
Giorgio Bàrberi Squarotti
La poesia del Petrarca: dalle ombre alla luce
Il Sole, che è il frequente emblema di Laura, di Dio, dei
valori supremi del mondo, nel Triumphus Temporís muta
radicalmente figurazione e significato,
e proprio per questo, all’inizio del “capitolo” del poema petrarchista, è
chiamato in causa a pronunciare un’orazione di tesa e suprema
eloquenza, in sé, in assoluto, non rivolta né al
mondo, né agli uomini, né a un qualsiasi e teorico
interlocutore, ma, se mai, a Dio, non nominato tuttavia eppure presente,
biblicamente, in tutto il Triumphus, in
quanto ispiratore e anzi autore dell’opera sacra:
Da l’aureo
albergo, co l’Aurora inanzi,
sí ratto
usciva il Sol cinto di raggi
che detto
avresti: — E’ si corcò pur dianzi! —
Alzato un poco, come fanno i saggi,
guardossi intorno, et a se stesso
disse:
— Che pensi? Omai conven che piú cura aggi:
ecco,
s’un che famoso in terra visse
de la sua
fama per morir non esce,
che
sarà della legge che ’1 Ciel fisse?
E se fama mortal morendo cresce,
che spegner
si devea in breve, veggio
nostra eccellenzia al fine, onde m’incresce.
È un ossimoro di immediata intensità:
l’emblema del Tempo fortemente si impersonifica nella
divinità classica, figurativamente descritta con i raggi splendenti che ne
circondano il volto, ma è chiamato a pronunciare un’ammonitoria
orazione a sé e a Dio stesso che pure ne è
creatore e ministro, e ha toni fra il concettuale, la riflessione e la reazione (se cosí si può dire)
autobiografica. Il viaggio del Sole
dall’aurora fino al tramonto è umanizzato all’estremo: il commento del poeta («detto avresti: E’ si corcò pur dianzi!»), cosí quotidianamente pronunciato, il Sole divino che
alza gli occhi per guardarsi intorno per contemplare la realtà e le
vicende del mondo, la similitudine del Sole
che si volta intorno e i “saggi” che in tale atteggiamento meditano fino a chiarire le idee, i giudizi, il significato
dell’essere e dell’agire. La personificazione è acuita ancora dalla dichiarazione del Sole «onde m’incresco», come per
risolvere nella battuta del
sentimento e del cuore la riflessione sulla Fama, in forza della quale gli
uomini possono pareggiarsi con il Sole come la divinità della luce, che governa il cielo e che deve
paradossalmente chiedere a Dio di essere loro uguale per durata:
Che piú s’aspetta? e
che puote esser peggio?
che piú nel ciel
ho io, che ’n terra un uomo,
a cui esser egual
per grazia chieggio?
Quattro cavai con quanto studio como,
pasco nell’oceano e sprono e sferzo,
e pur la fama d’un mortal
non domo!
Ingiuria da corruccio, e non da
scherzo,
avenir questo a me, s’i’ fosse in cielo
non dirò primo, ma secondo o terzo.
La protesta del Sole in quanto si
trova inferiore rispetto a un uomo famoso,
consacrato e celebrato in sfida vittoriosa contro il Tempo, che il dio solare governa, ha una struttura fortemente
oratoria: egli si rivolge a se stesso
per un migliore innalzamento di tono, ma rileva nel modo piú sottilmente efficace i limiti del Sole e del Tempo che regola: una divinità terrena, anzi un demiurgo
che vuole enfaticamente presentarsi
come la vittima della pretesa degli uomini mortali di essere eternati dalla Fama, che è una divinità
tanto a lui inferiore.
La rappresentazione è legata
chiaramente con le forme descrittive
e narrative della letteratura mitologica, e la citazione opportuna è con le Metamorfosi ovidiane.
La Fama ha un potere straordinario rispetto
al compito e alle azioni che il Sole deve compiere con fatica continua, perché è in grado di innalzare al cielo
gli uomini in forza del suo potere
intellettuale, indipendentemente dal moto del tempo che appare, allora, in qualche modo meccanico, e i cavalli del Sole, che egli cita come quelli che deve
strigliare, pascolare, spronare e sferzare, cioè con
tutta la serie di azioni che competono al servo di stalla, ampiamente e minuziosamente sono descritti non diversi
certamente da quelli di un signore mondano che sia il proprietario di cavalli. La contrapposizione di se stesso
all’uomo illuminato dalla Fama riporta il Triumphus
a una situazione e a una serie di eventi e di
azioni mondane, e il Sole a questo livello riconduce la sua presentazione e la sua prosopopea:
Or conven che
s’accenda a ogni mio zelo,
sí ch’ai mio volo l’ira adoppi i vanni,
ch’io porto invidia agli uomini, e no ’1
celo:
de’ quali io veggio
alcun, dopo i mille anni
e mille e mille, piú chiar che ’n vita,
et io m’avanzo di perpetui affanni.
Si pensi a confronto il Sole del Paradiso dantesco: il
pianeta che raffigura e rappresenta le
persone degne di autentica fama perché giuste,
e consacrate per questo dal giudizio divino, che è eterno, e le libera dal tempo nella beatitudine divina. Il
Petrarca determinatamente riporta la
divinità, che governa il Tempo e fa trascorrere gli anni e i secoli, al
livello della mitologia pagana, con i moti dell’animo, le considerazioni e i sentimenti, i comportamenti fortemente
enfatici che si addicono a chi opera
sulla terra, nel mondo, tanto è vero
che al Sole sono dati in possesso i quattro cavalli, e le vicissitudini quotidiane dall’alba al tramonto, dall’oriente
all’occidente, fino all’Oceano e
alla notte, appaiono tanto analoghe a quelle della vita dell’uomo, con
in piú, secondo parole di protesta e di rivolta del Sole, il vantaggio della
durata indefinitamente prolungata per il potere
della Fama che lo fa trionfare sul Tempo che la divinità solare regge
con tanta fatica e costrizione.
Si pensi ai cavalli del
Sole che devono essere governati e condotti nel quotidiano cammino, e agli altri cavalli emblematici
delle passioni dell’uomo,
diversamente sfrenati, ma con i limiti e doveri che l’uomo stesso fa a se
stesso in forza della ragione, che è pur tuttavia una forma interiore dell’uomo, che egli stesso
regola e salva dagli eccessi e dalle violenze dei sensi. È un altro modo
del Sole di paragonare se stesso all’uomo
come superiore per eccesso di prosopopea e superbia. Il discorso del
Sole non ha assolutamente nulla di biblico,
ma è una raffigurazione esclusivamente pagana, e siamo anche in un ambito poetico alquanto lontano rispetto
all’ambivalenza di figure quali sono, a diverso
livello, l’emblema e l’allegoria che punteggiano
i Rerum vulgarium fragmenta.
Nell’ambito pagano l’orazione del Sole rimanda, allora, al giudizio
di hybris che gli dei pronunciano nei confronti degli uomini che si
esaltano, pretendendo di potersi
innalzare fino all’essere essi stessi dei. La hybris suprema è compiuta per il tramite della Fama, che li
solleva all’eternità per il loro
valore d’arte, poesia, virtú, imprese, meditazione, concetti, pensiero. Anche a questo proposito il Petrarca si
allontana dalla hybris
biblica della Genesi, in quanto Adamo ed Eva non hanno la pretesa dell’eternità per la fama raggiunta, ma in
assoluto, per il solo fatto di avere
accettato la proposta del Serpente di mangiare il frutto allegorico del potere divino, ed è una scelta, non una
conseguenza di uno straordinario merito. Ma la protesta del Sole che proclama
la sua decisione di riportare alla
giusta misura se stesso e gli uomini, egli divinità che regola il tempo
per legge divina (la creazione della luce e
del sole prima di quella del mondo e degli uomini contiene in sé un’allusione, questa sí, ai sei giorni della
creazione secondo la rappresentazione biblica), gli uomini perituri per una
durata di vita infinitamente breve, viene ad avere un che di personale, di autobiografico, se cosí si può dire, e il tono è del
“corruccio”, dell’“invidia”, quest’ultimo neppure
celato, come il Sole dichiara («e no ’1 celo») per affermare a se stesso
di essere il primo nel mondo, là dove soltanto
la pretesa della Fama infinitamente e falsamente può arrivare a convincere gli
uomini di essere eterni anch’essi, non commisurati dal tempo, quando siano
state riconosciute le loro opere di sublime valore.
