelle cose amorose.» (Ivi, I, xxxii, 5)

[60] «Io vorrei che ’l nostro cortegiano parlasse e scrivesse in tal maniera, e non solamente pigliasse parole splendide ed eleganti d’ogni parte della Italia, ma ancora laudarei che talor usasse alcuni di quelli termini e franzesi e spagnoli, che già sono dalla consuetudine nostra accettati.» (Ivi, (I, xxxiv, 6)

[61] «Penso io adunque, come ben ha detto il signor Magnifico, che se ’l Petrarca e ’l Boccaccio fossero vivi a questo tempo, non usariano molte parole che vedemo ne’ loro scritti: però non mi par bene che noi quelle imitiamo.» (I, xxxvi, 4)

[62] Pare che i dissensi avessero avuto modo di manifestarsi già al tempo della “coabitazione” urbinate, e – secondo taluni – Cortegiano e Prose sarebbero, sul piano linguistico, anelli conclusivi di una piú estesa diatriba. Cfr. C. Caruso, Petrarchismo eclettico: la canzone «Alma cortese» di Pietro Bembo, in Petrarca e i suoi lettori, a cura di V. Caratozzolo e G. Güntert, Ravenna, 2000, p. 175.

[63] «… e ultimo chiamo il Petrarca, dopo ’l quale non si vede gran fatto che sia veruno buon poeta stato infino a’ nostri tempi.» (Prose cit., III, vi)

[64] «Per questo adunque, messer Federico mio, credo, se l’omo da sé non ha convenienzia con qualsivoglia autore, non sia ben sforzarlo a quella imitazione; perché la virtú di quell’ingegno s’ammorza e resta impedita, per esser deviata dalla strada nella quale avrebbe fatto profitto, se non le fosse stata precisa. Non so adunque come sia bene, in loco d’arricchir questa lingua e darle spirito, grandezza e lume, farla povera, esile, umile ed oscura e cercare di metterla in tante angustie, che ognuno sia sforzato ad imitare solamente il Petrarca e ’l Boccaccio; e che nella lingua non si debba ancor credere al Policiano, a Lorenzo de’ Medici, a Francesco Diaceto e ad alcuni altri che pur son toscani, e forse di non minor dottrina e giudicio che si fosse il Petrarca e ’l Boccaccio. E veramente gran miseria saria metter fine e non passar piú avanti di quello che si abbia fatto quasi il primo che ha scritto, e disperarsi che tanti e cosí nobili ingegni possano mai trovar piú che una forma bella di dire in quella lingua, che ad essi è propria e naturale.» (Cortegiano, I, xxxvii, 19-20)

[65] «Cosí, súbito fatto reverenzia alla signora Duchessa e fatto seder gli altri, che tutti in piedi per la venuta sua s’erano levati, si pose ancor esso a seder nel cerchio con alcuni de’ suoi gentilomini; tra i quali erano il marchese Febus e Ghirardino fratelli da Ceva, messer Ettor Romano, Vincenzio Calmeta, Orazio Florido e molti altri; …» (Ivi, I, liv, 2) – Sublime ambiguità del passo! Non è chiaro se il Calmeta arrivi in quel momento, oppure se stia lí da bel principio; certo è che non figura nella rassegna dei gentiluomini fatta all’inizio dell’opera, e che i suoi interventi – talvolta anche rilevanti – di tutto si occupano fuorché della questione linguistica. Per altro, assistendo alla discussione anche il Bembo, e tenendosene fuori … !

[66] «Ma a me non po caper nella testa che d’una lingua particulare, la quale non è a tutti gli omini cosí propria come i discorsi ed i pensieri e molte altre operazioni, ma una invenzione contenuta sotto certi termini, non sia piú ragionevole imitar quelli che parlan meglio, che parlare a caso e che, cosí come nel latino l’omo si dee sforzar di assimigliarsi alla lingua di Virgilio e di Cicerone, piú tosto che a quella di Silio o di Cornelio Tacito, cosí nel vulgar non sia meglio imitar quella del Petrarca e del Boccaccio, che d’alcun altro …» (Ibidem, xxxviii, 2)

