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SUL PETRARCA DI DE SANCTIS

Elvio Guagnini

Sul Petrarca di De Sanctis

 

Rispetto a Dante – nella cui analisi De Sanctis si sente coinvolto profondamente con un consentimento ideologico che lo fa guardare all’autore della Commedia come a una sintesi della storia precedente ma anche come a un emblema ricco di significato per il futuro – il Petrarca, al critico irpino, appare meno coinvolgente.

Da Petrarca, il De Sanctis si sente lontano per vari ordini di ragioni: in primo luogo, per il suo particolare interesse per una scrittura realistica e densa, quale non gli appare certo quella di Petrarca; in secondo luogo, per la sua diffidenza verso i valori formali, verso l’artificio letterario; in terzo luogo, per la sua distanza psicologica dall’uomo.

Eppure Petrarca è l’unico autore al quale, come è stato ricordato, De Sanctis ha dedicato uno studio monografico compiuto. Ed è un fatto che, al Petrarca, De Sanctis lavorò intensamente – ha sottolineato Bortolo Tommaso Sozzi – in diversi periodi della sua vita: a) nelle lezioni della prima scuola napoletana (1839-1848), ricostruite dal Croce sulla base di appunti presi dagli scolari; b) in due corsi zurighesi (1857-1858; 1858-1859), i cui quaderni sono stati pubblicati da Sergio Romagnoli; c) nel saggio su La critica del Petrarca («Nuova Antologia», 1868) poi premesso  d) al Saggio critico sul Petrarca (1869), già scritto nel 1859-60 sulla base degli appunti delle lezioni zurighesi; e) nel capitolo su Il «Canzoniere» della Storia della letteratura italiana (1869-1871), un capitolo che sviluppa e corona, riprendendo ed elaborando molti spunti precedenti, una lunga riflessione critica.

Petrarca, dunque, è uno di quegli autori sui quali – nonostante la non consentaneità del critico con lo scrittore – De Sanctis riflette a lungo perché gli sembra segnare un momento fondamentale della storia letteraria italiana. Nei suoi lati positivi, “moderni”, ma anche nei suoi limiti.

La cultura italiana dell’Ottocento aveva avuto modo di riflettere criticamente, anche prima, sul ruolo del Petrarca. Fondamentali – anzitutto – gli studi del Foscolo, i Saggi sul Petrarca (1820-1823) nei quali veniva stabilito un confronto tra Dante e Petrarca; visti, peraltro, come due autori che avevano in comune la «sollecitudine per l’unità politica d’Italia e nell’avversione al potere temporale della Chiesa». Ma se questo – come ha sottolineato Bartolo Tommaso Sozzi – era un punto d’incontro, Foscolo distingueva tra la «virile coscienza di Dante, educatore degli animi allo “spirito pubblico”, e il sentimentalismo elegiaco del Petrarca, snervatore delle menti giovanili» [evidente anticipazione della presa di posizione sul De Sanctis in La critica del Petrarca]. Atteggiamenti opposti – questi di Dante e Petrarca – che venivano «robustamente storicizzati con mente vichiana e nerbo di stile».

In questa linea era anche il noto Parallelo tra Dante e Petrarca (nel Saggio IV), che si muoveva plutarchianamente sull’“antitesi critica” tra i due autori: «Dante epico, complesso, integrale, sintesi di sentimenti, intelletto e volontà, concentrato e tetragono, ispirato dall’indignazione»; e un «Petrarca lirico, essenziale, monocorde, tutto mera sensibilità, spiritualmente dispersivo e perplesso, cui è musa un’affettività che cela incapacità di solitudine morale».

Un “parallelismo analitico”, questo del Foscolo, che assumeva una connotazione di antitesi storica: «dietro il volto scavato di Dante appare il Medioevo comunale furibondo nella passione politica, culturalmente aristotelico e tomistico; e dietro il florido volto del Petrarca si affaccia l’età piú raffinata e diplomatica delle Signorie, evasivamente platonica (…), ligia in letteratura al nuovo canone dell’imitazione anziché riversata nell’ordimento dell’originalità».