Esclusivamente nell’ultima
terzina dell’orazione del Sole il tono passa dalla contingenza e dalla
personificazione all’assoluta concettualità:
Tal son qual era anzi che stabilita
fusse la Terra, dí e notte rotando
per la strada ritonda
ch’è infinita.
È la proclamazione di assoluto e
supremo valore e potere del Sole in contrapposizione
alla Fama e alle sue celebrazioni degli uomini dotati di eccezionali
virtú. Soltanto a questo punto la prospettiva della
narrazione e della rappresentazione dei Triumphi
ritorna ai modi e alle forme della visione, e a parlare è nuovamente il
poeta stesso. Si può dire, allora,
che la prosopopea e l’orazione del Sole siano la traduzione del poema del Petrarca nella stessa modalità
di Dante nella Commedia, che può vedere e riconoscere le anime
dopo la morte per straordinario privilegio concesso
da Dio, in quanto vengono tradotte in figure, in similitudini di corpo,
di punizione, di purgazione, di beatitudine. Ma la visione del Petrarca non è
garantita da Dio, bensí è un evento
improvviso ed esemplare, assoluto: «vidi
una gran luce...» (Triumphus
Cupinidis I ii). La visione del Sole appare
portata in termini umani, perché in questo modo il poeta possa ottenere la piú adeguata lezione da quanto ha potuto vedere dai Triumphi
dell’Amore, della Pudicizia, della Morte e della Fama, prima che possa
sapere il significato del Tempo e, successivamente
e conclusivamente, dell’Eternità. Non per nulla la narrazione della visione
continua con una similitudine tipicamente cortese e dantesca:
Poi che questo ebbe
detto, disdegnando
riprese il corso, piú veloce assai
che falcon
d’alto a sua preda volando,
piú dico, né pensier
poría già mai
seguir suo volo, non che lingua o stile,
tal che con gran paura il rimirai.
La parola del Sole e, prima, i cavalli, il carro, le operazioni
del viaggio celeste fino all’arrivo e al
riposo nell’Oceano, come sono proprie dell’auriga attento e sicuro, infine la
ripresa del volo per il cielo, sono la traduzione in termini umani e mondani
della visione che il poeta contempla e via via segue nella forma del viaggio, analogo a quello di Dante. La similitudine del
falcone rileva nel modo piú efficace
la trascrizione degli eventi esemplari del mondo e dell’esistenza umana (e della Natura). È come tanto
spesso accade nella Commedia, usata per antifrasi: il volo del falcone è
infinitamente piú lento, pur nel momento in cui cala dall’alto sulla
preda per coglierla piú efficacemente e
sicuramente, rispetto al volo del Sole con i suoi quattro cavalli.
Ma in questo modo il Petrarca può riportare i termini della visione a quelli danteschi della rappresentazione di
figure e di eventi per eccesso rispetto alla realtà terrena: in piú, la similitudine del
falcone passa rapidamente
all’esemplificazione letteraria alla concreta scrittura poetica: “lingua e stile”, che pure sono cosí veloci tra le operazioni
degli uomini in quell’ambito supremo che è l’arte (quella che, allusivamente,
allora rimanda alla fama che per parola e per disegno e altro segno può essere
consacrata in opposizione al potere e alla durata del Sole), sono inadeguati di
fronte al volo del Sole; e questo è il breve punto di junctura dalla visione alla
meditazione del poeta. La visione come spettacolo tipicamente classico passa al
concetto, alla dichiarazione della riflessione e del giudizio sulla condizione
umana:
Allor tenn’io il viver nostro a vile
per la mirabil sua velocitate,
vie piú che inanzi no ’1 tenea
gentile,
e parvemi terribil vanitate
fermare in cose il cor che ’1 Tempo preme,
che, mentre piú le stringi, son passate.
Il discorso petrarchesco, bruscamente, trascorre cosí dalla
figura pagana del Sole e dalla sua protesta per l’eccesso della fama degli
uomini alle citazioni bibliche, e le allusioni classiche sono inglobate
nell’affermazione rapida e rigorosa della «terribil vanitate» delle esperienze e delle azioni e dei valori
puramente mondani. A questo punto della visione, contemplando l’estrema
velocità del trascorrere del Tempo, il Petrarca passa dalla rappresentazione
delle vicende del mondo e delle conquiste dell’uomo all’affermazione apodittica
della vanità assoluta della realtà mondana, in forza dell’apparizione del Sole
e della rapidità del suo viaggio quotidiano dall’alba alla
notte. È vero che, in questo modo, il Petrarca si vuole distinguere dalla
visione ciceroniana del Somnium
Scipionis e soprattutto dalla contemplazione
dell’infinita piccolezza della Terra quale Dante compie dall’alto
del Cielo, a confronto con gli altri pianeti che ha
già attraversato, giunto ormai nel Primo Mobile, sempre piú in alto, verso
Dio. La riflessione di Dante è possibile perché egli è giunto a vedere appieno
l’universo sublunare, e la Terra può essere paragonata agli altri pianeti e
all’infinità dei cieli.
La meditazione del Petrarca, invece, è priva di
paragoni, assoluta, e nasce di colpo, in alternativa (in fondo) rispetto
alla visione del Sole, ma senza uno svolgimento coerente e logico. Ancora una volta il discorso del Petrarca non riguarda tanto la
condizione umana quanto la sua specifica esperienza: non per nulla dichiara di
ritenere «a vile» quello che, prima, aveva detto «gentile»: la fama, allora, anzitutto,
i valori mondani. La proclamazione della vanità delle cose umane passa
all’ammonizione, che riguarda anzitutto se stesso, la propria celebrazione dei
valori mondani, in cui fino a quel momento credeva:
Però chi di suo stato cura o teme,
proveggia ben, mentr’è l’arbitrio intero,
fondare in loco stabile sua speme,
che quant’io vedi il Tempo andar leggiero
dopo la guida sua che mai non posa,
io no ’1 dirò, perché poter non spero:
i’ vidi il ghiaccio e lí stesso la
rosa,
quasi in un punto il gran freddo e ’1 gran caldo,
che, pur udendo, par mirabil cosa.
Dalla visione (ormai, del resto, oltrepassata) passa alla
pedagogia morale, fino al punto piú acuto e alto della riflessione sulla
vanità delle vicende e dei valori mondani, che è
fondamentalmente allusiva ed emblematica: il volgere del Tempo che è cosí
rapido da non riuscire quasi a distinguere fra il ghiaccio dell’inverno e la
rosa della primavera, fra il gran “freddo” e il “gran caldo”.
L’emblema della rosa è anche nella Commedia, ma in una
prospettiva opposta rispetto a quella del Petrarca: Dante vede le spine rigide
e feroci per tutto l’inverno, ma sa che, dopo, sulla cima s’apre la rosa, che è
la speranza, il futuro, il fiore del paradiso, per la certezza della fede e
della carità. Gelo e rosa, invece, sono le alternanze di nascita e morte, di illusione e vanità, nella riflessione del Petrarca dopo
aver visto il volgere infinitamente veloce del Sole e il giudizio sulla
condizione umana che il signore del Tempo proclama con la piú alta eloquenza.
C’è una qualche discrepanza, allora, fra il discorso
del Sole e l’opposta meditazione del poeta, che pure ha ascoltato l’orazione
di Febo: il Sole classico è a questo punto lasciato da parte, di fronte alle
figure bibliche; e, quando ritorna a essere citato nella visione come struttura
del Triumphus, soltanto allora riappare
nel tentativo della junctura fra
classicità pagana e biblica:
Veggio or la fuga del mio viver presta,
anzi di tutti, e nel fuggir del Sole
la ruina del mondo manifesta.