[67] «Pur domando a voi: in che consiste la bontà di questa lingua? Rispose messer Federico: – Nel servar ben le proprietà di essa e tórla in quella significazione, usando quello stile e que’ numeri che hanno fatto tutti quei che hanno scritto bene. – Vorrei, – disse il Conte, – sapere se questo stile e questi numeri di che voi parlate, nascano dalle sentenzie o dalle parole. Dalle parole, – rispose messer Federico. – Adunque, – disse il Conte, – a voi non par che le parole di Silio e di Cornelio Tacito siano quelle medesime che usa Virgilio e Cicerone, né tolte nella medesima significazione? – Rispose messer Federico: – Le medesime son sí, ma alcune mal osservate e tolte diversamente –. Rispose il Conte: – E se d’un libro di Cornelio e d’un di Silio si levassero tutte quelle parole che son poste in altra significazion di quello che fa Virgilio e Cicerone, che seriano pochissime, non direste voi poi che Cornelio nella lingua fosse pare a Cicerone, e Silio a Virgilio? e che ben fosse imitar quella maniera del dire?» (Ibidem, 4-6)

[68] «Allor la signora Emilia, – A me par, – disse, – che questa vostra disputa sia mo troppo lunga e fastidiosa; però fia bene a differirla ad un altro tempo –.» (Ivi, xxxix, 1)

[69] «Non vorrei già che qualche avversario mi adducesse gli effetti contrari per rifiutar la mia opinione, allegandomi gli Italiani col lor saper lettere aver mostrato poco valor nell’arme da un tempo in qua, il che pur troppo è piú che vero; ma certo ben si poria dir la colpa d’alcuni pochi aver dato, oltre al grave danno, perpetuo biasmo a tutti gli altri, e la vera causa delle nostre ruine e della virtú prostrata, se non morta, negli animi nostri, esser da quelli proceduta; ma assai piú a noi saria vergognoso il publicarla, che a’ Franzesi il non saper lettere. Però meglio è passar con silenzio quello che senza dolor ricordar non si po; e, fuggendo questo proposito, nel quale contra mia voglia entrato sono, tornar al nostro cortegiano.» (Ivi, I, xliii, 5)

[70] «…cosí l’aver noi mutato gli abiti italiani nei stranieri parmi che significasse, tutti quelli, negli abiti de’ quali i nostri erano trasformati, dever venire a subiugarci; il che è stato troppo piú che vero, ché ormai non resta nazione che di noi non abbia fatto preda, tanto che poco piú resta che predare e pur ancor di predar non si resta.» (Ivi, II, xxvi, 4)

[71] «Ma non voglio che noi entriamo in ragionamenti di fastidio; … » (Ivi, II, xxvii, 1)

[72] «– Deh voglia Idio, – a queste parole traponendosi disse subitamente il Magnifico – che ella, messer Federigo, a piú che mai servilmente ragionare non si ritorni; al che fare, se il cielo non ci si adopera, non mostra che ella sia per indugiarsi lungo tempo, in maniera e alla Francia e alle Spagne bella e buona parte de’ nostri dolci campi donando, e alla compagnia del governo invitandole, ce ne spogliamo volontariamente a poco a poco noi stessi; mercé del guasto mondo, che, l’antico valore dimenticato, mentre ciascuno di far sua la parte del compagno procaccia e quella negli agi e nelle piume disidera di godersi, chiama in aiuto di sé, contra il suo sangue medesimo, le straniere nazioni, e la eredità a sé lasciata dirittamente in quistion mette per obliqua via.» (Prose, I, vii)

[73] «Cosí non fosse egli vero cotesto, Giuliano, che voi dite, come egli è – rispose messer Ercole – che noi ne staremmo vie meglio che noi non istiamo. Ma lasciando le doglianze adietro, che sono per lo piú senza frutto … » (Ibidem)

[74] Cfr. ivi, I, xviii..

[75] «Ma quante volte aviene che la maniera della lingua delle passate stagioni è migliore che quella della presente non è, tante volte si dee per noi con lo stile delle passate stagioni scrivere, Giuliano, e non con quello del nostro tempo. […] e molto meglio faremo noi altresí, se con lo stile del Boccaccio e del Petrarca ragioneremo nelle nostre carte, che non faremo a ragionare col nostro, perciò che senza fallo alcuno molto meglio ragionarono essi che non ragioniamo noi.» (Ivi, I, xix, passim)

[76] «Io non posso né debbo ragionevolmente contradir a chi dice che la lingua toscana sia piú bella dell’altre.» (Cortegiano, I, xxxi, 5)

