Etica
& Politica / Ethics & Politics, 2003, 2 http://www.units.it/etica/2003_2/LOTTIERI.htm
Il libertarismo non è
un’utopia
Carlo
Lottieri
Dipartimento
di scienze storiche, giuridiche, politiche e sociali
«[L’assenza
in Inghilterra di una costituzione] non è un’anomalia, ma ha la sua logica:
una costituzione scritta richiede una costituente, e la costituente è un supergoverno.
A che scopo limitare i governi con una costituzione se questa è figlia di un
(illimitato) supergoverno?» (Bruno Leoni, nota a mano scritta in margine al
testo di Charles H. McIllwain, Costituzionalismo
antico e moderno, a cura di Vittorio Caprariis, Venezia, Neri Pozza,
1956, p.24). Una
delle accuse più frequentemente indirizzate al pensiero libertario è di
essere una concezione utopistica e, per tale motivo, del tutto inutile. Una
simile critica non investe il contenuto normativo della proposta teorica, ma
è ugualmente assai insidiosa, poiché insinua la tesi che quella libertaria
possa essere una dottrina magari attraente, ma del tutto irrealizzabile. Per
giunta, tale contestazione proviene non di rado da autori almeno in parte in
sintonia con i principi fondamentali del libertarismo e che però non
ritengono ragionevole né produttivo abbracciare una concezione talmente
radicale (1). Mentre
gli studiosi avversi al liberalismo classico e alla società di mercato spesso
rifiutano la teoria libertaria contestando il proprietarismo su cui essa si
regge (2),
la pretesa irrealizzabilità di un ordinamento affrancato dalla coercizione è
avanzata non di rado da quanti ammettono la centralità della proprietà e
vedono nella libertà il fine politico supremo (secondo la celebre espressione
di Lord Acton), ma ritengono che per preservare un ordine caratterizzato dal
diritto sia necessario difendere l’esistenza di uno Stato: seppure minimo,
costituzionale, limitato. Scopo
del presente scritto è mostrare la debolezza di tale giudizio, che non
soltanto ignora il carattere essenzialmente euristico della teoria
libertaria, ma ugualmente fraintende l’antropologia che è all’origine delle
istituzioni proposte dagli studiosi libertari e trascura la ricchezza delle
riflessioni in tema di produzione privata e concorrenziale della giustizia,
della protezione e della difesa (3). In
questo senso, l’articolo si propone di evidenziare la forte connessione tra
teoria libertaria e realismo politico, nello sforzo di persuadere gli
studiosi d’orientamento liberale che essi non possono sperare di sottrarsi
alla sfida libertaria semplicemente limitandosi a sostenere che quella
libertaria sarebbe una concezione viziata di “utopismo” (4). In
primo luogo, il testo evidenzia la futilità della domanda posta da quanti si
chiedono se davvero sia possibile immaginare, in un futuro prossimo venturo,
una società integralmente libertaria [§ 1]. Oltre a ciò, viene anche
sottolineata l’esistenza di una radicale dissomiglianza tra la tradizione
dell’utopia politica e il pensiero libertario, che muove dall’uomo qual è,
senza neppure lontanamente ipotizzare l’abbandono dei suoi presenti limiti
ontologici [§ 2]. Il
fatto poi che il libertarismo avversi lo Stato non può in alcun modo essere
inteso come un rigetto del diritto, dato che al contrario è proprio lo Stato
(per sua natura) ad essere antigiuridico ed incompatibile con la rule of
law [§ 3]. Questo non significa, ovviamente, che la ricerca della pace e
di un ordine legale contrassegnato dalla giustizia possano eliminare del
tutto ogni forma di aggressione, anche se questo rimane l’obiettivo verso cui
tendere [§ 4]. Nel suo
sforzo d’interpretare un liberalismo coerente e radicale, la teoria
libertaria muove pure dall’analisi misesiana sull’impossibilità del calcolo
economico in assenza di prezzi per mostrare come solo un ordine basato sulla
proprietà e sullo scambio possa permettere una produzione razionale dei
servizi oggi monopolizzati dallo Stato: a partire dalla protezione e dalla
giustizia [§ 5]. Tutto ciò non deve certo far ritenere che una società senza
Stato sia di per sé un ordine di mercato, ma pure è vero che l’assenza di un
monopolio legale è condizione necessaria,
anche se non sufficiente, per avere
un ordine legale pluralista e rispettoso dei diritti di proprietà [§ 6]. Da
ciò non discende che nell’ordine di mercato sia necessario avversare
l’emergere di monopoli o cartelli formati dagli imprenditori e premiati dai
consumatori [§ 7], sebbene sia vero che all’interno di una società non
statuale le logiche dell’interazione sociale rendono improbabile il
consolidarsi di monopoli e cartelli nell’ambito dell’amministrazione del diritto
e della protezione [§ 8]. La tesi
secondo cui una società senza Stato non sarebbe da auspicarsi in quanto
facile preda di agenzie “aggressive”, infine, può essere facilmente
contrastata grazie ad una comprensione disincantata del carattere intimamente
criminale della sovranità statuale e ad una riflessione sulle plausibili
interazioni che tenderebbero a prevalere entro una società a potere diffuso [§ 9]. 1. Può esistere una “società libertaria”? La
realtà sociale e giuridica è una costruzione umana: quindi essa è frutto
dell’intreccio di decisioni individuali. Per questo motivo, individui
determinati a costruire una società libertaria potrebbero realizzarla se solo
fossero coerenti con le loro premesse e se nessuno ne ostacolasse le
iniziative. Ciò che qui è importante rilevare, a premessa di ogni ulteriore
considerazione, è che non esiste alcuna presunta legge “macro-sociale” la
quale possa impedire la nascita di un ordine integralmente retto dalla
libertà individuale. Se ciò non succede è solo per la volontà e l’azione di
uomini che consapevolmente negano tale prospettiva. Ciò che
è più importante rilevare, però, è che la stessa accusa d’utopismo rivolta ai
libertari implica il rigetto di uno dei presupposti fondamentali di tale
indirizzo di pensiero: l’individualismo metodologico. Nel momento in cui ci
si chiede se e quando l’Italia o gli Stati Uniti potranno diventare una
società libertaria si è scelto di restare entro un quadro implicitamente collettivista (e, nello specifico, nazionalista). In effetti, l’obiezione
più frequente indirizzata al libertarismo muove proprio dalla constatazione
che in nessuna parte del mondo esisterebbe un’intera comunità nazionale retta
secondo i principi libertari, che nulla di simile d’altra parte sarebbe mai
esistito e che quindi una società di questo genere non esisterà mai. In
conclusione, per questi critici del libertarismo esso sarebbe caratterizzato
da un netto rigore morale che, però, lo condannerebbe all’inutilità, dal
momento che finirebbe per elaborare ipotesi del tutto astratte e
irrealizzabili. Tale
contestazione appare priva di fondamento una volta che si sia compreso che la
“società” in quanto tale non esiste. Non potrà mai esistere una società
compiutamente libertaria, così come non vi sarà mai una società totalmente
statizzata. Quando ci si chiede se un singolo paese (l’Italia, gli Stati
Uniti o qualunque altro) potrà mai essere veramente liberale, si è già
impostata la questione nel peggiore dei modi, cacciandosi da soli nella
trappola dell’olismo. Inavvertitamente, le relazioni tra i singoli individui
sono già state già “statizzate”, dal momento che si è convinti che i confini
dettati dagli ordinamenti giuridici dei singoli Stati e pacificamente
riconosciuti dal diritto internazionale non siano semplicemente un fiat del tutto arbitrario, ma separino
entità organiche e sussistenti. Come i teorici dell’individualismo
metodologico hanno più volte ricordato (5), il termine
“società” è certo utile ad indicare un insieme di persone tra loro in vario
modo connesse in virtù di legami ed interazioni, ma bisogna avere ben chiaro
che al di là di questa terminologia abbiamo sempre e soltanto individui. Questi
stessi uomini, ovviamente, possono avere relazioni di differente natura: più
o meno liberali. L’aspirazione dei libertari è che i rapporti di tipo
aggressivo lascino progressivamente spazio a rapporti basati sul rispetto
della dignità altrui, sul consenso e sulla giustizia (6). Una
società integralmente libertaria non esiste e non potrà mai esistere, allora,
in primo luogo perché non esistono le società. È ragionevole ritenere che
ogni consesso umano non potrà mai essere (in nessuna area, anche di limitate
dimensioni) compiutamente liberale, per la stessa ragione per cui neppure
Pol-Pot riuscì mai a fare della sua Cambogia un universo totalmente
socialista, sebbene – nella sua furia ideologica –
egli abbia lasciato poco di intentato per raggiungere tale obiettivo (7). In virtù della propria natura “individualista”, allora, il
libertarismo non solo non pretende di imporsi ovunque e coinvolgere l’intera
umanità, ma neppure giudica necessario trionfare sulle ceneri di uno dei
molti Stati che popolano la scena internazionale contemporanea. L’obiettivo
dei libertari, invece, è costituire ordini sociali “paralleli” che entrino in
competizione con le istituzioni attuali, offrendo vie d’uscita ai
sudditi-cittadini degli odierni Stati ed indichino in tal modo un’alternativa
legittima e desiderabile a quanti vogliono sfuggire all’ordine illiberale
della statualità contemporanea. In
questo senso è anche importante rilevare che, dal punto di vista storico, la
stessa epoca moderna aveva già visto emergere forme istituzionali concorrenti
(assai più liberali di quelle che hanno ottenuto il maggiore successo), le
quali sono state spazzate via dal trionfo – quasi totale – della statualità (8). Il
successo dello Stato moderno alla
francese, affermatosi a scapito degli ordini pattizi che contraddistinguevano
le Province Unite o l’Hansa germanica, non discende affatto da una necessità
storica. Altri esiti erano possibili e ancora oggi gli Stati moderni sono ben
lontani dal chiudere ogni spazio a realtà politiche ed istituzionali d’altra
natura. Ancor
più interessante, inoltre, è che il futuro resta del tutto indeterminato,
tanto che nessuno può escludere che in qualche area del pianeta possano
presto emergere, trovare spazio ed imporsi alternative giuridico-politiche
allo Stato, basate sul diritto e sul consenso invece che sugli arbitrii della
legislazione e sulla coercizione. 2. Il libertarismo ha bisogno di un uomo nuovo? Il
termine-concetto utopia è associato
ad una lunga tradizione di pensiero che spesso è fatta risalire a Thomas
Moore e che di seguito, passando attraverso Tommaso Campanella e Francis
Bacon, giunge fino alle prime teorie socialiste di fine Settecento, per poi
segnare tutta la riflessione collettivista degli ultimi due secoli (9). In
questa prospettiva, la terra che non
c’è delle ideologie utopiste caratterizzanti l’età moderna incarna
l’annuncio di un mondo trasfigurato che è, soprattutto, lo spazio d’azione di
un uomo nuovo, inedito, liberato dalle presenti infermità. Nella
teoria politica che caratterizza il pensiero socialista, allora, vi è
soprattutto il progetto di una palingenesi antropologica in condizione di
risolvere ogni difficoltà e annunciare un’Era completamente rinnovata. La
distanza tra il libertarismo e l’utopia di matrice millenarista appare
chiaramente nel momento in cui ci si confronta con questa tradizione, a cui
appartiene lo stesso anarchismo europeo (la cui proposta politica implica
un’umanità del tutto mutata e sottratta alle attuali imperfezioni). È la
società senza Dio né Stato né padroni,
in effetti, che renderebbe possibile l’avvento di un uomo del tutto diverso,
ma al tempo stesso si può affermare che senza quest’uomo – liberato
dall’egoismo, senza appartenenze culturali e di classe, privo di famiglia e
di ogni forma d’alienazione “religiosa” – quel tipo stesso di società si
rivela impossibile. Se
questa è la tradizione dell’utopia politica, il libertarismo non ha proprio
nulla in comune con tale linea di pensiero. La
teoria libertaria propone soluzioni istituzionali per l’uomo così com’è, né s’immagina che su
questa terra l’umanità possa perdere le attuali caratteristiche essenziali.