Le riflessioni del poeta sono esposte in modo rigoroso,
apodittico, a confronto con la visione del trionfo del Tempo. La netta diversità
di tale “capitolo” del poema rispetto ai primi quattro precedenti rileva
anzitutto lo stacco che il Petrarca vuole dimostrare di fronte a Dante: la
meditazione sulla vanità della vita e delle azioni umane è
ben altro rispetto ai concetti e ai principi che tanto spesso costituiscono le
ragioni e l’andamento della Commedia. Ma la differenza fra la visione del Sole
e la riflessione morale del poeta è acuita, allora, dal fatto che, per un
verso, il Petrarca continua a presentare l’andamento e le raffigurazioni delle
apparizioni nelle diverse occasioni dei personaggi e del loro agire o essere,
insieme con l’accompagnamento dei luoghi, delle forme, delle situazioni
specifiche in cui i Triumphi si esplicano, ma cerca, per l’opposto verso, di concretare in
tali modalità le meditazioni che sono specifiche della sua mente. Sí, il
Petrarca riprende e cita esempi soprattutto biblici, ma anche classici della
vanità della vita e delle operazioni e delle vicende degli uomini, tuttavia
riportandole alle proprie, per la decisiva occasione della visione del Sole. Si
può dire che il Triumphus Temporis aspiri esemplarmente alla congiunzione di
rappresentazione oggettiva ed esperienza del cuore, anche se, in dipendenza
della raggiera di citazioni bibliche e classiche, la proclamazione della vanità
della vita degli uomini e l’estrema rapidità del trascorrere del tempo umano
finisce a coinvolgere tutti gli uomini in quanto
sottoposti all’uguale destino di irrimediabile precarietà.
Il Sole come il signore del Tempo e il poeta sono posti a
fronte come i due protagonisti del Triumphus:
il dio con il carro e i cavalli e il faticoso viaggio dall’alba alla notte, che è l’occasione perché il poeta prenda
consapevolezza della velocità del trascorrere del tempo, nella sospensione
della sua visione con tutta la sua cultura e la conoscenza, tuttavia
trasferendo l’oggettività di essa nella soggettività della riflessione
dell’anima:
Segui’ già le speranze e ’1 van desio:
or ho dinanzi a gli occhi un chiaro specchio
ov’io veggio
me stesso e ’1 fallir mio,
e quanto posso al fine m’apparecchio,
pensando al breve viver mio, nel quale
stamani era un fanciullo et or sono vecchio.
Fra le due età della vita c’è una contrapposizione esemplare,
che rileva in modo straordinariamente intenso e grandioso lo stacco fra la
visione del poema petrarchesco e quella di Dante. La consapevolezza della
brevità della vita e della rapidità del passare del
tempo non può essere rilevata e compendiata se non per lo strumento supremo
della poesia, e del poeta che, proprio anche per questo, ha ottenuto il
privilegio della visione. Non si tratta piú della sfida della Fama contro il
Tempo, di cui il poeta è precipuo esempio, ma del raffronto fra il Sole e
l’anima, il signore del Tempo e colui che è giunto a
questo punto a comprendere in forza dell’apparizione del Sole la vanità
dell’esistere e la brevità della vita: «Veggio or la
fuga del mio viver presta»: cioè il punto di maggiore
rilievo della riflessione si ha nel momento in cui il poeta ampiamente espone
la sua condizione umana, e allora ecco che egli mette a confronto la propria
giovinezza rapidamente trascorsa con l’attuale vecchiaia già raggiunta. La
visione del Sole con l’orazione che egli pronuncia davanti al poeta può, allora, essere riproposta come fondamentale
concetto: «nel fuggir del Sole / la ruina del mondo
manifesta». La ruina del mondo è una condizione
assoluta, un dato di fatto esemplarmente compreso dal poeta e offerto alla
suprema meditazione poetica. Il Petrarca insiste su questo stesso punto di oggettività della visione del Tempo per la conseguenza
dell’operare del Sole e di meditazione dell’anima, con l’immediata
consapevolezza dello strazio del cuore:
Forse che ’ndarno
mie parole spargo,
ma io v’annunzio che voi sete offesi
da un grave e mortifero letargo,
che volan l’ore e ’ giorni e gli anni e ’ mesi.
Suasivamente e sapientemente il
Petrarca mescola un poco le misure del Tempo, perché cosí è possibile rilevare ulteriormente
la brevità delle vicende umane: c’è, per un verso, l’insistenza sull’operare
del Sole; per l’altro, la trasposizione di tale visione obiettiva nel concetto
e nell’ammonizione dell’anima.
La visione del Sole si riunisce piú chiaramente e determinatamente,
a questo punto, come il regolatore del Tempo che rapidamente cancella tutte le
vicende umane in opposizione alla Fama che sembra poter vincere la precarietà
degli accadimenti:
Poi ch’io ebbi
veduto e veggio aperto
il volar e ’1 fuggir del gran pianeta,
ond’io ho danni et
inganni assai sofferto,
vidi una gente andarsen queta
queta,
senza temer di Tempo o di sua rabbia,
ché gli avea in guardia istorico
o poeta.
Di lor par che
piú d’altri invidia s’abbia,
che per se stessi son levati a volo,
uscendo for de la comune gabbia.
È l’estremo del Sole e del Tempo contro la Fama. A questo punto,
ugualmente si attua l’opposizione fra la visione e la riflessione:
Contro costor colui che splende solo
s’apparecchiava con maggiore sforzo,
e riprendeva un piú spedito volo:
a’ suoi corier’
radoppiato era l’orzo,
e la reina di ch’io sopra dissi
d’alcun de’ suoi già volea
far divorzo.
La meditazione del poeta intorno al passare del Tempo si trasferisce
nelle figurazioni della visione, con il Sole e le sue similitudini, ma
ugualmente la Fama è nominata come “reina” per
rilevare la forza e il potere che essa ha in quanto
degna avversaria del Signore del Tempo come cancellazione e distruzione di
tutte le opere umane. L’alternanza fra riflessione della mente e raffigurazione
della visione con le forme esemplari del Sole costituisce una novità fondamentale
nel quinto “capitolo” dei Triumphi, cosí
come ugualmente il descrivere, il raccontare, il vedere e il discorso e
l’orazione in prima persona: all’inizio, del Sole; a questo punto, del
personaggio innominato, che parla per confutare radicalmente le ambizioni della
Fama, già costretta a rinunciare ai meno certi e meno esemplari personaggi che
ha finora considerati degni di conservazione.
L’orazione ammonitoria oltrepassa notevolmente il
livello e l’esemplarità di quella del Sole, e in questo modo il Petrarca cerca
di saldare concetti e visione, per il tramite della voce che scende dal cielo,
non piú personificata nel Sole, ma come oratore assoluto, al tempo stesso
astratto e allusivamente divino, come se fosse il padrone del Sole stesso, colui che lo guida e lo sprona all’estrema rapidità dei suoi
viaggi che comporta la cancellazione delle aspirazioni e delle creazioni terrene, umane, tanto è vero che
ritorna la figurazione dei corsieri del Sole con tutte le metafore e gli emblemi che comporta, fino
all’eccesso della realisticità («a suoi corsier’ radoppiato era l’orzo»), sia pure in funzione del sollevamento
dell’eloquenza al livello sublime
della parola pronunciata dall’alto:
Udi’ dir, non so a chi, ma ’1 detto scrissi:
“In questi umani, a dir proprio,
ligustri,
di cieca oblivion
che scuri abissi!
Volgerà il Sol, non pure anni, ma
lustri
e secoli, vittor
d’ogni cerebro,
e vedrà i vaneggiar’
di questi illustri.
Quanti fûr
chiari fra Peneo et Ebro
che son venuti e
verran tosto meno!
quanti sul Xanto e
quanti in val di Tebro!
Un dubbio iberno,
instabile sereno
è vostra fama, e poca nebbia il rompe,
e ’1 gran tempo a’
gran nomi è gran veneno.
Passan vostre grandezze e vostre pompe,
passan le signorie, passano i regni:
ogni cosa mortal
Tempo interrompe
e, ritorta a’ men buon’, non dà a’ piú degni;
e non pur quel di fuori il Tempo solve,
ma le vostre eloquenzie
e ’ vostri ingegni”.