[77] «Né io altresí voglio dire piú oltra, – rispose il Magnifico – poscia che, o la nuova fiorentina lingua o l’antica che si lodi maggiormente, l’onore in ogni modo ne va alla patria mia.» (Prose, I, xix)

[78] «Vengasi pure, – disse il Magnifico – e ragionisi, se ad esso cosí piace; tuttavolta con questa condizione che voi, messer Carlo e messer Federigo, m’aiutate; ché io non voglio dire altramente.» (Ivi, II, xxii)

[79] «Nam viderat ille quidem me in omni aetate studiosum fuisse, et inter libros litterasque semper vixisse; meminisse poterat, me istos ipsos florentinos vates unice dilexisse. Nam et Dantem ipsum quodam tempore ita memoriae mandavi, ut ne hodie quidem sim oblitus, sed etiam nunc magnam partem illius praeclari ac luculenti poematis sine ullis libris referre queo: quod facere non possem sine singulari quadam affectione. Franciscum vero Petrarcham tanti semper feci, ut usque in Patavium profectus sim, ut ex proprio exemplari libros suos transcriberem. Ego enim primus omnium Africam illam huc adduxi, cuius quidem rei iste Colucius testis est. Iohannem autem Boccatium quomodo odisse possum, qui bibliothecam eius meis sumptibus ornarim propter memoriam tanti viri, et frequentissimus omnium in illa sum apud religiosos heremitarum?» (Leonardo Bruni Aretino, Ad Petrum Paulum Histrum Dialogus, in Prosatori latini del Quattrocento, a cura di E. Garin, Milano-Napoli, 1952, p.82)

[80] «Piú tosto forse e’ prudenti mi loderanno s’io, scrivendo in modo che ciascuno m’intenda, prima cerco giovare a molti che piacere a pochi, ché sai quanto siano pochissimi a questi dí e’ litterati. E molto qui a me piacerebbe se chi sa biasimare, ancora altanto sapesse dicendo farsi lodare. Ben confesso quella antiqua latina lingua essere copiosa molto e ornatissima, ma non però veggo in che sia la nostra oggi toscana tanto d’averla in odio, che in essa qualunque benché ottima cosa scritta ci dispiaccia.» (Leon Battista Alberti, Proemio al III dei “Libri de familia”, 19-20, in “Grammatichetta” e altri scritti sul volgare, a cura di G. Patota, Roma, 1996)

[81] «Laudo Dio che in la nostra lingua habbiamo homai e’ primi principii di quello ch’io al tutto mi disfidava potere assequire. Cittadini miei, pregovi: se presso di voi hanno luogo le mie fatighe, habbiate a grado questo animo mio, cupido di onorare la patria nostra; et insieme, piacciavi emendarmi piú che biasimarmi, se in parte alchuna ci vedete errore.» (Id., Grammatichetta cit., 99-100)

[82] Purg., VI, 105.

[83] È la parte centrale dell’esametro che apre l’Epistola ad Italiam, 24esima del III libro delle Epistolae metricae; il verso successivo, in quel contesto rinascimentale, doveva suonare ancor piú beffardamente irritante: «Tellus tuta bonis, tellus metuenda superbis …» (Cito da Francisci Petrarchae, Poëmata minora quae extant omnia, nunc primo ad trutinam revocata ac recensita, Milano, 1829, vol. II, p. 266)

[84] «Però, volendo fuggire questa confusione, divideremo quella solamente nelle sue provincie, come Lombardia, Romagna, Toscana, Terra di Roma et Regno di Napoli. E veramente, se ciascuna di dette parti saranno bene examinate, si vedrà nel parlare d’esse grandi differenze …» (Niccolò Machiavelli, Discorso intorno alla nostra lingua, a cura di P. Trovato, Padova, 1982, 10-11)