Per l’antropologia del liberalismo classico e del libertarismo stesso (che
del primo è soltanto uno sviluppo logico e consequenziale), l’uomo presenta
attitudini positive e negative, pacifiche ed aggressive, le quali non possono
in nessun modo essere cancellate dal successo di un determinato ordine
istituzionale. La
proposta libertaria, secondo la quale è necessario abbandonare ogni forma di
monopolio della violenza al fine di avere un ordine giuridico policentrico e
concorrenziale (entro il quale alcune agenzie di protezione competano
nell’offerta di servizi di protezione), presuppone la capacità degli uomini a
collaborare (senza la quale non vi sarebbero mercato, scambio o associazione)
e ugualmente non esclude che alcuni uomini continuino ad aggredire altri
uomini: una condizione, quest’ultima, in assenza della quale non vi sarebbe
alcun bisogno di avere un ordine “protettivo”. Tale teoria
è stata quindi pensata per gli uomini come li conosciamo: e non promette un
mondo liberato dal male e dall’imperfezione. Oltre a fondarsi su
un’antropologia “realista”, il libertarismo è quindi ben lontano dal
promettere la fine di ogni infermità. Esso non presuppone un uomo perfetto,
ma muove proprio dalla consapevolezza delle sue imperfezioni. Per
questo motivo, al centro della presente riflessione sta essenzialmente lo
sforzo di mettere in chiaro come la proposta di una società libera
(organizzata nel pieno rispetto della proprietà privata e, di conseguenza,
dello stesso diritto dei singoli ad associarsi e stipulare contratti) non
rappresenti in alcun modo un’utopia. Secondo i teorici libertari, non solo la
società libera è moralmente superiore ad ogni altra che accetti il dominio
dell’uomo sull’uomo, ma essa permette anche di porre basi assai concrete per
ordini sociali meglio in grado di soddisfare le effettive e più fondamentali
esigenze degli individui. In
questo senso, il libertarismo è una concezione anti-gnostica, consapevole del
“peccato originale” che contraddistingue il genere umano e persuasa che esso
non sia superabile per via politica (10). È pure una
visione che si rifiuta di maledire questa terra in nome di un Oltre che le
sarebbe del tutto estraneo. Mentre un autore radicalmente avverso al
liberalismo come Oswald Spengler è giunto ad affermare che «chi vuole
soltanto benessere non merita di vivere su questa terra» (11), il libertarismo è
una filosofia politica che può essere abbracciata anche da quegli uomini
assai prosaici che sono ripetutamente condannati dagli utopisti di ogni
colore. È una dottrina che può benissimo soddisfare quanti non considerano
volgare l’aspirazione a vivere meglio e, se pure coltivano ideali più alti e
nobili, ugualmente sono ben disposti ad accettare altri punti di vista e a
convivere con persone meno idealiste (purché rispettose dei diritti altrui). Nel suo
essere intimamente avverso alle ideologie utopiche degli ultimi secoli, il
libertarismo manifesta un elemento della sua natura profonda, ovvero la
totale estraneità alle correnti filosofico-politiche che nel corso dell’età
moderna hanno attribuito allo Stato il compito di purificare la società e
correggere l’imperfezione dell’ordine naturale: a partire, ovviamente, dalla
diseguale distribuzione dei “talenti” naturali (12). 3. Il radicalismo libertario nega ogni ordine
giuridico? Il
libertarismo è una teoria della giustizia e come tale ha un suo innegabile
radicalismo. Ma l’accusa d’utopia indirizzata alle elaborazioni libertarie
potrebbe essere rivolta, con i medesimi argomenti e per l’identico motivo,
all’idea stessa di diritto. Proprio per questa ragione è del tutto infondata
la tesi di quanti ritengono che il libertarismo (essendo teoria radicalmente
avversa allo Stato) sarebbe anche una concezione nemica del diritto e di ogni
ordine legale. Gli
autori libertari, al contrario, reputano che in ragione delle sue
insuperabili imperfezioni l’umanità abbia bisogno di un quadro giuridico e
anzi sostengono che tale contesto legale – per essere davvero tale – debba
lasciarsi alle spalle la statualità ed il carattere del tutto arbitrario che
la legge finisce per assumere al suo interno. Il libertarismo è contro lo
Stato, ma non è affatto contro il diritto.Al contrario, è lo Stato che per
sua natura è antigiuridico ed incompatibile con la tradizione civile del rule of law. A tale
proposito, in Bruno Leoni vi è un’interessante rielaborazione delle tesi
liberali sull’opposizione tra le società caratterizzate dal diritto e quelle
dominate dalla violenza. Egli usa le espressioni stato di società e stato di
guerra, che nella sua analisi diventano categorie fondamentali a cogliere
l’intimo legame tra la guerra (quale contrasto tra le comunità politiche) e lo Stato (quale forma conflittuale all’interno di una comunità). Per il
pensatore torinese, ciò che differenzia «uno stato di società da uno stato di
guerra è, in sostanza, il fatto che nello stato di società esiste una
compatibilità fondamentale tra i fini e rispettivamente tra le condotte degli
individui, mentre nello stato di guerra tale compatibilità non esiste. Nello
stato di guerra ciascuno dei contendenti vuole eliminare l’altro, o vuole prevalere
sull’altro, o vuole fare accettare all’altro una situazione che l’altro non
vorrebbe accettare se non vi fosse costretto dall’azione diretta del
contendente. Nello stato sociale, invece, abbiamo esattamente il contrario» (13). Sulla
base di tali considerazioni elementari, un’analisi realista che muova
dall’uomo e anche dalle logiche dell’interazione sociale può portarci a
ritenere molto improbabile (se non proprio impossibile) uno stato di società compiutamente
affrancato dalla prepotenza del più forte. In altre parole, la pace è sempre
precaria ed il diritto è sempre imperfettamente tutelato. In
questo senso, al pari d’ogni altra teoria politica, il libertarismo non
appare in grado di assicurare al genere umano un futuro di pace: liberato dai
conflitti e dalle prevaricazioni. Ma questa considerazione di buon senso non
può autorizzare a rigettare gli obiettivi della pace e del diritto, che il
libertarismo considera certamente centrali. Per
giunta, la riflessione di Leoni sul nesso tra diritto, pace e libertà ci
permette di cogliere un altro aspetto del problema. Lo stato di società in cui gli obiettivi ed i comportamenti dei
singoli trovano una loro composizione è esattamente la società retta dal
diritto. È proprio l’ordine giuridico emerso storicamente grazie
all’interazione sociale e volto sostanzialmente alla tutela dei diritti di
proprietà che è in grado di permettere la coesistenza di progetti
esistenziali differenti, i quali convivono senza scatenare conflitti. Secondo
Leoni, d’altra parte, diritto è – solo ed esclusivamente – il diritto
privato, inteso come protezione della libertà del singolo. In
questo senso, ricercare la pace significa porsi entro una prospettiva
libertaria, che definisca i titoli di proprietà di ogni individuo (condizione
per una compatibilità d’azione con gli altri) ed affermi la centralità dell’assioma di non aggressione. La stretta
relazione che collega l’interventismo interno (socialismo) all’interventismo
internazionale (imperialismo) è parallela al rapporto tanto stretto che
collega gli ideali della pace, del diritto e della libertà individuale. Non a
caso, sempre in Leoni è affermata la tesi secondo cui entro l’ordine statuale
è inevitabile «la guerra legale di
tutti contro tutti» (14). Un ordine sociale che accetti la presenza del potere
statale e neghi i diritti di proprietà trasforma i diritti in attribuzioni
legali e mette in moto un processo conflittuale che spinge singoli e gruppi
ad ottenere ogni genere di privilegi dall’aristocrazia politica e, come
avviene all’interno dei sistemi politici occidentali, dalle dinamiche
redistributrici della rappresentazione democratica. Perseguire
un ordine giuridico libertario (basato sulla proprietà e sul tipo di
coesistenza che da essa deriva) è quindi l’unica prospettiva realista che possa adottare chi
intende ricercare un futuro che riduca al minimo il ricorso alla guerra. Per
tali ragioni, bisogna riconoscere nell’idea stessa di diritto il criterio
necessario, da cui è impossibile prescindere, di un processo che per sua
natura resta sempre imperfetto ed incompiuto. Quanti accusano d’utopismo la
riflessione libertaria, allora, sono costretti a rigettare l’idea stessa di
diritto: che è criterio euristico per eccellenza e quindi anch’esso destinato
a non trovare mai ed in nessun luogo una sua definitiva realizzazione. Come
già si è detto, nella riflessione di Leoni lo stato di società è semplicemente la società liberale, l’ordine
libertario, la rete delle relazioni umane che non fanno ricorso alla
coercizione e all’aggressione. Per contro, con stato di guerra egli definisce quell’ordine sociale di tipo
statale in cui alcuni uomini s’impongono su altri, la proprietà privata è
ripetutamente negata e la collettivizzazione progressiva della società (come
della cultura, dell’economia e così via) è solo l’esito fatale di una
crescente politicizzazione dei rapporti umani, la quale vede trionfare i più
forti e meglio organizzati. Diritto
e pace, insomma, sono difficilmente disgiungibili, tanto che i conflitti
internazionali rappresentano l’inevitabile punto d’arrivo di quella conquista
“interna” operata da classi politiche sempre più desiderose di ampliare le
loro conquiste e, quindi, pronte a manifestare anche al di fuori dei confini
nazionali la loro volontà di dominio (15). Alla
luce di tali considerazioni, è chiaro che il libertario Leoni si propone di
difendere unicamente l’esistenza stessa del diritto, quale ordine di pace e
convivenza. In questo senso, giudicare utopistica la prospettiva libertaria
significa ritenere utopistica ogni teoria che affermi la possibilità stessa
del diritto. Per
giunta, nel momento in cui riconduce, da un lato, lo Stato alla guerra e,
dall’altro, il diritto alla pace, Leoni ci aiuta a comprendere come la teoria
libertaria sia tutt’altro che irrealistica, inutile ed improduttiva. È ben
vero, infatti, che gli uomini hanno fatto guerre in passato e con ogni
probabilità altre ancora ne faranno negli anni a venire, ma questo non deve
impedirci di vedere che nell’ordine consueto delle nostre relazioni sociali
noi interagiamo con gli altri in forma pacifica, rispettando i diritti del
prossimo, senza ricorrere a minacce e senza indulgere in comportamenti
aggressivi. Il
libertarismo sarebbe un’utopia se lo stato di guerra fosse sempre e
necessariamente prevalente sui rapporti di cooperazione, e se le relazioni
giuridiche e mercantili fossero costantemente aggredite da quanti dispongono
dell’uso della forza. Ma fortunatamente non è così. 4. È ragionevole la pretesa
libertaria di eliminare ogni forma di aggressione? L’opzione
coerentemente liberale di un autore come Murray N. Rothbard si basa sul