Il Petrarca riordina la visione del Tempo nella gerarchia del
Sole, con la protesta, l’accusa del Sole
per la hybris degli
uomini che pretendono di essere eterni come il Sole stesso e il Tempo,
ma in quanto inferiore rispetto alla
suprema verità che proclama la voce del Cielo che il poeta ode come
chiarimento definitivo del valore e della durata
delle imprese e dell’arte e dell’eloquenza degli uomini. Le potenze politiche e l’arte sono indubitabilmente
una vana illusione di eternità. Il Triumphus Temporis contiene
in sé la rappresentazione e la visione del
Sole come ente tuttavia mondano, anche se è superiore agli uomini in quanto regola il Tempo e
la durata (brevissima) delle vite e
delle azioni degli uomini. Il Sole è presentato nella sua univoca assolutezza al confronto con le molte
presentazioni, nei Rerum vulgarium fragmenta (e non potrebbe essere diversamente, in fondo, dato che il genere
poematico è radicalmente diverso rispetto al genere
lirico), del sole presso che sempre come emblema, anche quando il discorso lirico parte dal dato reale
del giorno, della luce, della
stagione. La sentenza del Quoèlet nilsub sole novi è al tempo stesso dal Petrarca confermato e trasformato, nel
senso che tutto nel mondo trascorre e rapidamente cancella gli eventi
mondani, in questo modo facendoli
ugualmente nulla; ridotti come sono «in poca polve» («Cosí fuggendo il mondo seco solve, / né
mai si posa né s’arresta o torna /
fin che v’ha ricondotti in poca polve»), ma è vero, all’opposto,
che gli eventi e le esperienze umane sono l’oggetto infinitamente vario delle vite e dei nomi e delle
situazioni dell’uomo nelle loro trasformazioni e invenzioni e creazioni,
come l’arte esemplarmente dimostra; e
allora ecco la ripresa, a questo punto, dei termini di riferimento compendiati delle moltiplicate e innumerevoli citazioni
dei “trionfi” dell’Amore, della Pudicizia, della Morte e della Fama. È da
ricordare che i Triumphi sono strutturati come
presentazione e viaggio dei carri sontuosi
e popolati che dirigono le emblematiche immagini delle fondamentali vicende e
azioni degli uomini, e anche il Triumphus Temporis viene
ad apparire, nella visione che al poeta
è stata concessa, nella forma del carro trionfale, ma in questo caso, coerentemente, a guidarlo è il Sole
soltanto come colui che governa il
Tempo, ed esso coincide con quello che il mito classico ha istituzionalizzato,
figurativamente, con i quattro cavalli rapinosi e il dio come auriga. Il carro
del Sole contiene il quinto triumphus della
visione petrarchesca, ma non ha con
sé le schiere dei vinti (come l’Amore
e la Morte) o dei celebrati ed esemplari personaggi evocati ad ammonimento e ad ammirazione del poeta e di coloro che ne seguono e leggono la visione tradotta nelle terzine
tipiche del poema, dalla Pudicizia e dalla Fama; e il carro divino,
strumento di viaggio del dio della luce e
del giorno, dall’alba fino al tramonto e al riposo della notte, è ben diverso
rispetto ai carri delle vittorie di Roma. È una coincidenza quanto mai suasiva
e fascinosa; e allora appare
particolarmente efficace la traduzione di tale percorso del Sole giorno dopo
giorno nella figura del Tempo come quello che contiene in sé tutti i personaggi del passato e del presente, che finisce a ridurli «in poca polve».
La similitudine del sole e della neve che ancora un’altra volta
offre l’esempio della rapidità del passare
del tempo e delle fame e dei nomi degli uomini
riprende immagini che i Rerum vulgarium fragmenta adoperano
frequentemente: ma non si tratta soltanto della stella che illumina la terra e determina le vicissitudini delle
stagioni e dei giorni, quanto l’allusione significativa delle
rapidissime vicende delle cose umane,
insieme con la loro vanità, ma anche con la loro tragicità di perdita di valori, piaceri, bellezza, grazia. Il sole come
quello che, con il suo calore, fa sciogliere la neve, in realtà, tanto spesso
coincide con il Sole celeste, il signore del Tempo, e allora evidente ed esemplare è il procedimento da emblematicità ad allegoricità
della scrittura poetica del Petrarca, nelle rime sparse come nel poema di visione ed exemplum.
Il Triumphus Temporis
si conclude ribadendo
la rappresentazione visionaria come la sequenza di personaggi significativi dei secoli, in quanto
consacrati alla Fama, ma il Sole e
il Tempo appaiono come i soli veri protagonisti in scena, in quanto compendiano l’infinità dei nomi che
la Fama ha fissato, ma per
dichiararne il rapido annullamento in forza della vicenda del tempo, e per questo i nomi non possono
piú essere scritti ed elencati
davvero, a uno a uno, per la celebrazione della Fama:
Tutto vince e ritoglie il Tempo avaro:
chiamasi Fama, et è
morir secondo;
né piú che contra
’1 primo è alcun riparo.
Cosí ’1 Tempo triumfa
i nomi e ’1 mondo!
È il caso, allora di rivedere, al confronto con la visione poematica del Sole come signore del Tempo, gli emblemi e le
allegorie cosí frequenti nei Rerum vulgarium fragmenta, con una
varietà e una sequenza che
abbisognano ogni volta di esplicazione. Il sole come
emblema mondano (ma non soltanto
questo) è esemplarmente Laura, ma è
opportuno ricordare subito che la prima apparizione del sole come figura emblematica
si ha nella prima res vulgaris III 1:
Era il giorno ch’al
sol si scoloraro
per la pietà del suo factore
i rai.
Il sole che si scolora,
facendo riferimento al Triumphus Temporis, è il supremo luminare del cielo per la
creazione di Dio: ma piú propriamente il Petrarca allude al Cristo morto, in quanto egli è il Verbo che, in base al prologo del
Vangelo di Giovanni, è, nella Trinità, colui che ha fatto tutte le cose del
mondo; e lo scolorire del sole significa
anzitutto la passione e la morte del Cristo come sole dell’universo. Ma
l’apparizione di Laura, in quanto ripetutamente in
seguito è nominata come il sole, nei primi
due versi del sonetto viene a essere il riscatto e il conforto della morte di
Gesú, anche come preannuncio della
sua resurrezione. Apertamente, in ix
1 e 10, il sole come il signore del
Tempo e delle stagioni è identificato in Laura come
doppia immagine di analoga perfezione e lezione di bellezza e di vita:
Quando ’1 pianeta che distingue l’ore
ad albergar col Tauro
si ritorna
cade vertú da l’infiammate corna
che veste il mondo di novel
colore
[...]
costei ch’è tra le donne un sole.
È già il sole come il misuratore del tempo, ma non ha ancora di
fronte la sua presenza come immagine del trascorrere irrimediabile e velocissimo del tempo, perché ha davanti
l’altro sole mondano e tuttavia creato da Dio come modello di perfezione, quale è Laura, intesa
come alloro sacro e aura garantita non tanto dalla Fama, perché rappresenta il valore supremo nel mondo quale
Dio ha offerto agli uomini, ma piú
specificamente ed esemplarmente al poeta in quanto è in grado di vederla e
contemplarla e amarla nell’assoluta bellezza
e verità (come Dante dice, in un altro punto di vista e di rappresentazione, a proposito di Beatrice).
Piú sottile ancora c’è
un’altra variazione sull’emblema del sole come Laura:
Lassare il velo o per sole o per ombra,
donna, non vi vid’io
poi che in me conosceste il gran desio
ch’ogni altra voglia d’entr’al
cor mi sgombra, (xi 1-4)
L’eccesso dello splendore
di bellezza e di grazia è da Laura velato perché il poeta non ne sia
folgorato e spinto all’eccesso del desiderio,
che finirebbe con l’indurlo a scambiare Laura‑sole con il Sole‑Dio. Si ricordi che il velo è il corpo, e non per
nulla nella ballata due volte è
citata la morte collegata, appunto, con l’emblematicità
del velo in quanto
corpo di suprema bellezza creata da Dio e, quindi, luce celeste. Non per nulla in XIII 10 e 12-14 Petrarca chiosa:
Da lei ti vèn
l’amoroso pensero
che, mentre ’1 segui, al sommo Ben t’invia
[...]
da lei vien
l’amorosa leggiadria
ch’al ciel ti
scorge per destro sentiero.