[85] In passaggi diversamente articolati ha modo il Machiavelli di ribadire questo primato, che tanto gli sta a cuore: «Et se tu mi allegassi il parlar curiale, ti rispondo, se tu parli delle corti di Milano o di Napoli, che tutte tengono del loco della patria loro, et quelle hanno piú di buono che piú s’accostano al toscano et piú l’imitano; et se tu vuoi ch’e’ sia migliore l’imitatore che l’imitato, tu vuoi quello che il piú delle volte non è. Ma se tu parli della corte di Roma, tu parli d’un luogo dove si parla di tanti modi di quante nationi vi sono, né si li può dare, in modo alcuno, regola.» (Ivi, 58-59) «Et a provare questo, io voglio che tu leggi una commedia fatta da uno degli Ariosti di Ferrara; et vedrai una gentil compositione et uno stilo ornato et ordinato; vedrai un nodo bene accommodato et meglio sciolto; ma la vedrai priva di quei sali che ricerca una commedia; tale non per altra cagione che per la detta: perché i motti ferraresi non gli piacevano e i fiorentini non sapeva, talmente che gli lasciò stare.» (Ivi, 69) «Et che l’importanza di questa lingua nella quale et tu, Dante, scrivesti, et gl’altri che vennono et prima et poi di te hanno scritto, sia derivata da Firenze, lo dimostra esser voi stati fiorentini, et nati’n una patria che parlava in modo che si poteva, meglio che alcuna altra accommodare a scrivere in versi et in prosa.» (Ivi, 73) «Perché né per commodità di sito, né per ingegno, né per alcuna altra particulare occasione meritò Firenze esser la prima et procreare questi scrittori, se non per la lingua commoda a prendere simile disciplina; il che non era nell’altre città. Et ch’e’ sia vero, si vede in questi tempi assai ferraresi, napoletani, vicentini et vinitiani, che scrivono bene et hanno ingegni attissimi allo scrivere; il che non potevano far prima che tu, il Petrarca et il Boccaccio, havessi scritto.» (Ivi, 75-77)

[86] Conclusione, alquanto “violenta” dell’opera: «Non so già s’io mi sgannerò coloro che sono sí poco conoscitori de’ beneficii ch’egl’hanno havuti da la nostra patria, che e’ vogliono accomunare con essa lei nella lingua Milano, Vinegia e Romagna, et tutte le bestemmie di Lombardia.» (Ivi, 80)

[87] «A volere vedere dunque, con che lingua hanno scritto gli scrittori in questa moderna lingua celebrati, delli quali tengano, senza discrepanza d’alcuno, il primo luogo Dante, il Petrarca et il Boccaccio, è necessario metterli da una parte, et da l’altra tutta Italia …» (Ivi, 8)

[88] «Donde quelli primi scrittori fussino (eccetto che un bolognese, un aretino et un pistolese, i quali tutti non aggiunsono a x canzoni), è cosa notissima come e’ furono fiorentini; intra li quali Dante, il Petrarca et il Boccaccio tengono il primo loco, et tanto alto che alcuno spera piú aggiungervi.» (Ivi, 20-21)

[89] «Et cosí li vocaboli forestieri si convertono in fiorentini, non li fiorentini in forestieri; né però diventa altro la nostra lingua che fiorentina.» (Ivi, 30) «Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, et è sí potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro: perché quello ch’ella reca da altri, lo tira a sé in modo che par suo. Et gl’huomini che scrivono in quella lingua, come amorevoli di essa, debbono fare quello che hai fatto tu …» (Ivi, 53-54)

[90] «N. Adunque parli tu in fiorentino et non cortigiano. – D. Egl’è vero in maggiore parte …» (Ivi, 41)

[91] «Di questi, il Boccaccio afferma nel Centonovelle di scrivere in volgar fiorentino; il Petrarca non so che ne parli cosa alcuna …» (Ivi, 21)

[92] «Io non voglio, in quanto s’appartenga al Petrarca e al Boccaccio, replicare cosa alcuna, essendo l’uno in nostro favore et l’altro stando neutrale …» (Ivi, 22)