Leopardi, com’è noto, nel suo Commento al Petrarca volgare (Rime di Francesco Petrarca con l’interpretazione di Giacomo Leopardi, Milano, 1826; poi ristampato nel 1836 e nel 1839), si astiene dai giudizi critici, dato che la sua voleva essere una «explanatio simile a quelle dei commenti greci-latini, tale da essere utile soprattutto agli indotti».

Nelle pagine dello Zibaldone, invece, troviamo dei giudizi positivi nei confronti della classica perfezione formale e della capacità del Petrarca di coniugare “familiarità” ed “eloquenza”.

Giudizi negativi venivano espressi da Leopardi riguardo – invece – all’“imitazione” del Petrarca. Sia verso l’imitazione di sé, che gli sembra caratterizzare certi modi della poesia petrarchesca, sia verso l’imitazione dei suoi imitatori, che gli sembrava togliesse forza alla loro poesia. Dunque, una polemica contro la «superstiziosa imitazione e venerazione del Petrarca nel XVI secolo», ma anche contro quella del Settecento: come, per esempio, contro Eustachio Manfredi («Il Manfredi non ha altro che chiarezza e facilità e gentilezza ed eleganza, senz’ombra di forza in nessun luogo»).

Anche questo motivo lo ritroviamo nelle pagine del De Sanctis.

Bisogna dire, come ha fatto Natalino Sapegno, che – nei vari scritti del De Sanctis sul Petrarca, dalle lezioni giovanili al capitolo della Storia – «il giudizio del De Sanctis sul Petrarca si svolge arricchendosi e precisandosi, ma senza contrasti, secondo una linea ferma e coerente». «La quale» – aggiungeva Sapegno (nell’introduzione al Saggio critico sul Petrarca, Torino, Einaudi, 1952) – «potrebbe addirittura essere condensata in una formula abbastanza semplice, ma anche sufficientemente comprensiva: riassumere e impostare con accresciuto rigore i dati della polemica illuministica romantica e risorgimentale contro la tradizione umanistica, debellando le sopravvivenze idilliche arcadiche del nostro secolare petrarchismo, ma salvando al tempo stesso i valori poetici genuini della lirica dell’aretino; cercare dunque, al di là del petrarchismo, il vero Petrarca; e, oltre la letteratura, l’autentica poesia delle Rime». E ancora: «Risolto in termini piú generali, questo modo desanctisiano di porre e definire un problema particolare coincide poi con il riconoscimento e l’affermazione di una autonomia del giudizio letterario specifico, che non rinunzi peraltro ai vantaggi di una piú ampia interpretazione storica, in cui i valori letterari trovino il loro posto, non secondario, ma neppure esclusivo, accanto e dentro le ragioni etiche, politiche e sociali».

Per capire questo procedimento di collocazione storico‑culturale del Petrarca (e i relativi giudizi e valutazioni), è necessario – naturalmente – far mente locale a precisazioni di metodo di grande rilievo espresse dal De Sanctis.

Si veda, al proposito, il saggio sulle Lezioni di letteratura italiana di Luigi Settembrini (Settembrini e i suoi critici). In una importantissima nota, De Sanctis affermava che l’«indipendenza dell’arte» (cioè la sua autonomia; e la conseguente sua considerazione valutativa e critica) doveva essere considerata come «il primo canone di tutte le estetiche e il primo articolo del Credo, né un’estetica è possibile che non abbia questo fondamento». Dunque, bisognava rifiutare le estetiche di tipo “sentimentale” (o fondate sull’esame dei contenuti, dei “messaggi” morali o religiosi, delle ideologie dell’autore, o di altri aspetti del genere). Mentre una critica fondata sull’“indipendenza” (cioè sull’autonomia) dell’arte era da considerarsi per De Sanctis la sola “razionale”, cioè scientifica.