riconoscimento di taluni principi morali, riconducibili alla norma secondo
cui non è lecito aggredire i propri simili. Istituzioni che permettano
d’utilizzare la violenza nei riguardi di soggetti innocenti non sono quindi
in grado di reggere al vaglio critico di questa coscienza morale. Tali
argomenti sono certamente sufficienti a giustificare il rifiuto libertario di
ogni ordinamento statale e già alcune grandi figure del diciannovesimo secolo
– da Herbert Spencer a Lysander Spooner – avevano elaborato la loro
riflessione muovendo da tale constatazione fondamentale. È
ugualmente importante, però, che ci si chieda se dopo aver constatato il
vizio originario di ogni ordine politico che accetti in sé elementi
illiberali e promuova comportamenti aggressivi (furti, minacce, rapimenti e
così via) la libertà radicale difesa dai pensatori libertari debba restare un
semplice criterio di giudizio oppure possa essere anche la premessa per la
trasformazione effettiva delle nostre società. Va
subito anche rilevato che se per ipotesi la teoria libertaria servisse
unicamente da “regola”, svolgendo la funzione di uno strumento utile a
giudicare le concrete relazioni ed istituzioni umane, essa avrebbe già un
ruolo fondamentale. Quanti accusano il libertarismo di essere un’utopia solo
perché si regge su principi astratti, i quali sono ben lontani dall’essere
sistematicamente ed uniformemente applicati nelle società contemporanee, non
sembrano comprendere l’importanza di possedere canoni in condizione di farci
esprimere un giudizio ponderato. In ambito religioso, indicare l’obiettivo
della santità non significa certo
nascondersi tutte le difficoltà correlate a tale traguardo e lo stesso può
dirsi per la funzione giocata dal bello
in campo estetico. Coloro
che giudicano “utopistica” la prospettiva libertaria dovrebbero esprimere lo
stesso giudizio di fronte ad un amministratore di una grande città che,
constatata una media di cinque omicidi al giorno, si proponesse di abbassare
a zero il numero di tali crimini. Una cosa è riconoscere che quell’obiettivo
è più o meno difficile da raggiungere; altra cosa, invece, è giudicarlo
sbagliato o troppo ambizioso. In questo senso, i libertari “tiepidi” o
“moderati” sono come uomini politici o magistrati che si accontentassero di
assistere soltanto ad uno o due
omicidi al giorno nella loro città e ritenessero sensato tale obiettivo (16). Il
libertarismo è una teoria della
giustizia che muove dal riconoscimento della dignità dell’uomo. Per
questa ragione, esso ritiene illegittima ogni menomazione della libertà dei
singoli, che in una prospettiva libertaria coincide con il rispetto dei
diritti di proprietà. Il fatto che la teoria
libertaria non sia spesso e facilmente tradotta in realtà non può essere
sufficiente a decretarne l’inconsistenza. Constatare
che un obiettivo non è facilmente raggiungibile non ci esime dal tentare di
raggiungerlo, specie se si considera che non vi è nulla di inevitabile
nell’omicidio come in ogni altra forma di aggressione all’uomo (furto,
tassazione, coscrizione obbligatoria, e così via). Non ha alcun senso, in questa
circostanza, richiamare l’adagio ad
impossibilia nemo tenetur, dato che una cosa è pretendere che gli uomini
si librino in aria quasi fossero aquile ed altra cosa, invece, è impegnarsi
contro l’omicidio, la schiavitù, il furto, l’aggressione ed ogni altra
ingiustizia che provenga unicamente da azioni individuali di carattere
criminale. L’ambizioso obiettivo della teoria libertaria resta tutto
all’interno di ciò che ad ogni uomo può
e deve essere richiesto: rispettare
il prossimo nella sua dignità e, quindi, non alzare la mano su di lui e sui
suoi titoli legittimi. 5. In che senso un ordine
libertario può meglio assicurare i servizi di protezione? Un
aspetto caratteristico del libertarismo è la definizione dei diritti
individuali quali diritti inviolabili (il cosiddetto principio di non aggressione). Ma un altro elemento fondamentale
è da riconoscere nella proposta di estendere la concorrenza di mercato anche
ad ambiti che la teoria politica della modernità ha affidato in forma
monopolistica alle istituzioni di Stato. In
questo senso, il saggio pubblicato nel 1849 da Gustave de Molinari su Le Journal des Économistes (in cui lo
studioso franco-belga avanza per la prima volta, in età moderna, l’ipotesi di
una società integralmente di mercato), continua a preservare intatta la sua
attualità (17).
Il cuore della riflessione di Molinari è elementare e per questo solidissimo:
egli muove dalla tesi che se la concorrenza è generalmente considerata
auspicabile per la produzione di ogni tipo di beni e servizi, non vi è motivo
di ritenere che essa non possa essere vantaggiosa anche nell’ambito della
produzione della sicurezza e, quindi, della stessa giustizia. Il
punto nodale e più originale del libertarismo è da riconoscere proprio in
quest’intuizione centrale, che conduce i liberali ad essere davvero coerenti
e, in tal modo, a superare il mito moderno della “sovranità”, abbandonando
l’idea che vi debbano essere ambiti che, per loro natura, vanno considerati
come essenzialmente statali e che quindi devono essere gestiti da un’unica
agenzia egemone. In
queste sue analisi, Molinari anticipa in termini radicali la critica liberale
alla teoria dei beni pubblici e più in generale all’interventismo, la quale
si avvale pure di talune lezioni fondamentali della scuola austriaca. Uno dei
contributi maggiori del pensiero sociale novecentesco, in effetti, va
rinvenuto in quelle pagine del 1920 nelle quali Ludwig von Mises mostra
l’impossibilità del calcolo economico in una società collettivista, che abbia
eliminato la proprietà privata e reso in tal modo impossibile l’emergere di
prezzi di mercato (18). La tesi
centrale di Mises è che «la cooperazione sociale può essere basata solo sul
fondamento della proprietà privata dei mezzi di produzione. Il socialismo –
la proprietà pubblica dei mezzi di produzione – renderebbe infatti
impossibile ogni calcolo economico e quindi è impossibile» (19). Prendere sul serio
un simile argomento e coglierne tutte le implicazioni, però, ci impone di
sottrarre all’irrazionalità il nostro comportamento in ogni ambito, evitando
che nel campo della protezione e della giustizia si possa disporre di beni e
servizi che sono prodotti fuori dal
mercato e che per questo non siano sottoposti alla dura disciplina
dell’analisi costi-benefici (la quale, in virtù della radicale soggettività
delle preferenze, può essere condotta solo a livello individuale). Ma
nessun calcolo razionale e nessun adeguamento tra mezzi e fini può essere
possibile quando non si dispone di prezzi liberi, e cioè nel momento in cui i
prezzi sono fissati in maniera arbitraria o alterati da produzioni pubbliche
(non economiche), meccanismi
redistributivi, impedimenti all’ingresso in un mercato. Se tale
considerazione è vera in generale, essa lo è ugualmente di fronte alla
produzione dei servizi di law &
order, che allo stesso modo non possono essere forniti in maniera
adeguata da un apparato statale e, in senso lato, “sovietico” (20). Quando
all’interno di una società interi ambiti sono amministrati dal monopolio
della violenza legale, insomma, gli individui non possono valutare nel
migliore dei modi i benefici ed i costi delle diverse produzioni. Per quanti
non dispongano di prezzi di mercato, è assolutamente impossibile scegliere
tra investimenti alternativi e quindi riuscire a sapere, ad esempio, se sia
opportuno investire maggiormente nella farmaceutica o in nuove tecnologie
militari, nella costruzione di università o di tribunali. La
conseguenza è che l’intera società è portata a moltiplicare gli sprechi e le
inefficienze, mentre la pretesa di poter individuare “interessi generali” e
“beni pubblici” obbliga gli individui a finanziare – attraverso la tassazione
– progetti non condivisi e anche moralmente rigettati. 6. Per il libertarismo una
società senza Stato è, di per sé, una società di mercato? Esaminando
da vicino i testi di Gustave de Molinari è però facile riconoscere un punto
debole della sua riflessione (21). In
effetti, nei suoi scritti sulla produzione privata della protezione egli non
affronta, e neppure prende in considerazione, la distanza che separa un
ordine caratterizzato da una pluralità di agenzie di protezione ed un ordine effettivamente
di mercato (in cui le istituzioni in condizione di usare la violenza siano
effettivamente schierate a tutela degli individui e non usino la loro forza
per aggredirli). Non c’è
dubbio che, in una prospettiva libertaria, una pluralità di agenzie sia
preferibile ad un ordine monopolizzato da un solo ente. L’idea di base è che
numerosi soggetti in condizione di usare la violenza siano, ceteris paribus, meglio in condizione
di assicurare un ordine di giustizia. In altre parole, l’idea è che essi possano
più adeguatamente garantire un’efficace tutela dei diritti individuali. È però
bene non identificare società senza
Stato e società di mercato. In
più di un’occasione, in effetti, il libertarismo fatica a farsi riconoscere
quale teoria coerente proprio perché non focalizza in maniera appropriata
questa distinzione. Alcuni chiarimenti, sia lessicali che concettuali, si
mostrano quindi necessari. Il
modello della società di mercato
indica un ordine sociale in cui i diritti dei singoli siano perfettamente
tutelati da una pluralità di imprese private. Tale società è giusta eppure, al tempo stesso, imperfetta. È giusta poiché al suo
interno sono evitate tutte le possibili aggressioni, ma resta comunque imperfetta
poiché la giustizia non è minimamente in condizione di eliminare le
meschinità morali degli uomini che compongono la società, né può abolire i
limiti ontologici che caratterizzano ogni esistenza umana. Nel modello ideale
della società di mercato, la vita umana continua ad essere dominata dalla
scarsità del tempo, delle risorse materiali, dell’affetto altrui, della
conoscenza, e così via. È una società in cui la morte, l’egoismo, l’ignoranza
e la sofferenza permangono, insieme all’umana indifferenza verso il prossimo. Il
sussistere di tutti questi limiti, però, non è affatto un argomento contro la società di mercato (che è,
lo ripetiamo, società perfettamente
giusta), dato che nessuno può e deve attendersi dal diritto il
superamento di tale condizione. Da
parte sua, la società senza Stato è
una società in cui l’abolizione del monopolio della violenza legale apre la
strada ad un ordine policentrico, nel quale possono trovare spazio imprese
più o meno determinate a produrre la protezione del prossimo, teorie
giuridiche più o meno rispettose dei diritti altrui, comunità filantropiche,
mafie aggressive, e via dicendo. Questa
società può essere definita, in rapporto alla società di mercato (prima
riconosciuta come società imperfetta),
come una società più-che-imperfetta.