[93] «…Dante; il quale in ogni parte mostrò d’esser per ingegno, per dottrina et per giuditio huomo eccellente, eccetto che dov’egli ebbe a ragionare della patria sua, la quale, fuori d’ogni umanità e filosofico instituto, perseguitò con ogni spetie d’ingiuria. Et non potendo altro fare che infamarla, accusò quella d’ogni vitio, dannò gl’huomini, biasimò il sito, disse male de’ costumi et delle legge di lei; et questo fece non solo in una parte della sua cantica, ma in tutta, et diversamente et in diversi modi: tanto l’offese l’ingiuria dell’exilio, tanta vendetta ne desiderava! Et però ne fece tanta quanta egli poté. Et se per sorte, de’ mali ch’egli li predisse, le ne fussi accaduto alcuno, Firenze harebbe piú da dolersi d’havere nutrito quell’huomo che di qualunche altra sua rovina. Ma la Fortuna, per farlo mendace et per ricoprire con la gloria sua la calunnia falsa di quello, l’ha continuamente prosperata, et fatta celebre per tutte le provincie cristiane, et condotta al presente in tanta felicità et sí tranquillo stato che, se Dante la vedessi, o egli accuserebbe sé stesso o, ripercosso dai colpi di quella sua innata invidia, vorrebbe, essendo risucitato, di nuovo morire. Non è pertanto maraviglia se costui, che in ogni cosa accrebbe infamia alla sua patria, volse ancora nella lingua torle quella riputatione la quale pareva a lui d’haverle data ne’ suoi scritti; et per non la honorare in alcuno modo compose quell’opera, per mostrar quella lingua nella quale egli haveva scritto non essere fiorentina. Il che tanto se li debbe credere, quanto ch’e’ trovassi Bruto in bocca di Lucifero maggiore, et cinque cittadini fiorentini in tra i ladroni, et quel suo Cacciaguida in Paradiso, et simili sue passioni et oppinioni; nelle quali fu tanto cieco, che perse ogni sua gravità, dottrina et giudicio, et divenne al tutto un altr’huomo; talmente che, s’egli avessi giudicato cosí ogni cosa, o egli sarebbe vivuto sempre a Firenze, o egli ne sarebbe stato cacciato per pazzo.» (Ivi, 22-26)

[94] «Et veramente colui il quale con l’animo et con l’opera si fa nimico della sua patria, meritamente si può chiamare parricida, ancora che da quella fussi suto offeso. Perché, se battere il padre et la madre, per qualunche cagione, è cosa nefanda, di necessità ne seguita il lacerare la patria essere cosa nefandissima: perché da lei mai si patisce alcuna persecutione per la quale possa meritare di essere da te ingiuriata, havendo a riconoscere da quella ogni tuo bene; tal che, s’ella si priva di parte de’ suoi cittadini, sei piú tosto obligato ringratiarla di quelli ch’ella si lascia, che infamiarla per quelli che la ci toglie. Et quando questo sia vero (che è verissimo), io non dubito mai d’ingannarmi per difenderla et venire contra quelli che troppo prosuntuosamente cercano di privarla dell’honor suo.» (Ivi, 2-4)

[95] «Dante mio, io voglio che tu t’emendi, et che tu consideri meglio il parlar fiorentino et la tua opera, et vedrai che se alcuno s’harà da vergognare, sarà piú tosto Firenze che tu: perché, se considererai bene a quel che tu hai detto, tu vedrai come ne’ tuoi versi non hai fuggito il goffo, come è quello: “Poi ci partimmo, et n’andavamo in<trocque>”; non hai fuggito il porco, com’è quello: “che merda fa di quel che si trangugia”; non hai fuggito l’osceno, come è: “le mani alzò con ambedue le fiche;” et non avendo fuggito questo, che dishonora tutta l’opera tua, tu non puoi haver fuggito infiniti vocaboli patrii che non s’usano altrove che in quella, perché l’arte non può mai in tutto repugnare a la natura.» (Ivi, 50-51)

[96] Secondo il Trovato, Introduzione a op. cit., si può «ritenere che le discussioni che ispirano il Discorso siano avvenute sul cadere dell’estate del ’24 (quando il Machiavelli si trovava in villa) e che l’operetta, composta durante la vendemmia, risalga al settembre-ottobre dello stesso anno … » (p. XXXIII) – ma la questione è ampiamente dibattuta nelle pagine precedenti.

[97] «Però, dopo disputa di qualche dí, minacciando il duca di Milano i fiorentini, che ricusavano di compromettere, di levare subito di Toscana tutte le genti sue, fu fatto il compromesso per otto dí, libero e assoluto, in Ercole duca di Ferrara. Il quale, dopo molta discussione, pronunziò, il sesto dí di aprile: che fra otto dí prossimi si levassino l’offese tra i viniziani e i fiorentini, e che il dí della festività prossima di santo Marco tutte le genti e aiuti di ciascuna delle parti si partissino e ritornassino agli stati propri, e che i viniziani il dí medesimo levassino di Pisa e del suo contado tutte le genti che v’avevano, e abbandonassino Bibbiena e tutti gli altri luoghi che occupavano de’ fiorentini, i quali perdonassino agli uomini di Bibbiena i falli commessi; e che per ristoro delle spese fatte, quali affermavano i viniziani ascendere a ottocentomila ducati, fussino obligati i fiorentini a pagare loro, insino in dodici anni, quindicimila ducati per anno …» (Francesco Guicciardini, Storia d’Italia, a cura di S. Seidel Menchi, Torino, 1971, IV, 7)