Un’ulteriore chiosa è in xix 1-2:
Son animali al mondo de sí altera vista
che ’ncontra ’1
sol pur si difende;
altri, però che ’1 gran lume gli offende,
non escon fuor
se non verso la sera;
ma siamo a un’emblematicità
piú lontana, piú vaga: in ogni caso il sole è sempre Laura come figura
di luce celeste. La riflessione è riproposta nella sestina xxii:
A qualunque animale alberga in terra,
se non alquanti ch’hanno in odio il sole;
(1-2)
non ho mai triegua
di sospir’ col sole; (10)
Quando la sera scaccia
il chiaro giorno
e le tenebre nostre altrui fanno alba,
miro pensoso le crudeli stelle
che m’hanno facto di sensibil
terra,
e maledico il dí ch’i’ vidi ’1 sole
che mi fa in vista un uom
nudrito in selva; (12-18)
costei ch’i’ piango a l’ombra e al sole;
(21)
Ma io sarò sotterra in secca selva
e ’1 giorno andrà pien
di minute stelle
prima ch’a sí dolce alba arrivi il sole.
(37-39)
II discorso è sí emblematico, con il riferimento sempre al sole‑Laura,
ma, con ulteriore e preziosa variazione, il sole appare citato anche come il termine che designa il puro e
semplice luminare del giorno: «vedess’io in lei pietà, che ’n un sol giorno / puommi arichir dal
tramontar del sole» (28-30) e: «Con lei poss’io da
che si parte il sole» (31). Il sole in rima
per le sei sestine, piú l’envoi, offre al Petrarca la variazione fra l’emblema di Laura e
il sole con la sua vicenda
quotidiana, dall’alba fino al tramonto e alla notte.
È tuttavia da dire che il
sole “realistico” è alquanto raro nei Rerum vulgarium
frammenta, mentre il sole‑Laura vale soprattutto come immagine e figura della sua
verità sublime e oggetto d’amore, di contemplazione estatica, di
desiderio di partecipare della sua grazia celeste.
Nella canzone xxIII, piú
audacemente, l’emblematicità del sole come
Laura, ma per il tramite mitologico, onde rendere la
descrizione meno eroticamente accesa, riappare nelle forme analoghe della sestina:
I’ segui’ tanto avanti il mio desire
ch’un dí cacciando sí com’io solea
mi mossi, e quella fera bella e cruda
in una fonte ignuda
si stava, quando ’1 sol piú forte ardea.
L’ardere del sole come il culmine del giorno estivo coincide
con l’altro sole emblematico che è Laura, e la caccia
del poeta e la «fera bella e cruda» sono
garantite dal mito di Diana e Atteone, la dea scoperta nuda nella fonte in quanto oggetto della caccia
e, per questo, detta “fera”. La nudità di Laura è possibile, al
contrario dell’estrema pudicizia come
sempre viene celebrata, perché ella è il sole stesso
nel suo pieno splendore; e il gioco di Laura che getta l’acqua della fonte di Diana sul poeta, perché cosí le annebbi
la vista e piú non possa guardarla a
lungo nuda, sviluppa ulteriormente il discorso emblematico, come la
pioggia che attenua la luce del sole.
Le variazioni del sole‑Laura possono essere piú
frequentemente elencate nella sezione conclusiva
della prima parte dei Rerum vulgarium fragmenta: il
gioco emblematico, vero e proprio senhal,
di CXCVIII: «L’aura soave al sol
spiega e vibra / l’auro ch’Amor
di sua man fila e tesse / là da’ belli occhi»; il confronto di CC: «le
chiome, ch’a vederle / di state, a mezzo dí, vincono il sole», con il sole celeste che, per piú grandiosa ed efficace prosopopea,
è proclamato vinto dall’oro delle
chiome di Laura, e, allora, si pensi alla trasformazione che il Sole ha, nel suo colmo splendore, nel
Triumphus Temporis, descritto
nella piena alternativa rispetto all’emblema umano, pur se divinizzato dopo la morte, che è Laura come
sole; la piena prosopopea di Laura come sole in CCVIII: «Ivi è quel nostro vivo
e dolce sole»; l’allusione per sogno angoscioso dell’oscurarsi del sole‑Laura
nella morte di CCXII: «e ’1 sol vagheggio, sí ch’elli ha già spento / col suo splender la mia vertú
visiva»; l’analoga e tuttavia un poco oscura allusione alla morte di Laura come
il sole in CCXVI:
Lasso, che pur da l’un a l’altro sole
e da l’una ombra a l’altra, ho già ’l piú corso
di questa morte che si chiama vita;
e il riferimento alla brevità estrema
dell’esistenza in opposizione al sole‑Laura acuisce ulteriormente la
drammaticità della perdita preannunciata nella morte di Laura nella riflessione
sulla sorte comune degli uomini; la grandiosa e trionfale celebrazione di
Laura come sole della bellezza e del valore supremo nell’ambito mondano, che
vince in luce e splendore l’altro sole, quello del cielo in CCXIX:
Cosí mi sveglio a salutar
l’aurora
e ’1 sol ch’è seco, e piú l’altro ond’io
fili
ne’ primi anni abagliato, e son ancora.
I’ gli ho veduti alcun giorno ambedui
levarsi insieme, e ’n un punto e ’n un’ora
quel far le stelle e questo sparir lui.
Il sole del cielo scompare nel momento stesso in cui appare nell’aurora il sole‑Laura.
Di fronte a Laura il sole astronomico è meno intenso, meno luminoso, anzi
finisce a essere cancellato. Quando nei Rerum vulgarium fragmenta le
rappresentazioni del mondo e dei tempi hanno come punto fondamentale di
riferimento nelle continue variazioni il sole‑Laura,
il Tempo non comporta l’angoscia dell’annullarsi di
ogni valore umano, dell’Amore come della Pudicizia e della Fama, perché Laura
è, come emblema, la fondamentale garanzia della bellezza, della grazia, del
valore divino. Il potere del Sole è ben poco al confronto di Laura che lo ha
sostituito addirittura come piú intenso splendore, ma anche perché Laura è (e
qui è doverosa la citazione di Dante e della Beatrice della Vita nova, anche
per il corteggio degli angeli) nata in cielo, ed è, quindi, essere divino,
come dice CCXX:
Da quali angeli mosse
e da qual spera
quel gentile cantar che mi disface,
sí che m’avanza omai da disfar poco?
Di qual Sol nacque l’alma
luce altera
di que’ belli
occhi ond’io ho guerra e pace,
che mi cuocono
il cor in ghiaccio e ’n foco.
Laura appare come sole, ma
perché a questo punto si identifica con il sole
stesso come supremo emblema di Dio. Laura è parte e forma di Dio (il Sole, appunto, come sinonimo).
Fondamentale, allora, è clxxxviii, che si sviluppa
nell’alternanza e nel rapporto fra
Dio e Laura come exemplum di supremo
valore mondano:
Almo Sol, quella fronde ch’io sola amo,
tu prima amasti, or sola al bel soggiorno
verdeggia, e senza par poi che l’addorno
suo male e nostro vide in prima Adamo.
Il Petrarca tende a unificare il sacro pagano e quello cristiano (e, del
resto, Dante stesso chiama “sommo” Giove – in quanto re degli dèi pagani – il
Dio biblico e piú specificamente cristiano); e, allora, Apollo è accompagnato
dalla vicenda dell’amore per Dafne in quanto
lauro e Laura per l’identità del nome, e come tale è l’emblema del valore
certo ed eterno, intatto e assoluto, non ferito dal peccato di Adamo, e, per esaltazione ed eccesso,
compare come la manifestazione di Dio stesso, la fronda che Dio
consacra e riconosce fra tutte quelle del
paradiso terrestre della creazione, l’unica immune dal peccato
originario. “Almo” è detto il Sole con allusione proprio a Dio, ma anche come il grande
luminare della prima creazione e, di
conseguenza, di Laura che appare a questo punto come la creatura suprema. Si tenga presente il fatto che Laura in quanto sole è la vera forma del mondo creato (e il
lauro non si dimentichi che verdeggia
sempre perché è un albero perenne e perché non teme, secondo il mito classico, schianto di fulmini). Infine il sole fa rinascere le gemme e i fiori a primavera.