E la critica scientifica – afferma De Sanctis – è quella che considera il contenuto non come indifferente né come un dato astratto. Ma come qualcosa che ha senso se è un antecedente che vive e si muove «nel cervello dell’artista e diventa forma»; e cosí, allo stesso modo, neppure la forma può essere considerata come un a priori che sta a sé, «diversa dal contenuto, quasi strumento o veste, o apparenza, o aggiunto di esso»: ma deve essere considerata come qualcosa che è generato «dal contenuto, attiva nella mente dell’artista: tal contenuto, tal forma». Nella «forma, il critico ritrova il contenuto, “da lui già esaminato come un antecedente”; lo ritrova non piú natura, ma arte; non piú quale era, ma quale era divenuto».

Questo punto della metodologia del De Sanctis era una riflessione che datava fin dagli anni giovanili. Nella Giovinezza, dettata alla nipote Agnese agli inizi degli anni Ottanta dell’Ottocento, De Sanctis ricorda che  – già nel periodo in cui insegnava a Napoli, all’inizio degli anni Quaranta – la sua riflessione riguardava il rapporto tra la cosa (l’argomento, il contenuto) e la parola, lo stile, la lingua, la grammatica. E la cosa, scriveva, doveva essere non presa «nel suo valore assoluto» ma «per rispetto a questo o quell’argomento», cercando la situazione («la cosa non si doveva considerare in maniera isolata. La cosa vive nello spazio e nel tempo, che formano la sua atmosfera, pigliano modo e colore da questo e quel secolo, da questa a quella società»). La situazione è anche nella fisionomia dei personaggi immaginati, creati, fatti vivere, fantasmi che assumono una identità, che hanno determinati tratti psicologici e parlano un linguaggio particolare. Questa è la situazione. Si pensi alle splendide pagine (del 1846-1847) sul Giulietta e Romeo di Shakespeare, che pongono su nuova base il giudizio sul teatro di Shakespeare, sulla sua “inosservanza” delle regole, sulla sua mescolanza di effetti tragici e di effetti comici, che avevano sconcertato sia Voltaire che Manzoni (Lettre à M. Chauvet).

Tutto questo serve a capire la complessità dei giudizi che De Sanctis pronuncia anche su Petrarca.

Il capitolo sul Canzoniere è collocato subito dopo quello sulla Divina Commedia. Non è un caso che il capitolo sia intitolato a un’opera anziché all’autore. L’attenzione dello storico viene puntata sull’opera, Il Canzoniere [cioè: i Rerum vulgarium fragmenta], perché è quella che ha inciso di piú, secondo De Sanctis, nella storia della letteratura successiva, e perché è quella che il largo pubblico ha valutato come una grande opera.

De Sanctis è stimolato dal Petrarca a osservazioni relative alla fortuna, alla ricezione di un autore; e relative anche al successo presso il largo pubblico, alla selezione che il tempo opera dei dati che contano (poi) nella storia letteraria, alla formazione di quello che oggi chiamiamo il “canone”.

Non è che il De Sanctis – privilegiando Il Canzoniere – ignori il resto dell’opera di Petrarca. Ma intende guardare ai fatti – dice – che hanno contribuito realmente alla formazione di una identità culturale italiana in senso largo, ai fatti che – secondo lui – hanno inciso (nel bene e nel male) sulla storia della cultura e del gusto.

Sulla base del Canzoniere, De Sanctis procede anche alla collocazione del Petrarca nella storia della letteratura italiana, nella complessa periodizzazione del suo percorso secolare.