In effetti, la semplice abolizione dell’aggressione istituzionalizzata non è
in condizione di eliminare ogni possibile pregiudizio arrecato ai diritti
individuali, portandoci in una società di mercato. Ma questa società più-che-imperfetta è la condizione
necessaria – anche se non sufficiente – all’instaurazione di una società di
mercato. Per i
libertari, la libertà individuale rappresenta il fine politico supremo e lo
strumento meglio in grado di permetterci di conseguire tale risultato è la
concorrenza. Mentre il giusnaturalismo liberale definisce i fini di una
società giusta (la tutela della proprietà e, quindi, della libertà umana), il
pluralismo di un ordine protettivo retto da agenzie private concorrenti
esprime il profondo realismo di una teoria politica che sa vedere i limiti di
un ordine monopolistico che nega ogni forma di competizione, libera scelta,
strategia di exit. Dov’è,
allora, l’errore cruciale di Molinari? Lo
studioso franco-belga sembra non vedere come il bene “protezione” sia di un
genere del tutto particolare. La fornitura della pace, dell’incolumità e
della tutela dei titoli di proprietà, in effetti, implica l’ordine
politico-giuridico. Un
mercato concorrenziale dell’erogazione di un bene generico come l’acqua è
facilmente concepibile, perché esso verrebbe comunque a collocarsi entro un
ordine legale. La differenza essenziale tra acqua e protezione, in questo
caso, sta nel fatto che la produzione della seconda pone in essere ciò che
per distribuire commercialmente la prima è già dato come scontato. Un
autentico mercato della produzione della protezione implica già, per certi
aspetti, un società giuridica ed il prevalere della rule of law. La
scommessa dei libertari sta quindi nel far comprendere ai propri
interlocutori come una pluralità di agenzie protettive (con loro corti di
giustizia, eserciti, polizie) sia da preferirsi ad un ordine monopolistico e
come essa possa ragionevolmente fare emergere una società di diritto,
sostanzialmente retta da agenzie incaricare di “assicurare” la tutela e
l’incolumità dei singoli (22). Entro una prospettiva liberale,
sarebbe troppo facile contrapporre un ordine di mercato ad un monopolio
statale, e mostrare come il primo sia da preferirsi al secondo. La sfida libertaria,
invece, è ben più ardua e chiede che si mostri il primato di una società
senza Stato e perciò a potere diffuso
(con più attori “armati” sulla scena) rispetto ad una contraddistinta dal
monopolio della violenza legale. Il
nocciolo duro del realismo libertario, in effetti, sta proprio nella
convinzione che un ordine senza Stato sia la migliore precondizione perché si
possa avere una società di mercato, basata sul diritto e sul pieno rispetto
delle legittime prerogative di ogni individuo. 7. Un ordine libertario contrasterebbe l’avvento
di monopoli e cartelli? L’avversione
libertaria per i monopoli legali
non comporta il rifiuto di conglomerati monopolistici che emergano dalle
libere scelte degli attori economici: consumatori e produttori. Mentre i giuristi
e gli economisti mainstream
ritengono che una particolare configurazione del mercato (contraddistinta
dalla presenza di posizioni dette “dominanti”) rappresenti di per sé un
attentato alla libertà dei singoli, la teoria libertaria considera anti-concorrenziali
solo quelle imprese la cui posizione è tale in virtù di norme che impediscano
il più ampio accesso al mercato (23). Su
questo tema, Rothbard ha dato un contributo davvero innovativo, mostrando
come si debba distinguere tra i monopoli legittimi
(emersi spontaneamente senza violare i diritti di nessuno, e quindi frutto
della libera iniziativa e delle scelte dei consumatori) ed i monopoli illegittimi (imposti dallo Stato
attraverso patenti “regie”, licenze governative, e così via). I primi
esistono solo e quando soddisfano quanti traggono beneficio dai loro servizi,
mentre i secondi persistono in virtù di protezioni ingiustificabili, che
aggrediscono la libertà d’iniziativa e limitano le scelte dei consumatori (24). In Man, Economy, and State è chiaro come
esista una diversità fondamentale tra il monopolio affermato dalla cogenza
della legge ed il monopolio risultante da iniziative di mercato. Oltre a
meritare giudizi del tutto differenti sul piano del diritto naturale, i due
“monopoli” sono assai diversi poiché quello legale non può essere in alcun modo messo in pericolo dalle
autonome scelte di imprenditori e clienti, mentre il monopolio di fatto è costantemente esposto alla
concorrenza di competitori potenziali e deve comunque fare i conti con ogni
bene alternativo verso cui i consumatori potrebbero indirizzarsi. La
maggior parte dei settori produttivi monopolizzati da un solo soggetto, non a
caso, sono monopoli legali e per questa
ragione è tutto sommato ragionevole sostenere che, in assenza di imposizioni
politiche, difficilmente assisteremmo a processi di fusione e
cartellizzazione tali da far scomparire ogni alternativa di mercato. Nel
corso della sua riflessione, Rothbard afferma che il cartello va considerato
una forma imperfetta di monopolio. Esso è simile al monopolio, perché punta a
realizzare un’intesa che controlli ed armonizzi un intero settore, ma trae la
sua specificità dal fatto che le varie componenti del cartello non perdono la
propria autonomia e per tale ragione mantengono il cartello stesso in una
posizione in qualche modo instabile. Per Rothbard, «il fatto che l’Unico
Grande Cartello non si sia mai formato volontariamente e che abbia bisogno
della forza coercitiva dello Stato per costituirsi dimostra che esso potrebbe
non essere il modo più efficiente di soddisfare i desideri dei consumatori» (25).
Nel corso della storia economica, in effetti, numerosi cartelli privati si
sono rivelati fallimentari proprio per la difficoltà a mantenere loyalty e cooperazione in assenza di
un apparato costrittivo di tipo statale. Qui,
però, la constatazione che i cartelli possono essere – per loro natura –
assai fragili sembra indurre Rothbard a ritenere che essi siano anche sempre
e necessariamente inadeguati a servire nel migliore dei modi i consumatori.
Il che non è vero. Secondo
Pascal Salin, che pure sviluppa la sua riflessione su questi temi muovendo
proprio dalle tesi di Rothbard, lo studioso americano ha torto quando vede
nei cartelli sono una fase preparatoria (e imperfetta) del monopolio. In
questo senso, i cartelli di mercato non sono soltanto legittimi, ma possono
rappresentare la soluzione organizzativa più adeguata al soddisfacimento dei
consumatori. In particolari situazioni, infatti, è lo stesso processo
evolutivo del mercato che può favorire la nascita di accordi e/o
conglomerati, i quali hanno successo solo se gratificano – oltre ai
produttori – il pubblico dei loro clienti (26). A giudizio di Salin, in effetti,
esistono circostanze nelle quali la differenziazione e la standardizzazione
sono entrambe apprezzate, sebbene in tempi diversi ed in misura differente.