La seconda quartina del sonetto ulteriormente complica le varie forme degli
emblemi del sole:
Stiamo a mirarla: i’
ti pur prego e chiamo,
o Sole; e tu pur fuggi e fai d’intorno
ombrare i poggi e te ne porti il giorno,
e fuggendo mi tôi
quel ch’i’ piú bramo.
L’«almo Sole» è a questo
punto identificato con Dio, in quanto creatore
della luce. L’esortazione di «stiamo a mirarla» a sua
volta fa coincidere la fronda del lauro e
Laura come senhal divino, ma è anche la figura della creazione suprema del valore
mondano che la Fama consacra, tanto
è vero che, nel primo verso del sonetto, il Petrarca dice che la fronda
dell’alloro è l’unico oggetto d’amore per lui in quanto poeta, ma anche perché crede in Dio e nell’arte poetica secondo
l’esemplare dimostrazione del mondo classico (Febo, Apollo, Dafne). Ma pure immagine
di Dio è il Sole nell’ambito biblico, o almeno come suprema creazione
divina. La preghiera e l’invocazione del Sole, nella
seconda quartina del sonetto, non riguardano piú Apollo, ma Dio, che,
nell’enigmatica considerazione del poeta, appare come l’alternativa suprema e solenne della sua essenza sublime
rispetto alle forme mondane e soprattutto all’amore del Petrarca per Laura‑lauro, con tutte le trasformazioni di
essa secondo il mito pagano. Siamo certamente a uno
dei punti piú significativi dell’alternanza dell’emblema del Sole come
Dio e del Sole come misura e regola del tempo, che il Triumphus
Temporis pure usa in quanto con il suo moto
quotidiano fa fuggire vertiginosamente le ore e i giorni e la memoria fino a cancellare la Fama degli eventi e
delle azioni umane.
Non in modo tragico,
tuttavia, è contemplato il fuggire del Sole come figura di Dio nel sonetto clxxxviii,
ma è bensí la riflessione e l’invocazione
a Dio nell’ambiguità costante e inquieta del Petrarca fra la presenza divina e la poesia, l’arte, la
gloria, la fama mondana. Il Sole come
emblema di Dio è all’opposto del luogo mondano (il «beato loco», l’«umil colle», l’alloro che lo ha incoronato ora, ma che fin dalla giovinezza estrema ha guardato come
al valore supremo della vita umana:
il «gran lauro» che «fu picciola verga»). Nel Triumphus Temporis, si può allora forse chiosare la voce innominata
che spiega al poeta la lezione della vanità delle vicende umane e della Fama che gli uomini credono eterna in quanto esente dal moto del Sole in quanto governo del Tempo. È come se in Petrarca nella forma
drammatica della visione riprenda e comprenda appieno quello che ha tradotto nei termini lirici e
riflessivi di tale sonetto dei Rerum vulgarium
fragmenta, sia pure nello strazio del cuore fortemente soggettivizzato
e fatto personale, privato, là dove la visione del poema coinvolge
l’intera umanità da quando è stata creata. D’altra
parte nel poema il Sole come il luminare creato da Dio con le sue leggi di rapidissimo e perpetuo volgersi
dall’alba alla notte è personificato in modo perfino marcato: le proteste, l’ira, la volontà di rilevare amaramente e furiosamente la pretesa
della Fama e degli uomini di poter durare come e quanto egli stesso, là
dove nel sonetto clxxxviii
è evocato come l’«almo Sol», con la
vicenda del giorno, ma come
l’alternativa al lauro e al valore mondano a confronto del supremo
valore in terra che è Laura‑lauro, in quanto fama e sapienza e creazione poetica, come si può vedere nell’envoi
della canzone xxix:
Quanto il sol gira Amor piú caro
pegno,
donna, di voi non have.
Si pensi alle rarissime immagini
naturalistiche del sole: come esempio, si
possono vedere alcune variazioni nella sestina xxx:
Giovane donna sotto un verde lauro
vidi piú bianca e piú fredda che neve
non percossa da sol molti e molt’anni;
[...]
seguirò l’ombra di quel dolce lauro
per lo piú ardente sole e per la neve;
[...]
L’auro e i topacij al sol sopra la neve
vincon le bionde chiome presso agli occhi
che menan gli
anni miei sí tosto a riva.
(a meno, tuttavia, che non si voglia ipotizzare la triplice
citazione del sole in opposizione e in
unione con la neve come un’allusione al sole in quanto tempo e in quanto stabile
valore là dove la neve è il segno del rapido trascorrere dell’esistenza,
e la giovane donna e il lauro, all’opposto,
durano nella loro esemplarità). Sí, anche altrove il sole è citato dal Petrarca
come misura del tempo, e, allora, nasce la riflessione sulla vita cosí breve del poeta, sempre nell’ambito della propria esperienza individuale, e sul
preannuncio della morte, ma ha come
confronto esaltante il lauro‑Laura come valore assoluto e sicuro, come
si può vedere nella canzone xxxvii:
Il tempo passa, e l’ore
son sí pronte
a fornire il viaggio
ch’assai spazio non aggio
pur a pensar com’io corro a la morte:
a pena spunta in oriente un raggio
di sol ch’a l’altro monte
de l’adverso orizonte
giunto il vedrai per vie lunghe e distorte
[...]
Le traccie
d’or che deverien fare il sole
invidia molta ir
piena [...].
È un’efficace riprova dell’alternativa
fra il sole come il dio governa il tempo,
con la conseguenza che infinitamente rapida è l’esistenza umana, sia che si tratti dell’esperienza
d’amore, sia che invece il lauro‑Laura si presenti come l’emblema della
fama poetica, e il sole come Laura
nella sua doppia significazione. Si pensi, allora, al sonetto xli,
che insiste sulla contrapposizione del sole‑Laura e la stagione
avversa del freddo, della pioggia, delle tempeste, delle nevi: «la terra piange e ’1 sol mi sta lontano». L’emblematicità
è fortissima nell’opposta presentazione
trionfale e luminosa di Laura‑Sole, e del gelo e delle tempeste,
che esprimono la presenza e l’assenza di Laura,
ma chiamata, come tanto spesso accade, col nome dell’albero amato da Febo. Allora, il nome del dio della luce
e del tempo viene a dipendere dalla
presenza o dall’assenza di Dafne amata nel momento in cui è stata reincarnata in Laura, mentre coincidono Apollo in quanto anche dio della poesia e delle arti e il
Petrarca in quanto supremo poeta.
Tutta la canzone l è una variante sulla contrapposizione
fra il sole come misura e
manifestazione del tempo e il sole come figura di Laura, anche se il nome del sole cosí emblema è citato soltanto nella
seconda stanza:
Come ’1 sol volge le ’nfiammate rote
per dar luogo a la notte [...].
L’amore di Laura nella sua
doppia forma di gloria poetica e di grazia suprema è contrapposta alle
attività e alle vicende dell’uomo, che
nella notte trovano riposo e quiete, mentre il poeta
non ha mai pace per l’intensità
dell’amore di Laura‑lauro; la variazione del sole in quanto
emblema di tale compresenza dei beni supremi nel mondo tocca uno dei culmini nel sonetto xc:
Frano
i capei d’oro a l’aura
sparsi
che ’n mille
dolci nodi gli avolgea
[...]
Uno spirito gentile, un vivo sole
fu quel ch’i’
vidi.
Il nome di Laura è
pronunciato piú significativamente ancora rispetto al lauro come
«l’aura», la Fama: ma il punto fondamentale del
sonetto è dato dal Sole, che identifica Laura per «i capei
d’oro» e i begli occhi e l’esca
amorosa che fa ardere d’amore il poeta, ma è anche celebrato come il dio solare, Apollo, e, piú in là ancora, Dio stesso
in forza della descrizione di Laura che il poeta conclude
con la suprema esaltazione ed esplicazione:
Non era l’andar suo cosa mortale,
ma
d’angelica forma; e le parole
sonavan altro che pur voce umana.