[98] «Maggiore fu la indegnazione e l’ambiguità de’ pisani: i quali, concitati maravigliosamente contro al nome viniziano e insospettiti di maggiore fraude, subito che ebbono inteso quel che si conteneva nel lodo, rimossono le genti loro dalla guardia delle fortezze di Pisa e delle porte né vollono che piú alloggiassino nella città, e stetteno in dubitazione grande molti dí se accettavano le condizioni del lodo o no; piegandogli da una parte il timore, poiché si vedevano abbandonati da tutti, da altra tenendogli fermi l’odio de’ fiorentini, e molto piú la disperazione di avere a trovare perdono per la grandezza delle offese fatte e per essere stati cagione di infinite spese e danni loro, e di avergli messo piú volte in pericolo della propria libertà. Nella quale ambiguità benché il duca di Milano gli confortasse a cedere, offerendo di essere mezzo co’ fiorentini a vantaggiare le condizioni del lodo, nondimeno, per tentare se in lui fusse piú l’antica cupidità e disposti in tal caso a darsegli liberamente, gli mandorono imbasciadori; e finalmente, dopo lunghi pensieri e agitazioni, determinorono di tentare prima ogni cosa estrema che tornare sotto il dominio de’ fiorentini: e a questo furono occultamente confortati da’ genovesi da’ lucchesi e da Pandolfo Petrucci. Né stettono i fiorentini senza sospetto che ’l duca di Milano, benché la verità fusse in contrario, non gli avesse confortati al medesimo: tanto poco si aspetta sincerità o opere fedeli da chi è venuto in concetto degli uomini di essere solito a governarsi con duplicità e con artifici.» (Ibidem)

[99] «… le cose di Siena; le quali erano ridotte in gravissimo pericolo per essere la maggiore parte del popolo inimica al governo presente, e per l’odio antico co’ fiorentini tutti malvolentieri comportavano che le genti loro entrassino in Siena …» (Ivi, XIV, 12)

[100] Sono i “memento” che Guicciardini medesimo ripassa nella sua mente alla morte di Leone X: «Dovere considerare, che essendo morto il pontefice dal quale era stato onorato ed esaltato, non gli restare obligazione o stimolo alcuno per il quale, se le cose fussino in quello grado che essi si immaginavano, avesse a sottoporsi volontariamente a sí manifesto pericolo; perché non potevano, come sempre aveva dimostrato la esperienza, i ministri del pontefice morto aspettare dal futuro pontefice grado o remunerazione alcuna, anzi potere facilmente accadere che il nuovo pontefice fusse inimico di Firenze patria sua: però, né per rispetti publici né per rispetti privati avere cagione di desiderare la grandezza della Chiesa, ma potere bene nascere molti casi per i quali gli sarebbe gratissima la bassezza.» (Ivi, XIV, 10)

[101] «Posto, per la pace e confederazione predetta, fine a sí lunghe e gravi guerre, continuate piú di otto anni con accidenti tanto orribili, restò Italia tutta libera da’ tumulti e da’ pericoli delle armi, eccetto la città di Firenze; la guerra della quale aveva giovato alla pace degli altri, ma la pace degli altri aggravava la guerra loro.» (Ivi, XX, 1)

[102] «… ingannandosi non mediocremente coloro che si persuadevano che gli altri potentati avessino oziosamente a comportare che allo imperio veneto, formidabile a tutti gli italiani, si aggiugnesse l’opportunità sí grande del dominio di Pisa; i quali se bene non erano potenti come per il passato a vietarlo con le forze proprie, avevano da altra parte, poi che agli oltramontani era stata insegnata la strada del passare in Italia, maggiore occasione di opporsi loro col ricorrere agli aiuti forestieri …» (Ivi, III, 4)