All’interno della stessa Storia, De Sanctis fornisce – come ha ricordato Attilio Marinari – numerose formule atte a sintetizzare lo schema epocale. Vediamo: «Se hassi a dir secolo un’età sviluppata e compiuta in sé in tutte le sue gradazioni, come un individuo; il primo secolo comprende il Dugento e il Trecento, il cui libro fondamentale è la Commedia, e il secondo secolo comincia col Boccaccio ed ha il suo compimento, la sua sintesi nel Cinquecento». «Il Seicento non è una premessa, è una conseguenza». L’Arcadia «è un’ultima forma della decadenza». «La nuova letteratura fa la sua prima apparizione nella commedia del Goldoni», per proiettarsi verso la «nuova Italia» e con la funzione di «rifarvi la pianta uomo»; ma di fatto, nel 1870, di essa non è possibile enucleare altro se non «la propedeutica alla letteratura nazionale moderna, della quale compariscono presso di noi piccoli indizi con vaste ombre».

In realtà, poi, c’è tutto un gioco di premesse alla rinascita: Machiavelli (per la saldatura tra progetti e azione, tra idealità e prassi, tra fine e mezzi); l’Ariosto con il suo “riso”, segno della “modernità”. Eccetera. Sicché il quadro diventa davvero mosso.

Tra il primo e il secondo “secolo” (cioè : periodo, nell’accezione desanctisiana), tra quello che si chiude con Dante e quello che comincia con Boccaccio, c’è Petrarca, scrittore di una età della “transizione” (la definizione è di De Sanctis).

Uomo nuovo, del secondo “secolo”, sarà il Boccaccio, autore del Decamerone, autore – cioè – di un’anticommedia, o meglio di una commedia tutta umana; ma anche il Petrarca era già uomo nuovo (anche se meno di Boccaccio) perché aveva abbandonato il mondo dei simboli per esprimere – almeno tendenzialmente – la natura e il reale.

Ma è anche un fatto che – nella loro prospettiva (in quella di Boccaccio e di Petrarca) – conterà particolarmente il motivo letterario, dove «il senso del bello – ha scritto Lina Bolzoni – sarà piú importante del senso morale».

Dante, che chiude il “secolo” precedente, è il “genio poetico” (ha scritto Muscetta) che, di fronte alle astrattezze a cui conducono le correnti ascetiche del secolo, riesce a dare una plasticità di rappresentazione realistica a tutto il mondo medievale. E De Sanctis è il primo critico che, possedendo il concetto di forma nella sua pienezza dialettica, ha avuto la capacità di comprendere come un’opera possa sopravvivere alla società e alle credenze religiose da cui nacque. «La modernità di Dante – afferma il De Sanctis – è nella vivente unità in cui è espresso un contenuto reale». De Sanctis identifica i motivi per cui Dante si colloca al punto piú alto del passato e cioè proprio «la coerenza tra l’uomo e lo scrittore, tra le sue lotte e la sua poesia».

Ma, a incidere sulle piú giovani generazioni successive, sarà Petrarca, non Dante : Petrarca, «uomo di transizione tra Medioevo ed età moderna – ha ribadito Muscetta –, artista e letterato piú che poeta».

Non è un caso che il capitolo sul Canzoniere [cioè sul Petrarca] della Storia cominci ponendo il problema della fortuna di Dante, anzi della Commedia, dopo la morte del poeta. Ricordando che l’impressione che la Commedia aveva prodotto non era stata solo letteraria; e che il libro era tenuto «piú che poesia» e che esso era spiegato e commentato come la Bibbia e Aristotele, «accolto con la stessa serietà con la quale era stata concepito».

La generazione dopo Dante (a De Sanctis interessano le problematiche generazionali) aveva obiettivi nuovi e diversi. Con Dante, il Medio Evo aveva avuto il culmine ma era anche finito un mondo. Una «fede seria e profonda» (sono parole di De Sanctis) aveva fatto «di Caterina una santa e di Dante un poeta».   In Petrarca «quel mondo» c’è ancora – scrive De Sanctis – ma «gioca nel suo cervello […] mescolato con altre divinità. Ciò che di serio si muove nel suo spirito è il sentimento dell’arte congiunto con l’amore dell’antichità e dell’erudizione. È, in abbozzo, l’immagine anticipata dei secoli seguenti, di cui fu l’idolo. L’arte si afferma come arte e prende possesso della vita».

