Etica & Politica / Ethics & Politics, 2004, 1

http://www.units.it/etica/2004_1/VISINTIN.htm

 

 

 

 

Acutissimus o prudentissimus ?

Intorno alla presenza di Machiavelli nel Trattato politico di Spinoza

 

Stefano Visentin

Università di Urbino

 

 

Abstract

 

Acutissimus versus prudentissimus? Machiavelli’s influence within Spinoza’s Treatise

 

The article focuses on par.7, chapter V, of the Political Treatise, one of the two paragraphs in which Machiavelli’s name can be read. This is the starting point for a synthetic analysis of Machiavelli’s presence in some topoi of the Dutch thought of the XVIIth century; finally, thus returning to Spinoza, the author tries to comprehend the meaning of this presence within the a. m. tradition, in order to evaluate the role played by the Florentine secretary in Spinoza’s political reflection. Machiavelli’s presence actually goes deeper than the famous two passages may lead to believe, and a careful analysis of the a. m. paragraph reveals a fundamental aspect of the strong link between the two philosophers: the centrality – both theoretical and practical – that both thinkers tribute to the political role of multitude, in contrast with any reductio ad unum of the processes of constitution and justification of power.

 

 

 

Questo intervento vuole essere molto circoscritto per quanto concerne il riferimento al testo spinoziano esso infatti si concentra interamente sul paragrafo 7 del V capitolo del Trattato politico, uno dei due nel quale compare il nome di Machiavelli (1). Da qui intendo prendere le mosse per analizzare sinteticamente la presenza machiavelliana in alcuni topoi del pensiero olandese del XVII secolo, e infine per tornare sul passo di Spinoza e cercare di comprendere il significato di questa citazione, e soprattutto di dedurre il ruolo che l’opera del segretario fiorentino svolge all’interno della riflessione politica spinoziana. Come è stato recentemente dimostrato (2), Machiavelli è molto più presente nell’opera di Spinoza di quanto possa apparire dai due riferimenti espliciti, tuttavia mi sembra che anche soltanto attraverso un’analisi attenta del passo sopra citato sia possibile comprendere il nesso strettissimo che lega i due pensatori.

 

 

1. Non si può fare a meno di notare, in sede introduttiva, come la presenza di due sole citazioni di Machiavelli all’interno del Trattato politico possano indurre quantomeno a dubitare dell’importanza di quest’ultimo per l’elaborazione della filosofia politica spinoziana. Tuttavia occorre ricordare che Spinoza cita pochissimi autori, assai raramente, e per lo più per prenderne le distanze o per criticarli su qualche punto specifico. Nell’Etica, ad esempio, il solo filosofo contemporaneo citato è “il celeberrimo Cartesio”, autore al centro di una vasta discussione sul territorio olandese, sia all’interno del mondo accademico, sia al di fuori di esso (3): ma tanto nella Prefazione della III parte, dove il nome del filosofo francese compare per la prima volta, quanto soprattutto in quella della V parte, che presenta una discussione articolata della teoria della ghiandola pineale, Spinoza, pur riconoscendo il suo debito nei confronti del pensatore, afferma a chiare lettere di non poterne accettare il principio del dominio assoluto della mente sul corpo (4). Sempre nella Prefazione della V parte compare un riferimento critico alla dottrina stoica del controllo della volontà sulle passioni, la cui importanza strategica è certo legata al fatto che il neostoicismo godeva di ampi consensi nella cultura universitaria – e non solo – dei Paesi Bassi, soprattutto per i suoi aspetti etici e politici (5); e ugualmente dettato da motivazioni contingenti (anche se non soltanto da esse) è il richiamo presente al cap. XV del Trattato teologico-politico della dottrina esegetica di Maimonide e di Giuda Alpakhar, i quali nell’economia del ragionamento spinoziano tengono il luogo dei due partiti che si confrontavano durante la sua epoca, quello dei ‘dogmatici’ (tra i quali vi era l’amico Lodewijk Meyer, studioso di Descartes) e quello degli ‘scettici’ (ovvero dei calvinisti più rigorosi) (6).