Per tale motivo, in date situazioni il mercato può trovare la propria migliore
conformazione grazie ad un cartello, preferito sia ad un ordine pluralizzato
con molti soggetti distinti che ad un unico soggetto monopolista, risultante
ad esempio da una fusione. Mentre
Rothbard sostiene che «se l’azione congiunta è l’azione più efficiente e
conveniente per ogni membro, si assisterà presto ad una fusione» (27), la
tesi di Salin è che «in realtà i cartelli efficienti possono e devono durare,
possibilmente trasformando la loro struttura ed attività, oltre che il numero
dei loro membri». Vi possono essere talune precise circostanze che militano
contro una fusione in senso proprio, a partire dalla considerazione che
«quanto più è grande un’impresa, tanto più è difficile l’organizzazione
interna» (28). Ciò che
qui maggiormente interessa ai nostri fini, ad ogni modo, è che si può
tranquillamente riconoscere come in talune circostanze «vi sono guadagni
potenziali che possono essere ottenuti sostituendo una grande diversità [di
beni] con uno o comunque con un numero limitato» (29). In altre parole,
l’emergere di cartelli può essere una risposta del mercato di fronte alle
esigenze dei consumatori medesimi, che in determinate circostanze giudicano
eccessiva la disomogeneità dei produttori e prediligono una distribuzione
produttiva più omogenea e “compatta”. In più, il cartello è destinato a
permanere e ad essere premiato dai consumatori quando tale ordine moderatamente differenziato (o moderatamente omogeneo) è preferibile
sia alla completa differenziazione che all’omogeneizzazione ottenuta al
termine di un processo di fusione. Salin
basa tutta la sua riflessione sulla considerazione che è impossibile, a
priori, sapere se una certa distribuzione dei fattori produttivi sia
preferibile ad un’altra. In effetti, il grado di omogeneità e, di converso,
di differenziazione non è un dato già noto, ma invece «deve essere scoperto»
(30)
e può emergere solo grazie ad un ordine di mercato che permetta ad ogni
attore di fare il proprio il gioco ed esprimersi al meglio: sul lato della
domanda come su quello dell’offerta. Dal
momento che è impossibile conoscere in anticipo quale può essere la migliore
organizzazione produttiva è necessario lasciare libero corso alle iniziative
degli imprenditori e alle scelte dei consumatori, che possono di volta in
volta fare emergere ordini con un differente tasso di concentrazione e
differenziazione. Il libero gioco del mercato può fare nascere, di volta in
volta, una grande varietà di produttori, un insieme di imprese altamente
coordinate e “cartellizzate” (in forma intenzionale o no) o anche una sola
impresa monopolista. Nessuno di questi esiti può essere considerato illegittimo,
dato che essi prendono forma grazie alle scelte dei singoli ed in risposta
alle esigenze dei consumatori. Come
già si è detto, l’elemento essenziale che contraddistingue un mercato libero
è la facoltà per chiunque di accedervi, e non già la particolare
conformazione dei fattori produttivi che nelle diverse circostanze può venire
a definirsi. In questo senso, un ordine sociale libertario (e quindi privo di
monopoli legali) non potrebbe disporre di strumenti coercitivi atti ad
impedire i processi di concentrazione e ad ostacolare la nascita di monopoli
e cartelli. 8. In un ordine senza Stato emergerebbe necessariamente un “cartello
della protezione”? Anche
se in molti casi la nascita ed il successo di cartelli e monopoli può essere
il risultato – legittimo ed auspicabile – dell’iniziativa privata e quindi di
un processo di mercato, è molto improbabile che entro una società senza Stato
finisca per imporsi un unico soggetto monopolista incaricato di garantire la
protezione ed amministrare la giustizia. In
virtù della particolarità di tale servizio (che è preliminare ad ogni altro),
quello della sicurezza è un settore all’interno del quale il comportamento
razionale degli attori può scongiurare quanto più è possibile il consolidarsi
di un solo centro di potere. In effetti, mentre un monopolio di fatto nella
produzione dell’acciaio è comunque esposto alla competizione di concorrenti
potenziali, nell’ambito del diritto e dei servizi di protezione il monopolio di fatto coincide con il monopolio legale ed è quindi in condizione di
sopprimere sul nascere ogni possibile concorrente. Se un’agenzia protettiva
diventa egemone nella produzione della sicurezza, essa può essere in
condizione di escludere qualsiasi alternativa e trasformare l’iniziale libera
scelta dei propri clienti in un rapporto imposto con la violenza. In
questo senso, è assai interessante rilevare che all’interno della tradizione
libertaria perfino la completa “professionalizzazione” della protezione sia
sempre stata giudicata con un qualche sospetto, in virtù della consapevolezza
che in essa possano esservi gravi rischi per le libertà individuali. Già
oggi, d’altra parte, le società di consolidata tradizione liberale – dalla
Svizzera agli Stati Uniti – continuano ad essere caratterizzate dal fatto che
un gran numero di cittadini dispone di strumenti personali di difesa. Se sul
piano storico il disarmo della società è stato uno dei passaggi cruciali nel
lungo processo che ha portato una piccola classe politica a trionfare
sull’intera società, appare evidente che un ordine di libertà comporta che
gli individui si riapproprino completamente del loro diritto all’autodifesa. Dipendere
totalmente dagli altri, fosse anche da un’impresa al nostro servizio ed in
concorrenza con altre, può essere una scelta imprevidente. Ma se è facile
comprendere quali possano essere i rischi della completa perdita di ogni
attitudine a difendersi da sé e proteggere i propri cari, ugualmente
irragionevole è orientarsi verso un’unica agenzia protettiva. In
questo senso è interessante ricordare nuovamente come la scuola austriaca
enfatizzi che un mercato concorrenziale non è mai una situazione definita una
volta per tutte (statica), ma
invece implica un processo di ricerca (dinamico).
Questo è particolarmente importante di fronte all’esigenza di trovare un
ordine protettivo adeguato, che sia in grado di proteggere al meglio gli
individui e tutelarne i diritti. Tale
dinamicità è necessaria perché le minacce mutano ed evolvono, e quindi anche
l’ordine protettivo assicurato dalle agenzie di protezione deve essere pronto
a cambiare dinanzi a sfide sempre nuove. Ma non si trasformano soltanto i
potenziali soggetti aggressivi; lo stesso nostro giudizio sull’entità e sulla
qualità della protezione che desideriamo è soggetto all’evoluzione culturale
e di costume che investe quotidianamente ogni società. Un sistema
pluralistico di mercato appare, anche per tale ragione, la risposta più
adeguata ad una “domanda” che chiede di essere soddisfatta nel migliore dei
modi. Come
già si è sottolineato, per giunta, le imprese di protezione che puntano a
realizzare cartelli si muovono in tale direzione non soltanto con l’obiettivo
di poter fissare prezzi sempre più alti, ma anche nella prospettiva di
trasformare i clienti in sudditi. A tale proposito, lo stesso Salin non ha
difficoltà a riconoscere che perfino la fallace concezione tradizionale in
tema di monopolio «è certamente appropriata quando è applicata ad un caso di
un privilegio pubblico: e cioè all’esistenza di una barriera legale all’ingresso
nel mercato» (31).
Ma un monopolio di fatto
nell’ambito della produzione della sicurezza può certamente essere ricondotto
a questa situazione. Queste
considerazioni sui benefici di un ordine protettivo a potere diffuso, ad ogni modo, non possono del tutto ignorare
quanto si è detto in precedenza a proposito di monopoli e cartelli. In
effetti, l’analisi di Salin può utilmente aiutare anche la nostra analisi in
merito alle condizioni per avere un efficace mercato della protezione. Entro
un ordine di mercato, nel processo
che induce alcune imprese a “cartellizzarsi” è possibile riconoscere
un’opzione che risponde alle esigenze dei produttori e un’altra, invece, che
cerca in primo luogo di soddisfare i consumatori. All’interno di un quadro
giuridico caratterizzato dal rispetto dei diritti di proprietà e quindi anche
dalla piena libertà di offrire agli altri uomini ogni bene e servizio,
insomma, le imprese hanno tanto più successo quanto più soddisfano i clienti.
È quindi una razionalità da “mano invisibile” quella che favorisce l’emergere
di cartelli di mercato e anche di monopoli di fatto. All’interno
di una società senza Stato, invece,
è certamente possibile che i produttori di quello specifico servizio che è la
protezione si coalizzino soltanto al fine di massimizzare le loro utilità, a
scapito dei consumatori. Fusioni ed intese possono essere collegate a precise
“cospirazioni”, volte ad imporre la propria volontà con la forza e ad
asservire quelli che, in precedenza, erano unicamente clienti e consumatori.
Proprio la possibilità di avvertire tale rischio e comprendere razionalmente
le conseguenze negative, però, è in grado di indurre a quei comportamenti
volti a scongiurare un simile esito e a valorizzare i produttori isolati e di
piccole-medie dimensioni. Il concetto di polycentric
order – proveniente dalla riflessione di Michael Polanyi – è qui utile a
definire la complessità e la raffinatezza di quel sistema di checks and balance che può venire ad
instaurarsi anche in assenza di una costituzione politica imposta dall’alto (32). La
tesi di Polanyi è che «un compito policentrico può essere gestito solamente
tramite un sistema di aggiustamenti reciproci». In questo senso, l’ambito
della produzione si sviluppa lungo una procedura non troppo differente da
quella che è caratteristica del diritto evolutivo (dato che la common law «costituisce una sequenza
di aggiustamenti tra giudici che si succedono, guidata da una parallela
interazione tra i giudici ed il pubblico») e anche del mondo scientifico,
entro il quale «ogni proposta aggiunta al corpo delle dottrine scientifiche è
soggetta ad un regolare processo di verifica», senza che vi sia un’autorità
che ha la facoltà di esprimere un giudizio finale e inappellabile (33). Seguendo
la medesima logica, nel corso di un’evoluzione che dovesse condurre da un
ordine protettivo pluralista (atomistico) verso uno monopolistico, i
consumatori sarebbero in condizione di avvertire come i benefici e le opportunità
correlati all’iniziativa intrapresa dall’azienda in posizione dominante (a
partire dalle economie di scala e dall’omogeneità del prodotto) non riescano
a compensare i costi e i rischi connessi al trionfo di un’unica
“superpotenza”, del tutto in grado di mutare la propria relazione con i
consumatori. Di fronte al profilarsi di un soggetto protettivo egemone si
aprirebbe uno spazio di mercato per altri attori indipendenti e attivi in
quel settore (34). In una
società provvisoriamente priva di un unico centro della produzione di norme e
protezione, insomma, i monopolisti in
pectore dovrebbero fare i conti con l’ostilità dei consumatori, i quali
con ogni probabilità non apprezzerebbero la cospirazione volta a
monopolizzare ogni servizio protettivo e sarebbero indotti quanto più è
possibile a sfuggire al prezzo unico e al servizio standardizzato (imposto
d’autorità), oltre che al mutato rapporto di obbligazione: che da contrattuale pretenderebbe di
convertirsi in politico (35). In
Salin vi è un’utile distinzione tra i cartelli sorti per spontaneous coordination e quelli nati per explicit cooperation (36). Mentre i secondi sono il frutto di
una strategia negoziata che in genere punta a definire un prezzo comune e una
ripartizione del mercato (della produzione), i primi emergono anche in
assenza di intese formali, quali risposte locali e convergenti alle attese ed
alle esigenze del pubblico. La distinzione può essere opportuna ad
evidenziare come sia possibile avere un processo di armonizzazione anche in
assenza di un soggetto che gestisce tale processo e l’impone. Neppure
di fronte al problema della protezione, d’altra parte, possiamo dimenticare
che il cartello è una risposta imprenditoriale alle esigenze dei consumatori,
in certe circostanze e date talune ben precise preferenze. Esso comporta un
generale adeguamento che integra tra loro i differenti soggetti di mercato,
permettendo l’insorgere di standard e prodotti tra loro compatibili. Per sua
natura, ricorda ancora Salin, il cartello «tende ad indurre omogeneizzazione,
e cioè sostituibilità». In questo senso bisogna tenere presente che «vi sono
molte attività specifiche nelle quali vi è una domanda di omogeneità,
specialmente in attività di rete come le telecomunicazioni, i trasporti e la
moneta (che sono spesso considerati beni pubblici e anche monopoli