Petrarca si presenta, per De Sanctis, con i segni – fuori – della perfezione formale, ma anche con i segni – dentro – della scissione e della fiacchezza. Il suo mondo si manifesta nella «contemplazione d’artista», non piú attraverso «fede e sentimento», cioè lotta e capacità di indirizzare i propri obiettivi.

Dunque, «dissonanza»: dissonanza tra una forma «finita e armonica» e un «contenuto cosí debole e contraddittorio».

Una dissonanza che si esprime – scrive De Sanctis – «nei sentimenti che prevalgono a’ tempi di transizione: la malinconia, la tenerezza, la delicatezza, il molle e il voluttuoso fantasticare». Una sorta di malattia, di abbandono ai flutti del doppio mondo, di quello che se ne va, di quello che viene, e che rappresenta una contraddizione che Petrarca non ha la coscienza né la forza di sciogliere.

Il concetto di “indipendenza” (o di “autonomia”) dell’arte (e della valutazione da esprimere sull’opera, a partire dall’opera) permette a De Sanctis di cogliere aspetti positivi e limiti dell’opera del Petrarca.

È chiara – come si è detto – la distanza del critico dall’uomo, in termini di consonanza umana. È chiara anche la portata di una valutazione “romantica” per cui il Petrarca è, tutto sommato – per De Sanctis –, l’autore soprattutto (quasi solo) del Canzoniere in vita e in morte di Laura.

Petrarca vive, secondo il critico, nelle e delle contraddizioni, e anche delle proprie debolezze che non gli permettono di reagire o di ribellarsi: «il suo amore – ha ricordato Paolo Jacchia con le parole di De Sanctis- “non è cosí possente che lo metta in stato di ribellione verso le sue credenze, né la sua fede è cosí possente che uccida la sensualità del suo amore”; e dunque “manca al Petrarca la forza di sciogliersi da questa contraddizione, e piú vi si dimena, piú vi s’impiglia”».

Ne consegue che, nel Canzoniere, da un lato si ritrova un mondo «astratto, retorico, sofistico», da un altro lato il tempio «gotico» di Dante che – sul piano della forma – «si è trasformato in un bel tempietto greco, nobilmente decorato, elegante, con luce uguale, con perfetta simmetria, ispirato da Venere, dea della bellezza e della grazia […] tempio dell’armonia, meraviglia d’arte». Con l’artista che gode, e con l’uomo che è scontento (e che vive nel conflitto tra ragione e natura); e dove l’uomo appare minore dell’artista. Dove una situazione che «poteva essere tragica rimane elegiaca»: «poesia di un’anima debole e tenera, che si effonde malinconicamente in dolci lamenti, assai contenuta quando possa vivere in immaginazione e fantasticare: l’uomo svanisce nell’artista».

Ne derivano – per De Sanctis – alcune conseguenze. Da un lato, un culto della forma che, negli imitatori (ma anche nel Petrarca stesso), sarebbe diventato artificio che impediva un approccio diretto e profondo alla realtà (con  conseguenze negative sul futuro della letteratura). Da un altro lato, lo scollamento tra idee, culto dell’immagine e capacità di elaborare una coscienza e di attingere al reale. Da un altro lato, ancora (come conseguenza del dibattersi nelle contraddizioni, e della volontà di rappresentarle), un tentativo moderno di «esplorazione di sé» e di elaborazione di «strumenti della coscienza» (come li ha definiti Dante Della Terza) per penetrare nell’interiorità piú profonda dell’individuo, anche di strumenti formali per la rappresentazione delle contraddizioni (ne ha trattato a lungo Ugo Dotti in un saggio su Petrarca e la scoperta della coscienza moderna, Milano, Feltrinelli, 1978).