Molto piú in là la voce, che
scende dal cielo per spiegare al poeta che vana è la fama, nella
visione del Triumphus Temporis,
è pur tuttavia la piú alta
manifestazione della voce di Laura che non è umana, ma divina. Laura in quanto sole finisce
a diventare, come Beatrice,
un’ipostasi di Dio. Ella ha come emblema il sole nella
doppia immagine di Apollo come
divinità pagana e Dio come il creatore
di Laura e garante dei valori umani, la poesia anzitutto. Si veda, come ulteriore esempio, il sonetto CX:
Volsemi, e
vidi un’ombra che da lato
stampava il sole, e riconobbi in terra
quella
che, se ’1 giudicio mio non erra,
era
piú degna d’immortale stato.
Il sole è, allora, il
luminare del cielo, ma è anche Laura‑lauro che permette al poeta
di vedere stampata in terra (nel mondo) l’effetto
della forma divina, cioè il valore poetico. La stessa
ambivalenza è nel sonetto cxv:
In mezzo di due amanti onesta altera
vidi
una donna, e quel Signor co lei
che fra gli
uomini regna e fra li dei;
e da l’un
lato il Sole, io da l’altro era.
Il Sole in questo caso
una volta di piú congiunge in sé la sequenza esemplare d’emblema: il dio
solare, ma anche Dio e Laura che ne è costantemente
l’ipostasi. La fama, la gloria che il Petrarca raggiunge con l’incoronazione in Campidoglio, è detta piú bella del sole,
in rapporto con Apollo e con riferimento a Laura‑lauro e all’emblema che ella è in quanto
è sole e figura della corona d’alloro per
la conquistata fama:
Una donna piú bella assai che
’l sole
e piú
lucente e d’altrettanta etade
con
famosa beltade
acerbo
ancor mi trasse a la sua schiera.
La donna luminosa, bellissima, giovane cosí come quella amata dal
Petrarca, cioè Laura‑lauro, è ancora una volta l’immagine del sole che
riunisce in sé ogni significato e ogni valore mondano; e l’amore da cui il poeta giovane è stato colto è
tuttavia Laura e la Fama, sotto
l’emblema del sole. Significativamente, l’ultima stanza si
conclude con l’immagine di Laura‑lauro: «di verde lauro una
ghirlanda colse». Il discorso emblematico dei Rerum
vulgarium fragmenta si
svolge proprio per questo tante volte in ricchissime variazioni dell’immagine del sole nelle diverse incarnazioni: «sempre
io corro al fatal mio sole» (clxi);
«Né cosí bello il sol già mai levarsi / quando ’1 ciel fosse piú de nebbia scarco [...]» (cxliv); «Ponmi ove ’1 sol occide i fiori e l’erba, / o dove vince lui il ghiaccio e
la neve; / ponmi ov’è ’1 carro
suo temprato e leve / e ov’è
chi cel rende o chi cel
serba [...]» (cxlv);
«vidi lagrimar
que’ duo bei lumi / ch’an
fatto mille volte invidia al sole» (clvi); «Né sí pietose e sí dolci
parole / s’udiron mai, né lagrime sí belle / di belli occhi uscir mai
vide ’1 sole» (clviii); «son fatto un augel notturno al
sole» (clxv); «Mirando ’1 sol de’ begli
occhi sereno» (clxxiii); «Quel sol, che solo agli
occhi mei resplende, / coi vaghi raggi ancor indi mi scalda / a vespro tal qual era
oggi per sempre; / e cosí di lontan m’alluma e ’ncende [...]» (clxxv); «E ’1
chiaro lume che sparir fa ’1 sole /
folgorava d’intorno» (clxxxi). Si
potrebbe citare ancora: quello che importa è la ricchezza delle variazioni dell’emblema del sole nelle tre
significazioni che il Petrarca, con molta ambiguità e inventività, propone.
Si fa piú solenne e turbata,
immalinconita, la tensione patetica che
è tipica del Petrarca in opposizione, nella sua individualità, all’oggettività del discorso poetico di Dante, a
mano a mano che i Rerum vulgaríum fragmenta seguono le variazioni del sole emblematico.
Si legga, per esempio, il sonetto CCVIII:
Ivi è quel nostro vivo e dolce sole,
ch’adorna
e ’nfiora la tua riva manca:
forse
(o che spero?) e ’1 mio tardar le dole.
Basciale ’1
piede o la man bella e bianca;
dille,
e ’1 basciar sie ’nvece di parole:
Lo spirto è pronto, ma la
carne è stanca.
“Vivo” e “dolce” è una coppia di aggettivi
a questo punto, in accompagnamento con la consapevolezza del poeta invecchiato
e stanco, intesa a rilevare l’ulteriore sublimazione di Laura come ipostasi del divino: “vivo” perché garantito dalla
presenza di Dio nella sua durata
eterna (la fama, l’amore della fama, la poesia, il lauro); “dolce” perché in tale prospettiva purificata e
pacificata illumina e dà serenità e
pace al poeta giunto all’affaticata vecchiaia. Piú enigmaticamente e allusivamente il sole appare nel
sonetto ccxii, ma sempre nella stessa prospettiva del rapporto fra
Laura e la divinità: «e ’1 sol vagheggio, sí ch’elli ha già spento / col suo splender la mia vertú visiva». Lo splendore del sole è la
congiunta presenza di Dio e di Laura
che ha folgorato il poeta; e c’è qualche drammaticità nella figurazione, nella consapevolezza che egli si
trovi vinto ormai da tanta fatica e
tanto affanno perché Dio e la gloria gli appaiono contraddittori e tuttavia
a lui assolutamente necessari. E si guardi, allora,
la sestina ccxiv, con
l’invocazione a Dio: «Ma Tu, Signor, ch’hai di pietate il pregio, /
porgimi dextra in questo bosco: / vinca ’1 Tuo sol le mie tenebre nove»; e, nel sonetto subito
successivo, CCXII, sono a confronto
“questa donna” celebrata nella prima quartina con «il suo pianeta, / anzi ’1 re de le stelle».
Piú drammaticamente ancora il Petrarca insiste sui due emblemi del sole nel sonetto ccxvi:
Lasso, che pur da l’un
a l’altro sole
e da l’una ombra a l’altra ho già ’1
piú corso
di questa morte che si chiama vita.
Sia il sole sia l’ombra non sono da interpretare semplicemente come il giorno e
la notte, quanto il sole come emblema supremo di Dio e il sole come gloria, cioè Laura che la rappresenta esemplarmente. Sullo stesso tono si
presente il doppio sole nel sonetto ccxix:
Cosí me sveglio a salutar l’aurora
e ’1 sol
ch’è seco e piú l’altro ond’io fili
ne’
primi anni abagliato, e son
ancora.
Ancora il sonetto ccxx
insiste sull’invocazione del doppio sole divino
e mondano, a cui il
Petrarca si trova fin dall’estrema giovinezza coinvolto fino a esserne vinto e
folgorato, con una crescente drammaticità per il trascorrere degli anni
e, per la coscienza dell’impossibilità o, almeno, della difficoltà estrema
di scegliere:
Da quali angeli mosse e di quel spera
quel
celeste cantar che mi disface,
sí che
m’avanza ornai da disfar poco?
Di quel sol nacque l’alma luce altera
di que’ belli occhi ond’io ho guerra
e pace,
che
mi cuocono il cor in ghiaccio e ’n foco.
Gli emblemi di guerra e
pace, «ghiaccio» e «foco» rilevano esemplarmente la compresenza
e la diversità dei due soli a cui il poeta guarda:
il Dio degli angeli e la luce della fama. Ormai il Petrarca viene a commentare la propria situazione di poeta
invecchiato, condotto a riflettere sull’avvicinamento del tempo della
morte, che comporterà la scelta o, meglio, sarà il risultato definitivo e angoscioso della sua esperienza umana. Il sonetto ccxxiii si svolge come rappresentazione del sole che tramonta e ottenebra
il nostro mondo (e l’allusione
riguarda per forza d’emblema l’invecchiamento del poeta e il pensiero della morte) e visione
dell’altro sole che è Laura‑lauro,
ma anche Dio di cui ella è ipostasi, come fonte di
speranza e di fiducia nel durare al
di là della vecchiaia e della vita che si perde:
Quando ’1 sol bagna in mar l’aurato carro
e l’aere
nostro e la mia mente imbruna
[…]
Vien
poi l’aurora e l’aura forse inalba,
meno: ma
’1 sol che ’1 cor m’arde e trastulla
quel
po’ solo adolcir la doglia mia.