naturali)». Al riguardo lo studioso francese rileva l’importanza in tale
ambito delle esternalità e, quindi, il fatto che «una moneta è tanto più
utile ad una persona quanto più essa è ampiamente accettata dagli altri». Nel
contesto monetario, insomma, «esiste un guadagno potenziale che può essere
ottenuto grazie alla riduzione del grado di differenziazione della produzione
di tali beni» (37). Un
discorso simile può essere fatto per il linguaggio e, cosa che a noi
interessa particolarmente in questa riflessione, per il diritto. Non è quindi
escluso che taluni tratti di omogeneità possano emergere per coordinazione spontanea e, talora,
anche per cooperazione esplicita (38). È ormai ben noto ai più che nell’ambito degli ordini legali di
tipo evolutivo si assiste a processi di armonizzazione spontanea, emergenti dal basso. Come ha sottolineato Bruce
L. Benson, «il diritto dei mercanti si sviluppò dando vita ad un sistema
legale universale grazie ad un processo di selezione naturale» (39). L’esigenza di
standard comuni a cui pretende di dare risposta la formazione di un cartello
può allora trovare altre soluzioni, che si costituiscono in maniera
coordinata e del tutto spontanea, senza che si faccia ricorso ad intese
esplicite, formalizzate, stabili e tali da chiudere il mercato ad ogni
competizione ed innovazione. Nel
momento in cui i cartelli protettivi mancassero di ogni coordinazione spontanea, in effetti, essi sarebbero assai
sgraditi agli individui medesimi (ai clienti), i quali tenterebbero di
spostare capitali ed imprese, in particolare, dove il rapporto tra l’entità
dei costi e la qualità dei servizi risulti più vantaggioso. La spinta verso
la costituzione di cartelli, in tal modo, verrebbe fortemente contrastata e,
non di rado, dovrebbe fare i conti con ostacoli insormontabili. Oltre a
ciò, lo stesso processo di omogeneizzazione del cartello comporterebbe costi
specifici, che potrebbero farsi eccessivamente alti e mettere in discussione
l’esistenza stessa dell’intesa. Quanto più un cartello pretendesse di far
cooperare i propri membri secondo un progetto deliberato, tanto più esso si
esporrebbe a comportamenti sleali. A quel punto, molti dei soggetti
“federati” avrebbero un forte incentivo a giocare da free-rider e rendere del tutto instabile e senza valore l’intesa
precedentemente raggiunta. Nel
contesto internazionale contemporaneo, caratterizzato dall’assenza di un
monopolio legale della violenza (e che quindi può essere in parte assimilato
ad un ordine senza Stato), pure in
ambito giuridico stiamo in effetti assistendo a processi di globalizzazione, accompagnati da una
“coordinazione spontanea” che emerge dal basso ed è volta a soddisfare i
consumatori (40), ed al tempo stesso a processi di globalismo giuridico, segnati
piuttosto da una “cooperazione esplicita” tra le varie classi
politiche nazionali, le quali mirano ad attribuire sempre maggiori poteri ad
entità sovranazionali e prive di competitori. È certamente
possibile che la tendenza globalista ed illiberale possa trionfare. Nulla
esclude che l’Onu un giorno s’imponga come istituzione egemone e che l’intera
umanità finisca per essere dominata dalla medesima classe politica e
giudicata dagli stessi magistrati. È pure possibile che la logica intimamente
hobbesiana che da quattro secoli ispira le istituzioni statali si affermi
anche in ambito internazionale, ponendo fine all’incoerenza e alle
contraddizioni del presente, che vede la compresenza di monopoli statali
entro un ordine globale largamente anarchico. È però
ugualmente vero che la storia dell’ultimo secolo è lì a mostrarci quanto sia
difficile che una cospirazione volta ad unificare l’umanità abbia successo e
come le intese di tipo internazionale finiscano per reggere ed essere
accettate solo se e quando quanti vi partecipano ed i loro
clienti ritengono che un ordine pluralizzato ed iniziative unilaterali non
siano più efficaci. In
questo senso, la strutturale debolezza di quel particolare “cartello” che è
l’Onu non deve essere necessariamente considerata un fattore negativo. Non si
tratta per nulla di un limite da superare, realizzando a more perfect union (per usare il linguaggio del
costituzionalismo americano). L’Onu è
instabile proprio perché i cartelli hanno la non comune caratteristica di
poter offrire soluzioni omogenee quando vi è il consenso dei membri che
l’hanno costituito, ma al tempo stesso si dissolvono o comunque perdono
rilievo nel momento in cui i componenti dell’accordo ritengono sia
preferibile un comportamento da cavalier
seul (41). Quanto
vi è di negativo e pericoloso nell’Onu, allora, non sta in primo luogo nel
suo essere un cartello all’interno di un ordine internazionale privo di un
monopolio della violenza, ma piuttosto nel fatto che i suoi membri sono
monopolisti legali su scala nazionale, la cui posizione di egemonia nella
fornitura dei servizi di law &
order è ottenuta con la violenza e la minaccia (in virtù di obblighi
politici, e non certo di libere intese contrattuali). L’esempio storico dell’Onu attesta, allora, come in un
ordine politico senza Stato le agenzie intreccerebbero probabilmente
relazioni “federali” (o di cartello) assai fragili e precarie, rese
particolarmente instabili non soltanto dai consueti incentivi ad agire in
maniera opportunistica, ma anche dal timore di ogni membro di essere
ingabbiato da una nuova realtà “sovrana”. Anche se non mancano buone ragioni per costituire accordi
ed intese volte ad aumentare il tasso di omogeneità (armonizzazione), è
quindi chiaro come pure nell’ambito della protezione il successo di un unico
cartello appaia particolarmente contrastato dai comportamenti razionali degli
attori sulla scena. 9. Una società libertaria vedrebbe trionfare agenzie “aggressive”? Quando
ci si chiede se in una società senza monopolio emergerebbero le imprese
peggiori (le più aggressive ed illiberali), si riformula nel contesto della
sicurezza quella che in ambito monetario va sotto il nome di “legge di
Gresham”. L’argomento
vuole che in un mercato libero, in cui chiunque può offrire la propria
valuta, le monete “cattive” finirebbero per scacciare quelle “buone”. Com’è
stato mostrato più volte, però, le cose non funzionano in quel modo. La
moneta cattiva scaccia la moneta buona soltanto se siamo in un quadro legale
che impone di accettare le monete ufficiali (a corso legale) e quindi se una
sterlina d’oro alleggerita ha lo stesso valore legale di una sterlina d’oro
ancora intatta (42). In quel caso, come rilevò appunto Gresham, restano in
circolazione solo le monete “taroccate”, mentre quelle il cui peso non è
stato alterato vengono tesaurizzate. Se correttamente compresa, però, questa
legge non mostra il fallimento dell’ordine di mercato; al contrario, essa
evidenzia come il mercato delle monete – al pari di qualunque altro – non
accetta interferenze pubbliche. In un
contesto monetario unificato (caratterizzato dal monopolio legale di una
moneta) quanti sono insoddisfatti dalla valuta “ufficiale” – l’unica
utilizzabile entro quel quadro giuridico – non hanno alcuna possibilità di
reagire. In un ordine di free-banking,
al contrario, le monete sono creazioni sociali che esigono costantemente il
consenso di quanti le utilizzano. Nel
passato, in assenza di un monopolio legale della moneta si era assistito
all’emergere di monete sottratte all’arbitrio di quelle autorità che oggi
sono in condizione di far dilatare illimitatamente la base monetaria. In
altre parole, mentre il free-banking
della tradizione occidentale aveva visto nascere ed affermarsi quella tipica
moneta di mercato che è l’oro, l’abbandono del gold-standard è stato all’origine dei devastanti processi
inflazionistici del ventesimo secolo (conseguenza quasi inevitabile del fiat money). Se è
quindi da rigettare la tesi secondo cui la libertà monetaria farebbe emergere
le valute peggiori, ugualmente contestabile è l’ipotesi in virtù della quale
un mercato concorrenziale della sicurezza dovrebbe necessariamente condurre
al successo delle agenzie peggiori. In realtà, è impossibile sapere – a
priori – quale potrebbe essere l’effettivo sviluppo di un libero mercato
della protezione in assenza di un monopolio di tipo statale. In questo come
in altri casi, tutto dipende in primo luogo dalle preferenze dei singoli
attori e, quindi, dalle loro scelte effettive. È però
possibile avanzare una serie di congetture, che prendano le mosse dalla
considerazione che il bene della sicurezza è del tutto particolare e, come
già si è detto, preliminare ad ogni altro. In effetti, ogni altro tipo di
produzione ed attività umana esige quel quadro legale che le agenzie di
protezione s’incaricano di assicurare. Riconosciuto
questo, in una società liberata dal monopolio della violenza legale
l’emergere di una pluralità dei soggetti incaricati di garantire la
protezione non è affatto da considerarsi un’utopia, dato che entro una
società senza Stato gli imprenditori della sicurezza e del diritto sarebbero
indotti a rispondere alle esigenze di soggetti che hanno distinte preferenze
in tema di law & order. Le
caratteristiche e le qualità di tali agenzie, come sempre, dipenderebbero
essenzialmente dalle caratteristiche e dalle qualità dei membri della
società. In questo come in ogni altro caso, sarebbero insomma gli individui
(attivi sul lato della domanda e su quello dell’offerta) a definire in un
senso o nell’altro la natura delle varie società protettive. Ipotesi uno (“tutti gli uomini sono criminali”). Nell’ipotesi
completamente astratta ed irreale in cui tutti gli uomini fossero interamente
votati a comportamenti aggressivi e irrazionali (in cui, insomma, nessuno
fosse orientato ad assumere atteggiamenti collaborativi e rispettosi degli
altri), l’ordine senza Stato sarebbe fatalmente dominato da agenzie criminali,
volte a trarre beneficio da strategie delinquenziali, coercitive e violente.
Supponendo che l’intera umanità abbia questi caratteri (che poi sono quelli,
a ben vedere, dello stato di natura hobbesiano), un ordine a potere diffuso
dominato da molte agenzie aggressive non sarebbe sostanzialmente diverso da
un ordine egemonizzato da una sola agenzia aggressiva. È davvero impossibile
sapere se sia peggio il successo incontrastato di un unico Stato nelle mani
di criminali sanguinari (un’orrenda miscela di elementi hitleriani e
staliniani) oppure se non sia da augurarsi lo scontro totale tra Stati
indipendenti, ma tutti ugualmente controllati da uomini politici con quelle
caratteristiche. Ipotesi due (“la maggior parte degli uomini non
sono criminali”). Ma se
si abbandona tale congettura e s’immagina che sulla scena sociale vi siano
taluni attori razionali e morali (rispettosi dei principi giuridici e anche
interessati a privilegiare i benefici a lungo termine) ed altri con
attitudini opposte, è chiaro che il gioco dell’interazione tra i diversi
attori e le differenti strategie muta radicalmente. Nell’ipotesi
in cui i soggetti razionali e morali siano maggioritari, in effetti, è facile
prevedere come si possa assistere ad un prevalere delle agenzie al servizio
di questi ultimi, che potrebbero efficacemente contrastare le imprese di
protezione aggressive (statali, mafiose o d’altro genere) ed indurre anche
gli individui più riluttanti ad orientarsi verso agenzie che godano di
un’ampia rispettabilità. In questa situazione, gli individui corretti
potrebbero trarre notevole beneficio dai meccanismi della pressione sociale
e, oltre a ciò, dalla superiore razionalità dei comportamenti non aggressivi. Sotto
vari punti di vista, in effetti, un comportamento giuridicamente corretto – e
quindi rispettoso dei diritti altrui – è non solo morale (poiché rinuncia ad utilizzare l’aggressione), ma anche razionale. Esso può essere definito
conforme alla ragione umana non solo entro un quadro etico che valorizzi la
filantropia e il rispetto dovuto al prossimo, ma pure da quanti si limitano
ad apprezzare le strategie utilitaristiche. In effetti, se talvolta i
comportamenti criminali e coercitivi possono avvantaggiare quanti li
adottano, è pur vero che a lungo termine e in riferimento a vasti gruppi
sociali le attitudini improntate al rispetto del prossimo favoriscono la
crescita dell’intera società: incentivando gli investimenti, favorendo lo
sviluppo tecnologico, facilitando l’espansione economica (43). Dal
punto di vista storico, le società che hanno saputo salvaguardare quanto più
è possibile le logiche del diritto e contrastare gli abusi dello statalismo e
della prevaricazione sono state meglio in grado di trarre profitto dagli
straordinari benefici dell’interazione sociale e, in primo luogo, dello
scambio (44).