Una efficace sintesi del Petrarca di De Sanctis è quella che si trova in un saggio di Dante Della Terza (Letteratura Italiana, vol. IV: L’interpretazione,Torino, Einaudi, 1985). Un saggio nel quale si sottolinea il gioco di contraddizioni che sono alla base della “modernità” inquieta dello scrittore («L’inquadramento del personaggio Petrarca registra le inquiete parvenze della poesia del Canzoniere: fede e sensualità s’intralciano frequentemente il passo, la riflessione distrugge ciò che l’immaginazione costruisce e nella vita stessa dell’immaginazione il poeta può trovare sollievo temporaneo non appagamento. Se la modernità del Petrarca consiste nell’instancabile esplorazione di sé di cui si mostra capace, negli strumenti d’introspezione che è in grado di mobilitare per fare piena luce nel tempio della coscienza umana, Laura è la bella forma messa lí per essere contemplata e dipinta, oggetto di rappresentazione e non possesso di verità. Essa non ha quelle qualità individuali che sono gli attributi della realtà rappresentata dalla poesia […] L’incompiutezza di un ideale non raggiunto diventa di fatto un’eredità, un ponte lanciato verso il futuro».

E vorrei aggiungere, conclusivamente, che è significativo il fatto che Petrarca abbia stimolato De Sanctis a una riflessione sui metodi critici e sulla loro portata cognitiva (come nell’articolo su La critica del Petrarca, pubblicato nella «Nuova Antologia» del 1868; e , poi, collocato nel 1869 in apertura del Saggio critico sul Petrarca).

Riflessione polemica – quella del De Sanctis – contro una critica capace di dare solo mezzi giudizi, non giudizi (sullo stile, sugli elementi retorici, sulla psicologia, sui contenuti, sulle idee, sul contesto storico). Mentre sarebbe stato auspicabile, per De Sanctis, che anche la critica sul Petrarca arrivasse a obiettivi piú alti e riuscisse a «determinare ciò che è vivo e ciò che è morto […] ci accorgeremo che nel Petrarca è morto tutto ciò che è imitato e imitabile, il doppio petrarchismo, il retorico e il platonico. Molto vi è rimasto di vivo; e intenderemo pure che, se in questa vita ci è il manchevole e lo stanco e il meccanico, gli è perché non abbondò in lui, come ne’ sommi, la potenza, la virilità, la forza del realizzare; giungendo a questa conclusione, che quello che gl’idealisti reputano a sua gloria, fu appunto sua debolezza. Un lavoro cosí fatto non sarà il panegirico del Petrarca, ma sarà il Petrarca vero […]».

Ma il Saggio critico sul Petrarca è anche un libro di analisi, fini e intense. Come quelle dedicate al sonetto Erano i capei d’oro a l’aura sparsi. E, infine, penso che sia necessario ricordare la valutazione –misurata e insieme adeguata ai suoi canoni valutativi – dell’eredità del Petrarca, dell’eredità della sua “malattia” e della sua “malinconia” fino alla cultura moderna: una valutazione che faceva i conti con gli alti e i bassi di questa eredità, ma anche con le qualità proprie del capostipite di esse: «Il Petrarca nelle maggiori tensioni dell’anima non dimentica mai d’essere artista: come Cesare muore con decoro, egli piange con grazia. La bellezza della sua forma è tale che rattempera e rammorbidisce l’effetto che nasce dal fondo, qual è l’impressione che vi fa la piccola morta del Manzoni, o Laocoonte che voi contemplate con ammirazione e con godimento. Mi direte che questo è illusione; ma l’arte è realtà innalzata ad illusione; e, se desideriamo in Petrarca un po’ piú di realtà, permettetemi ch’io soggiunga, che desidero in molti moderni un po’ piú d’illusione».

© Copyright 2001 CSIA - University of Trieste Ultima modifica il 01.09.2005
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