[103] «Non erano tali le infermità d’Italia, né sí poco indebolite le forze sue, che si potessino curare con medicine leggiere; anzi, come spesso accade ne’ corpi ripieni di umori corrotti, che uno rimedio usato per provedere al disordine di una parte ne genera de’ piú perniciosi e di maggiore pericolo, cosí la tregua fatta tra il re de’ romani e i viniziani partorí agli italiani, in luogo di quella quiete e tranquillità che molti doverne succedere sperato aveano, calamità innumerabili, e guerre molto piú atroci e molto piú sanguinose che le passate: perché se bene in Italia fussino state, già quattordici anni, tante guerre e tante mutazioni, nondimeno, o essendosi spesso terminate le cose senza sangue o le uccisioni state piú tra’ barbari medesimi, avevano patito meno i popoli che i príncipi. Ma aprendosi in futuro la porta a nuove discordie, seguitorono per tutta Italia, e contro agli italiani medesimi, crudelissimi accidenti, infinite uccisioni, sacchi ed eccidi di molte città e terre, licenza militare non manco perniciosa agli amici che agli inimici, violata la religione, conculcate le cose sacre con minore riverenza e rispetto che le profane. La cagione di tanti mali, se tu la consideri generalmente, fu come quasi sempre l’ambizione e la cupidità de’ príncipi …» (Ivi, VIII, 1)

[104] Dopo aver promosso la Lega di Cambrai e aver scatenato forze italiane e straniere contro Venezia, il Pontefice si rende conto che gli è rimasto in mano un mucchio di rovine: «Moveva variamente tanta rovina gli animi degli italiani, ricevendone molti sommo piacere per la memoria che, procedendo con grandissima ambizione, posposti i rispetti della giustizia e della osservanza della fede e occupando tutto quello di che se gli offeriva l’occasione, aveano scopertamente cercato di sottoporsi tutta Italia: le quali cose facevano universalmente molto odioso il nome loro [dei Veneziani], odioso ancora piú per la fama che risonava per tutto della alterezza naturale a quella nazione. Da altra parte, molti considerando piú sanamente lo stato delle cose, e quanto fusse brutto e calamitoso a tutta Italia il ridursi interamente sotto la servitú de’ forestieri, sentivano con dispiacere incredibile che una tanta città, sedia sí inveterata di libertà, splendore per tutto il mondo del nome italiano, cadesse in tanto esterminio; onde non rimaneva piú freno alcuno al furore degli oltramontani, e si spegneva il piú glorioso membro, e quel che piú che alcuno altro conservava la fama e l’estimazione comune. Ma sopra a tutti gli altri era molesta tanta declinazione al pontefice, sospettoso della potenza del re de’ romani e del re di Francia, e desideroso che l’essere implicati in altre faccende gli rimovesse da’ pensieri di opprimere lui. Per la quale cagione, deliberando, benché occultamente, di sostentare quanto poteva che piú oltre non procedessino i mali di quella republica, accettò le lettere scrittegli in nome del doge di Vinegia, per le quali lo pregava con grandissima sommissione che si degnasse ammettere sei imbasciadori eletti de’ principali del senato, per ricercarlo supplichevolmente del perdono e della assoluzione. Lette le lettere e proposta la dimanda in concistoro, allegando il costume antico della Chiesa di non si mostrare duro a coloro che, avendo penitenza degli errori commessi, dimandano venia, consentí d’ammettergli: repugnando molto gli oratori di Cesare e del re di Francia, e riducendogli in memoria che per la lega di Cambrai era espressamente obligato a perseguitargli, con l’armi temporali e spirituali, insino a tanto che ciascuno de’ confederati avesse recuperato quello che se gli apparteneva: a’ quali rispondeva avere consentito di ammettergli con intenzione di non concedere l'assoluzione se prima Cesare, che solo non avea recuperato il tutto, non conseguitava le cose che se gli appartenevano.» (Ivi, VIII, 7 – il corsivo è mio)

[105] Per una disputa territoriale, definita «una causa di sí piccola importanza» (Ivi, XI, 13), Massimiliano imperatore chiese e ottenne da papa Leone «dugento uomini d’arme contro a’ viniziani» (Ibidem), e questo fu il risultato finale: «… e nel tempo medesimo predavano e guastavano tutto il paese, del quale erano fuggiti tutti gli abitatori; facendo iniquissimamente la guerra contro alle mura, perché, non contenti della preda grandissima degli animali e delle cose mobili, abbruciavano con somma crudeltà Mestri, Marghera e Leccia Fucina e tutte le terre e ville del paese, e oltre a quelle tutte le case che aveano piú di ordinaria bellezza o apparenza: nelle quali cose non appariva minore la empietà de’ soldati del pontefice e degli altri italiani, anzi tanto maggiore quanto era piú dannabile a loro che a’ barbari incrudelire contro alle magnificenze e ornamenti della patria comune.» (Ivi, XI, 14)