Significativa è l’ulteriore congiunzione fra il doppio sole e
il cuore onde rilevare meglio la specificità dell’esperienza e della
situazione del poeta: non, come invece Dante è in quanto è colui che racconta
la visione divina perché gli uomini possano comprendere appieno, per quel che è possibile, la verità della sorte
degli uomini dopo la morte, ma l’evento personale, le proprie vicende, che sono
sí, supreme nelle contraddizioni e nelle aspirazioni e immaginazioni,
ma soprattutto perché egli è l’unico poeta di tutti i tempi e la storia sotto la diversa ed esemplare luce dei due soli.
Ancora nel sonetto ccliv il Petrarca dice, ma chiarendo un
poco meglio la doppia emblematicità del sole:
Nocque ad alcuna già l’esser sí bella:
questa piú d’altra è bella e piú pudica;
forse vuol Dio tal di vertute
amica
torre a la terra e ’n ciel
farne una stella,
anzi un sole.
Laura e Dio sono a questo punto fortemente avvicinati nella riflessione
e nella contemplazione del poeta; e siamo ormai alla conclusione della prima parte dei Rerum vulgarium fragmenta; ma la vicenda dell’emblema solare ritorna a presentarsi e
a complicarsi poeticamente nella
seconda parte, in attesa della visione dei Triumphi.
Penso alla canzone cclxviii: «ad uno scoglio / avem rotto la nave / e in un punto n’è scurato il sole».
L’immagine del sole oscurato è un’allusione
alquanto audace all’evento della morte di Cristo; ma, in questo modo, e con migliore ed esemplare
evidenza, il Petrarca congiunge e confronta la morte di Laura come
ipostasi divina e sole in terra come sole è Gesú. Ci si avvicina sempre di piú alla visione del Triumphus
Temporis e poi conclusivamente al Triumphus Eternitatis. La
stessa figura è nel sonetto cclxxv:
Occhi miei, oscurato è ‘1 nostro sole
anzi è salito al cielo et
ivi splende.
L’elevazione al cielo di Laura come figura della gloria mondana
che si trasforma in quella divina è acuita nel sonetto cccvi:
Quel sol che mi
mostrava il camin destro
di gire al ciel
con gloriosi passi,
tornando al
sommo Sole, in pochi sassi
chiuse
’1 mio lume e ’1 suo carcer terrestre.
Qui la doppia raffigurazione di Laura come
supremo valore mondano e Dio che tuttavia l’ha creata incarnandola in terra è
mirabilmente esemplificata nel giro del primo e del terzo verso della prima
quartina, con doppio ben calcolato riferimento. Certo, a questo punto, la citazione dantesca diventa sempre
piú frequente, anche perché Laura‑sole, che il Petrarca rammenta
come colei che gli indicava la via del
cammino verso la gloria poetica, viene a raffigurare e a dichiarare, per il tramite della donna amata, la Fama poetica come un valore accettato pienamente dallo stesso
Dio‑Sole. Il Petrarca cosí
giustifica il suo amore per la gloria di cui Laura è emblema tramite la prosopopea di Dio come Sole che
illumina, cioè dà verità e valore alle opere umane, a
quelle che sono supreme, assolute.
In altro modo il Petrarca esprime lo stesso concetto nel
sonetto cccviii:
Poi ch’i’ giungo a la divina
parte
ch’un chiaro
e breve sole al mondo fue,
ivi
manca l’ardir, l’ingegno e l’arte.
La «divina parte» è, sí,
l’anima, ma la denominazione vale a mettere in relazione ancora una
volta Laura‑sole in quanto valore e bellezza dell’arte umana e il sacro, il divino. In
una situazione che si può dire
“minore” dal punto di vista della raffigurazione emblematica del sole, anche il sonetto cccxxxiv finisce a raffrontare il sole come
valore mondano e Dio (e, in tal caso, il Petrarca parla ormai di sé piú direttamente, sollevando un poco il velo
dell’emblematicità):
S’onesto amor po’ meritar mercede
e se Pietà
ancor po’ quant’ella suole,
mercede
avrò, che piú chiara che ’1 sole
a madonna et al mondo è la mia fede,
nel senso che il sole è allusione
della fede di Dio, sia in quanto il poeta
crede nel valore dell’arte poetica, sia in quanto crede in Dio (e
l’ultimo verso conclude appunto l’andamento circolare del discorso con la citazione di Dio). Proprio nel
sonetto cccxxxix l’identificazione, in forza di similitudine, del sole
con Dio in presenza altresí di
Laura divinizzata, riappare particolarmente ammonitoria
e dimostrativa:
Quant’io
di lei parlai né scrissi,
ch’or
per luci anzi a Dio preghi mi renda,
fu breve stillo
d’infiniti abissi:
che
stilo oltre l’ingegno non si stende,
e per aver
uom li occhi nel sol fissi,
tanto
si vede men quanto piú splende.
Il Petrarca si appropria di immagini e
considerazioni dantesche: gli abissi con
riferimento ai canti xviii e xix del Paradiso, con il giudizio dell’Aquila davanti a Dante sulla profondità
abissale della giustizia divina, al canto xxxiii quando Dante piú insiste sull’impossibilità degli occhi umani di contemplare Dio come
luce suprema, assoluta; ma tale rappresentazione è frequentissimamente
presente in tutto il Paradiso a mano a mano che Dante ascende su per i
cicli fino alla visione della Rosa dei
venti; il sole che, fissato negli occhi, per lo splendore rende ciechi, anche
nella rappresentazione nella similitudine del Petrarca, non è
assolutamente quello mondano e astronomico, ma l’emblema di Dio.
La canzone conclusiva dei Rerum
vulgarium fragmenta si inizia, per
invocazione e celebrazione della Vergine, con due “soli” sapientemente
sinonimici:
Vergine bella, che di sol vestita,
coronata di
stelle, al sommo Sole
piacesti sí
che ’n te Sua luce ascose [...].
Nella quarta stanza la
celebrazione della Vergine e del Cristo come “sole” ritorna
significativamente: «tu partoristi d’errori oscuri e folti». Nell’ultima stanza Laura‑lauro è citata. Ma ormai senza piú l’emblema
solare che l’accompagna nei Rerum vulgarium fragmenta. La
figura del sole coincide ormai appieno con Dio (con l’accompagnamento della Vergine e delle stelle che la
circondano). Nel Triumphus Eternitatis la compresenza del
doppio emblema solare, che è una
contrapposizione, si presenta alla conclusione della meditazione del poeta
sulla rapida cancellazione delle cose umane a opera del Tempo per legge e norma del Sole che lo governa;
ed ecco, allora, il punto piú alto della visione:
Mentre piú s’interna
la mente
mia, veder mi parve un mondo
novo,
in etate immobile ed eterna,
e ’1 sole
e tutto ’1 ciel disfar a tondo
con le sue
stelle, ancor la terra e ’1 mare,
e rifarne un
piú bello e piú giocondo.
La considerazione successiva riprende a livello concettuale la
visione del Sole:
Non avrà albergo il Sol Tauro
né Pesce,
per lo cui
variar nostro lavoro
or nasce,
or more et ora scema, or cresce.
L’emblema del sole, cosí
frequente nel corso delle rappresentazioni, delle visioni, delle
trascrizioni in immagine delle esperienze fondamentali dell’uomo (Laura, la
gloria, Dio, il dio pagano del carro che
dall’alba alla notte trascorre il cielo, e segna in
questo modo il susseguirsi delle
esperienze e delle vicende del mondo e le azioni degli uomini fino a quelle supreme e degne di valore e celebrazione,
come l’arte e le imprese eroiche e le virtú certe), trova nel conclusivo Triumphus la soluzione definitiva e
garantita: al di sopra di ogni sole emblematico
e mitologico, c’è il Sole come la suprema immagine di Dio, nella cui luce
eterna, si compendia ogni altro significato e ogni altro valore, che non
sopporta mutamenti e vicende, come accade, invece,
con il sole‑Laura, mortale, e con il sole‑gloria, sottoposto al Tempo, e con il sole stesso come il luminare
celeste, creato da Dio come
regolatore del Tempo.