Sul piano teorico, per giunta, esistono ormai solide analisi sull’opportunità
e sulla ragionevolezza utilitaristica di comportamenti cooperativi, certo
molto più “produttivi” degli stili d’azione che tendono a rigettare o ad
ignorare i benefici che possono derivare dalla collaborazione, dal commercio
e dalla costruzione di relazioni durature e reciprocamente vantaggiose (45). Al
contrario, se entro una società maggioritariamente caratterizzata da uomini
morali e razionali si assiste all’imporsi di un potere di tipo statale, vi è
un alto rischio che questa struttura istituzionale sia esposta al dominio
della minoranza illiberale e, in particolare, dei suoi peggiori esponenti. Un
colpo di Stato di carattere leninista, in virtù del quale il “piccolo gruppo
organizzato” della teoria elitista s’impossessa del potere, fa parte della
fisiologia degli ordinamenti statali. Lo stesso gioco di scambi di favore che
è caratteristico dei regimi democratici, all’interno dei quali ogni lobby di potere è in condizione
d’imporre il proprio volere all’intera società (ottenendo favori e
privilegi), è in questo senso una variante attenuata del dominio esercitato
dal partito unico autodefinitosi “avanguardia del proletariato”. Mentre
una piccola agenzia protettiva di tipo criminale difficilmente potrebbe
trionfare su altre agenzie private in competizione, quello stesso minuscolo
gruppo organizzato può trovare nella struttura di potere caratteristica dello
Stato moderno uno straordinario strumento per imporsi all’intera società. Come
sottolinea Leoni nella frase posta ad esergo del saggio, pure la prospettiva
costituzionale (che pretende di limitare il potere attraverso un testo scritto)
è del tutto priva di realismo, dal momento che prevede un super-governo –
l’assemblea costituente – in condizione di modificare quelle regole stesse
che teoricamente dovrebbero impedire ogni arbitrio della classe politica. È
questa, in definitiva, la tragedia stessa del Rechtsstaat (dello Stato di diritto che è proprio della
tradizionale continentale), il quale ha eliminato i vincoli storici e di
diritto naturale che invece contraddistinguono la rule of law anglosassone. Il carattere altamente indeterminato
degli ordini giuridici senza costituzione scritta, in questo senso, ha il
pregio di evitare ogni monopolizzazione del diritto e, più in generale, il
compiuto controllo della realtà sociale. Ipotesi tre (“la maggior parte degli uomini sono
criminali”). L’ordine
senza Stato è da preferirsi ad un ordine monopolizzato non soltanto
nell’ipotesi in cui la maggior parte degli individui sia orientata verso
comportamenti corretti e rispettosi dei diritti altrui. Nella
stessa eventualità in cui i soggetti razionali e morali siano minoritari,
essi sarebbero in condizione di predisporre una strategia capace di
approntare una loro efficace tutela. È ragionevole immaginare, in effetti,
che una o più agenzie volte davvero a tutelare i diritti possano trarre beneficio
dalle probabili divisioni in grado di insorgere tra le agenzie aggressive. Le
agenzie contraddistinte da logiche giuridiche e quindi orientate a difendere
i loro clienti potrebbero sottoscrivere alleanze tattiche di volta in volta
con questo o quel gruppo di agenzie aggressive, riuscendo spesso a tutelare i
propri clienti anche entro un contesto che dovesse vederle in posizione di
minoranza. L’unica
alternativa possibile ad un ordine a
potere diffuso, d’altra parte, è certamente peggiore. In una società
nella quale la maggior parte dei membri ha attitudini aggressive, è del tutto
irragionevole ipotizzare che il monopolio della violenza legale possa essere
utilizzato a difesa dei pochi individui dal comportamento corretto. Se
perfino una piccola minoranza di criminali di professione è stata spesso in
grado di monopolizzare l’apparato statale, questa operazione può riuscire con
ancor maggiore facilità ad una maggioranza con quelle caratteristiche (questo
vale di tutta evidenza nei sistemi democratici, ma non solo in essi). Ovviamente,
ammettere la possibilità di una società libera in grado di svilupparsi e
durare nel tempo è tutt’altra cosa che escludere l’ipotesi medesima che,
all’interno di una società senza Stato, si possa assistere al trionfo di
un’agenzia irrispettosa dei diritti individuali e che, in altri termini, un
potere statale finisca per imporsi. Ma questa considerazione non può in alcun
modo essere utilizzata contro quanti si sforzano di favorire il superamento
degli attuali ordini istituzionali ed il passaggio ad un ordine sociale
basato sulla proprietà privata, che permettendo il costituirsi di una
pluralità di poteri riesca a dar vita ad un sistema giuridico basato sul
rispetto dei diritti dei singoli e sulla libertà contrattuale. È
irrazionale ed “utopistico” ricercare ciò non esiste e non potrà esistere
mai. La
ricerca di una società giusta, invece, è una delle attività che meglio
definiscono la dignità dell’uomo e in modo più compiuto ci aiutano a
comprenderne la natura profonda. Se un filosofo contraddistinto dal più
robusto realismo quale fu Aristotele giunse addirittura a parlare della
giustizia come di una «virtù perfetta» (46), non c’è nulla di assurdo, di
chimerico o di illusorio nella determinazione con cui la teoria libertaria di
sforza di restare fedele ai propri principi e ne evidenzia in vario modo
l’aderenza alla realtà. Note
(1) Un testo liberale classico che definisce in
termini molto netti la propria distanza dal libertarismo più rigoroso è:
James M. Buchanan, The Limits of
Liberty: Between Anarchy and Leviathan (Chicago: University of Chicago
Press, 1975). Piuttosto refrattari nel condannare in toto lo Stato sono, oltre a Robert Nozick, due filosofi
aristotelici di formazione “randiana” come Douglas Rasmussen e Tibor Machan. (2) Una prospettiva redistributiva di questo genere, che radicalizza
talune tesi di John Rawls, è riconoscibile ad esempio in: Philippe van
Parijs, Cos’è una società giusta
(Firenze: Ponte alle Grazie, 1995 [1994]). (3)
Cfr. Murray N. Rothbard, Power
and Market. Government and the Economy (Kansas City: Sheed Andrews and
McMeel, 1970); Morris e Linda Tannehill, The
Market for Liberty (San Francisco: Fox & Wilkes, 1970); Murray N.
Rothbard, “Il settore pubblico: polizia, legge e tribunali”, in Per una nuova libertà. Il manifesto
libertario (Macerata: Liberilibri, 1996 [1973]), pp.297-333; Bruce L.
Benson, The Enterprise of Law (San Francisco:
Pacific Research, 1990); Bruce L. Benson, To
Serve and Protect: Privatization and Community in Criminal Justice (New York:
New York University Press, 1998); Hans-Hermann Hoppe, Democracy:
The God That Failed. The Economics and Politics of Monarchy, Democracy, and
Natural Order (New Brunswick – London:
Transaction, 2001). (4) In merito al rapporto tra la teoria
libertaria ed il realismo politico europeo mi permetto di rinviare il lettore
a questi due scritti: Carlo Lottieri, “‘Realismo’ ed ‘elitismo’ nel pensiero
politico libertario”, Studi Perugini,
vol. 8, luglio-dicembre 1999, pp.163-192; Luigi Marco Bassani – Carlo
Lottieri, “The Problem of Security: Historicity of the State and ‘European
Realism’”, in Hans-Hermann Hoppe (ed.), The
Myth of National Defense: Essays on the Theory and History of Security Production
(Auburn, Al: The Ludwig von Mises Institute, 2003), pp.21-64. (5) Tra i testi classici dell’individualismo
metodologico vanno sicuramente ricordati i seguenti: Carl Menger, Sul metodo delle scienze sociali,
(Macerata: Liberilibri, 1996 [1883]; Max Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali (Torino: Einaudi, 1958
[1922]); Ludwig von Mises, Human
Action: A Treatise on Economics (Auburn, Al: The Ludwig von Mises
Institute, 1998 [1949]); Friedrich A. von Hayek, L’abuso della ragione (Firenze: Vallecchi, 1967 [1953]); Murray
N. Rothbard, Individualismo e filosofia
delle scienze sociali (Roma: Luiss Edizioni, 2001 [1979]). (6) Come viene sottolineato di seguito (al §
9), i teorici di una società di mercato sono pure persuasi che il tipo di moralità
e razionalità che prevale all’interno dei gruppi umani possa ragionevolmente
fare emergere un ordine di questo tipo. (7) Sul tema si veda: Guglielmo Piombini, “Il
comunismo da Marx a Pol Pot”, in La
proprietà è sacra, (Bologna: Il Fenicottero, 2001), pp.227-270. (8) Sul tema è di notevole interesse:
Hendrik Spruyt, The Sovereign State and
Its Competitors: An Analysis of Systems Change (Princeton, Nj: Princeton University Press, 1994). (9)
Due testi ormai classici sul tema dell’utopia sono: Lewis Mumford, Storia dell’utopia (Roma: Donzelli,
1997 [1922]); Karl Mannheim, Ideologia
e utopia (Bologna: il Mulino, 1985 [1929]). (10)
Al contrario, lo studioso che forse più di ogni altro esprime i tratti più
marcatamente gnostici della modernità è Hegel. Particolarmente significativo,
in tal senso, sono le sue pagine sulla filosofia del diritto: «Lo stato
inteso come la realtà della volontà
sostanziale, realtà ch’esso ha nell’autocoscienza
particolare innalzata alla sua universalità, è il razionale in sé e per sé. Questa unità sostanziale è assoluto
immobile fine in se stesso, nel quale la libertà perviene al suo supremo
diritto, così che questo ultimo fine ha il supremo diritto di fronte agli
individui, il cui supremo dovere è
d’esser membri dello stato» (Georg-Wilhelm-Friedrich Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto.
Diritto naturale e scienza dello stato in compendio, a cura di Giuliano
Marini (Roma-Bari: Laterza, 1987 [1821]), p.195). (11)
Oswald Spengler, Anni decisivi
(Milano: Edizioni del Borghese, 1973 [1933]), p.18. (12)
Sul tema resta fondamentale quanto scritto da Rothbard nella sua critica
all’egualitarismo. Cfr.