[106] Anche nel libro IV del Cortegiano si riscontra una fugacissima – ma non per ciò meno aspra – allusione alle disgrazie d’Italia, favorite e addirittura incrementate dall’insipienza della sua classe di governo: «… perché molte volte le eccessive ricchezze son causa di gran ruina; come nella povera Italia, la quale è stata e tuttavia è preda esposta a genti strane, sí per lo mal governo, come per le molte ricchezze di che è piena.» (Castiglione, op. cit., IV, xxxiii, 2)

[107] «… se gli uomini avessero quella considerazione che loro s’apparterrebbe d’avere, vie piú bello sarebbe oggi il viver nel mondo e piú dolce che egli non è, e noi, con bastevole cura del corpo avere, molto piú l’animo e le menti nostre ornando e meglio pascendole e piú onorata dimora dando loro, saremmo di loro piú degni che noi non siamo … » (Pietro Bembo, Gli Asolani, secondo l’edizione cit. a cura di C. Dionisotti, II, 1)

[108] «Quivi non sono emulazioni, quivi non sono sospetti, quivi non sono gielosie, con ciò sia cosa che quello che s’ama, per molti che lo amino, non si toglie che altri molti non lo possano amare e insieme goderne, non altramente che se un solo amandolo ne godesse. Perciò che quella infinita deità tutti ci può di sé contentare, e essa tuttavia quella medesima riman sempre. Quivi a niuno si cerca inganno, a niuno si fa ingiuria, a niuno si rompe fede. […] Né d’armati fa bisogno, né di scorta, né di messaggiero. Idio è tutto quello, che ciascun vede, che il disidera. Non ire, non scorni, non pentimenti, non mutazioni, non false allegrezze, non vane speranze, non dolori, non paure v’hanno luogo. Né la fortuna v’ha potere, né il caso. Tutto di sicurezza, tutto di contentezza, tutto di tranquillità, tutto di felicità v’è pieno.» (Ivi, III, 21, passim)

[109] «E queste cose di qua giú, che gli altri uomini cotanto amano, per lo asseguimento delle quali si vede andare cosí spesso tutto ’l mondo sottosopra e i fiumi stessi correre rossi d’humano sangue e il mare medesimo alcuna fiata, il che questo nostro misero secolo ha veduto molte volte e ora vede tuttavia, gl’imperii dico e le corone e le signorie … » (Ivi, III, 22)

[110] Non va omesso – particolare apparentemente secondario, e tuttavia “grave” – che nel fatidico inverno precedente il sacco di Roma, causato dai lanzichenecchi nel 1527, Giovanni de’ Medici rimase ucciso per un colpo d’artiglieria “marcato” Este: «Preseno dipoi i tedeschi, a’ ventiquattro, la via di Borgoforte; dove, non avendo loro artiglieria, arrivorono quattro falconetti, mandati loro per Po dal duca di Ferrara: aiuto in sé piccolo ma che riuscí grandissimo per benefizio della fortuna. Perché essendo il duca di Urbino, seguitandogli, entrato nel serraglio di Mantova nel quale erano ancora loro, corse, nell’accostarsi a Borgoforte, alla coda loro, benché con poca speranza di profitto, Giovanni de’ Medici co’ cavalli leggieri; e accostatosi piú arditamente perché non sapeva che avessino avute artiglierie, avendo essi dato fuoco a uno de’ falconetti, il secondo tiro roppe la gamba alquanto sopra al ginocchio a Giovanni de’ Medici; del quale colpo, essendo stato portato a Mantova, morí pochi dí poi, con danno gravissimo della impresa, nella quale non erano state mai dagli inimici temute altre armi che le sue.» (Guicciardini, op. cit., XVII, 16)

© Copyright 2001 CSIA - University of Trieste Ultima modifica il 01.09.2005
Site best viewed at 800x600  About Please report misfunctioning to the Webmaster