Murray N. Rothbard, Egalitarianism As A
Revolt Against Nature and Other Essays (Auburn, Al: The Ludwig von Mises
Institute, 2000 [1974]). (13) Bruno Leoni, Lezioni di filosofia del diritto, raccolte da Maria Luigia Bagni
(Soveria Mannelli: Rubbettino, 2003 [1959]), pp. 159-160. (14)
Bruno Leoni, “Decisioni politiche e regola di maggioranza” (1960), in Scritti di scienza politica e teoria del
diritto (Milano: Giuffrè, 1980), p.48. (15)
In Kelsen vi è una decisa sottolineatura del nesso che collega il diritto
positivo allo Stato e, al tempo stesso, il diritto naturale ad un ordine
giuridico che elimini del tutto la coercizione: «lo Stato è la forma perfetta
del diritto positivo. Il diritto naturale è, invece, in linea di principio,
un ordinamento non coercitivo e anarchico»; Hans Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, (Milano: Etas, 1994
[1945]), p.399. (16) Devo questa considerazione a Bertrand
Lemennicier. (17)
Gustave de Molinari, Sulla produzione
della sicurezza (1849), in Frédéric Bastiat – Gustave de Molinari, Contro lo statalismo (Macerata:
Librilibri, 1994), pp.77-127. (18) Il
saggio misesiano del 1920 è stato poi sviluppato e rielaborato all’interno di
un volume più ampio. Cfr. Ludwig von Mises, Die Gemeinwirtschaft: Untersuchungen über
den Sozialismus (1922), trad. it. Socialismo, a cura di Dario Antiseri (Rusconi: Milano,
1990). (19) Ludwig von Mises, The Task and Scope of the Science of Human
Science, in Epistemological
Problems of Economics (Auburn, Al: The Ludwig von Mises Institute, 2003),
p. 40. (20)
Oltre agli argomenti misesiani contro la produzione centralizzata e
monopolistica, è necessario richiamare anche le tesi di Friedrich A. von
Hayek, il quale focalizza la propria attenzione più sul tema delle
informazioni personali e locali, che un sistema pianificato non è in grado di
fare emergere e, ancor meno, di coordinare in maniera soddisfacente. In
merito alla questione in esame (un ordine sociale senza coercizione), tali
problemi sono stati ampiamente trattati da Randy E. Barnett, che evidenzia
come solo un sistema con giurisdizioni decentrate e competitive possa dare
risposte adeguate e risolvere in modo adeguato i problemi concernenti l’uso
della conoscenza in una società. Cfr.:
Randy E. Barnett, The Structure of
Liberty: Justice and the Rule of Law (Oxford: Oxford University Press,
1998), pp.29-35. (21)
Oltre allo scritto sopra citato si veda anche: Gustave de Molinari, Les soirées de la Rue Saint-Lazare (La
Varenne Saint-Hilaire: eventura, 2003 [1849]). (22)
Sulla congettura in virtù della quale le agenzie protettive di una società di
mercato sarebbero imprese di tipo assicurativo, si veda: Hans-Hermann Hoppe,
“On Government and the Private Production of Defense”, in Democracy: The God That Failed. The
Economics and Politics of Monarchy, Democracy, and Natural Order, pp.239-266. (23)
In questo senso, nel momento in cui definisce natura e limiti dell’azione del
governo Little afferma che «lo Stato dovrebbe assicurare diritti e ordine;
gestire il fallimento del meccanismo dei prezzi, anche in quei casi in cui è
necessaria la produzione di beni pubblici, la correzione delle esternalità e
il controllo – o il contrasto – del monopolio» (I.M.D. Little, Ethics, Economics, & Politics. Principles of Public Policy (Oxford: Oxford University Press, 2002),
p.149. (24) Murray N. Rothbard, Man, Economy, and State (Auburn, Al: The Ludwig von Mises
Institute, 1993 [1962]), pp.560-660. Sul tema si veda anche: Alberto Mingardi (a cura di), Antitrust. Mito e realtà del monopolio
(Soveria Mannelli – Treviglio: Rubbettino – Facco Editore, 2004). (25) Murray N. Rothbard, Man, Economy, and State, p.585. (26)
Pascal Salin, “Cartels as Efficient Productive Structures”, The Review of Austrian Economics,
vol.9, n.2, 1996, pp.29-42. (27) Murray N. Rothbard, Man, Economy, and State, p.579. (28) Pascal Salin, “Cartels as Efficient Productive
Structures”, pp.40-41. (29) Pascal Salin, “Cartels as Efficient Productive
Structures”, p.36. In questo senso, i cartelli esistono
essenzialmente “per aumentare il valore della produzione e migliorare i
processi produttivi” (Pascal Salin, “Cartels as Efficient Productive
Structures”, p.37). (30) Ibidem. (31) Pascal Salin, “Cartels as Efficient Productive
Structures”, p.30. (32)
Anzi, proprio perché manca un “super-governo” (costituente) che possa
assommare in sé ogni potere. (33)
Michael Polanyi, La logica della
libertà (Soveria Mannelli: Rubbettino, 2002 [1951]), p. 345, p.315 e
p.316. (34) Si
può riassumere tale considerazione sottolineando come il mercato della
protezione abbia caratteristiche tali da rendere assai meno attraenti per i
consumatori i produttori in posizione dominante ed i cartelli, dato che in
virtù del particolare bene che essi offrono sono in condizione di farsi assai
“pericolosi”, mutando radicalmente la natura della relazione. (35) Sull’opposizione
tra “obbligo politico” ed “obbligo contrattuale” sono fondamentali le Lezioni di Politica Pura di Gianfranco
Miglio, che egli tenne per anni all’università Cattolica di Milano e che
tuttora però restano inedite. Del medesimo studioso si possono leggere: “Le
trasformazioni dell’attuale sistema economico” (1976), in Le regolarità della politica, secondo
volume (Milano: Giuffrè, 1988), pp.609-646; “Oltre Schmitt”, in Giuseppe Duso
(a cura di), La politica oltre lo
Stato: Carl Schmitt (Venezia: Arsenale, 1981), pp.41-46. (36)
Salin evidenzia l’efficacia di una produzione ottenuta grazie a cartelli
sottolineando che entro quell’ordine produttivo «i costi di coordinazione
sono certamente tanto più alti quanto maggiore è la cooperazione nel sistema
(…), ma i costi di cooperazione sono quasi inesistenti quando il cartello è
il risultato delle decisioni spontanee dei suoi membri» (Pascal Salin,
“Cartels as Efficient Productive Structures”, p.38). (37) Pascal Salin, “Cartels as Efficient Productive
Structures”, pp.35-36. (38) «Il
cartello gioca un ruolo importante nel permettere una combinazione ottimale
di diversificazione e omogeneizzazione nella produzione, secondo quelli che
sono i bisogni dei consumatori» (Pascal Salin, “Cartels as Efficient
Productive Structures”, pp.39-40). (39) Bruce L. Benson, The Enterprise of Law, p.32. (40)
Come ha sottolineato Francesco Galgano, l’età contemporanea ha visto emergere
una nuova lex mercatoria, «un
diritto creato dal ceto imprenditoriale, senza la mediazione del potere
legislativo degli Stati, e formato da regole destinate a disciplinare in modo
uniforme, al di là delle unità politiche degli Stati, e formato da regole
destinate a disciplinare in modo uniforme, al di là delle unità politiche
degli Stati, i rapporti commerciali che si instaurano entro l’unità economica
dei mercati»; Francesco Galgano, Lex
mercatoria (Bologna: il Mulino, 1993), p.219. (41)
A giudizio di Salin, «la tesi tradizionale secondo la quale un cartello
sarebbe necessariamente instabile non è completamente sbagliata, ma non
deve essere considerata come un aspetto negativo del cartello, bensì come uno
positivo. Questo significa solo che il cartello sussiste soltanto se è
l’organizzazione produttiva più efficiente» (Pascal Salin, “Cartels as
Efficient Productive Structures”, p.38). A tale proposito lo studioso
francese fa l’esempio della IATA, un “cartello diversificato” che in virtù di
accordi non eccessivamente costosi permette alle compagnie aeree di
attribuire un valore aggiunto ai loro prodotti (ad esempio, rendendo
largamente sostituibili i biglietti emessi dalle varie società). Nonostante
ciò, nel cartello permane un certo grado di differenziazione tra le singole
compagnie, le quali possono produrre servizi che non rientrano negli accordi
di cartello e dare risposte specifiche di fronte all’esigenza di prodotti
differenziati. (42)
All’epoca di Gresham, in effetti, vi erano molti truffatori che limavano le
monete d’oro al fine di disporre di frammenti aurei, da cui ricavavano un
ulteriore guadagno. In seguito, analoghi problemi si riproposti entro un
quadro monetario di “bimonetallismo di Stato”, che imponendo un rapporto
fisso tra oro ed argento ha finito di volta in volta per rendere irreperibile
le monete del metallo che risultava sfavorito
dal cambio legale. (43) Questa prospettiva è
molto enfatizzata da Jan Narveson, secondo il quale «in termini molto
generali si può affermare che la fondazione della moralità è nell’interesse
di ogni parte coinvolta, dati i fatti della vita sociale»; poiché ognuno di
noi ha un presumibile interesse a non essere ucciso, è facile immaginare
l’emergenza di regole che vietino l’omicidio, ma stesso discorso può essere
fatto per ogni altra forma di aggressione ai diritti dei singoli. Cfr. Jan Narveson, The Libertarian Idea (Peterborough,
Canada: Broadviews Press, 2001 [1998]), p.141. (44) In
questo senso, restano ancora oggi di straordinario interesse talune
considerazioni di Herbert Spencer, che oppongono le società industriali e progredite (basate sulla
proprietà e lo scambio) alle società militari
e arretrate (caratterizzate dal predominio di logiche coercitive, statali e
quindi conflittuali). Cfr.: Herbert Spencer, Principi di sociologia, introduzione di Franco Ferrarotti, due
volumi (Torino: Utet, 1977 [1896]). (45) Sul tema meritano la più grande attenzione: Robert
Axelrod, Giochi di reciprocità. L’insorgenza
della cooperazione,
(Milano: Feltrinelli, 1985 [1984]; Anthony de Jasay, “The Needless State”, in
Justice and Its Surroudings
(Indianapolis: Liberty Fund, 2002), pp.1-71. (46)
Aristotele, Etica Nicomachea, V, 1,
1129b. Sempre qui Aristotele sottolinea come la giustizia sia «la sola delle virtù
che sembra essere un bene altrui, in quanto riguarda gli altri: essa infatti
compie ciò che è utile ad altri, sia ai capi, sia alla società». |