Quanto all’altro grande filosofo dell’epoca con cui gli studiosi confrontano spesso il pensiero politico di Spinoza, cioè Hobbes, egli è citato soltanto due volte in tutta l’opera spinoziana: in una nota del Trattato teologico-politico e in una lettera, in risposta a una precisa richiesta di un amico (7), e in entrambi i casi Spinoza sottolinea la distanza che intercorre tra la propria dottrina politica e quella del filosofo inglese. Questa parsimonia nelle citazioni non indica certo una scarsa conoscenza del pensiero di Descartes o di Hobbes: Spinoza infatti possiede delle opere di entrambi, e di Descartes scrive anche un commento ai Principia Philosophica. Va certo detto che spesso Spinoza, soprattutto per quanto riguarda gli storici – ad esempio Tacito – cita o parafrasa senza dichiarare il nome dell’autore; ma questa pratica era abbastanza comune, soprattutto per passi noti ai più, che potevano essere inseriti nel discorso come se fossero dei ‘luoghi comuni’, ancorché noti soltanto al ceto intellettuale. Pertanto da questa breve e tutt’altro che esaustiva analisi del sistema spinoziano di citazione, emerge come il duplice rinvio a Machiavelli nel Trattato politico sia di assoluta rilevanza, dal momento che, anche se Machiavelli non è un contemporaneo di Spinoza, tuttavia la sua dottrina, ancora nella seconda metà del XVII secolo, occupa un posto significativo nel dibattito politico europeo, Olanda compresa (8). Ancora più interessante è poi il fatto che le citazioni abbiano lo scopo di sostenere le tesi espresse dal testo (nel primo caso), o vengano usato come spunto per un approfondimento intorno a un tema specifico quale le cause del dissolvimento dello Stato; Machiavelli non è dunque criticato come Descartes, né da lui Spinoza prende le distanze come da Hobbes, ma, al contrario, egli è forse l’unica auctoritas presente nell’opera spinoziana – sebbene un’auctoritas molto particolare, come cercherò di dimostrare (9) – nel senso di autore degno di fede, al quale appoggiarsi per sostenere le proprie ragioni.

 

 

2. Al capitolo V Spinoza presenta dunque Machiavelli attraverso tre aggettivi: “acutissimus”, utilizzato all’inizio, “sapiens”, presente poche righe dopo, e “prudentissimus”, in conclusione (10). Si tratta di tre termini che, pur riferendosi tutti alle capacità intellettive di un individuo, hanno comunque un significato abbastanza diverso, come ha notato Cristofolini in un recente intervento (11): acutus sta per “ingegnoso, profondo, di intelligenza acuta”, ma anche per “furbo, astuto”; sapiens e prudens significano invece “cauto, avveduto”, e quindi “accorto, assennato, saggio” (anche se il primo aggettivo riguarda la sapienza vera e propria, mentre il secondo solitamente indica la ‘sapienza applicata alla vita’, insomma la saggezza). Per trovare un esempio dell’uso di questi aggettivi si può fare riferimento allo scambio epistolare tra Spinoza e Hugo Boxel, il quale interroga il filosofo su una questione che Spinoza non doveva certo ritenere di particolare rilievo speculativo, ovvero l’esistenza degli spettri; Spinoza è appunto apostrofato come “acutissimus philosophus” da Boxel, che in cambio riceve il titolo di “amplissimus prudentissimusque vir” (12): l’uomo colto e politicamente importante – Boxel era un membro rilevante della classe dei regenten – riconosce l’ingegno del filosofo, lasciando però sospeso il giudizio sulla sua sapienza, cioè sull’adeguatezza delle sue idee proprio alle autorità filosofiche e religiose, mentre, dal canto suo, Spinoza risponde con un appellativo perfino eccessivo per un simile personaggio; soprattutto l’attributo di “prudentissimus” suona profondamente ironico alle orecchie di Spinoza – come ironico è il tono generale delle lettere – per chi crede nell’esistenza dei fantasmi e si preoccupa tanto di una simile tematica.

Tornando a Machiavelli, non vi è dubbio che l’aggettivo ‘acutus’ gli calzi a pennello; o, per meglio dire, calzi a pennello all’immagine che di lui era venuta creandosi dopo la Controriforma e con l’acuirsi dei conflitti religiosi, soprattutto in Francia e in Italia (a partire da una definizione del cardinale inglese Reginald Pole, che aveva visto nel Principe addirittura “il dito di Satana”), dove appunto il pensatore fiorentino aveva raggiunto la fama di grande maestro di astuzie e azioni immorali, nonché di consigliere del tiranno e nemico della libertà dei sudditi (13). L’espressione “acutissimus Machiavellus” non sembra dunque presentare particolari problemi, né una spiccata originalità, dal momento che il riconoscimento a Machiavelli di un ingegno non comune – ancorché volto al male e alla creazione di inganni – era condiviso anche dai suoi detrattori. Molto più difficile è invece giustificare l’attribuzione a Machiavelli della sapientia e della prudentia; in particolare, l’aggettivo prudentissimus si regge su un’affermazione in prima battuta sconcertante: il fatto che Machiavelli risultasse un partigiano della libertà (“quia pro libertate fuisse constat” (14)). Certamente il Machiavelli difensore della libertà non è quello vituperato nei trattati dei monarcomachi – tanto cattolici quanto ugonotti – o negli specula principum di tradizione aristotelica o erasmiana; non è il Machiavelli del Principe, bensì quello dei Discorsi (oppure del Principe letto alla luce dei Discorsi); soprattutto, non è il Machiavelli francese o italiano, quanto piuttosto quello che cresce e si sviluppa in territorio inglese durante e dopo la rivoluzione, attraverso l’opera di James Harrington, e poi di John Milton e di Algernon Sidney, solo per fare i nomi più famosi (15). Nei loro scritti, seppure con tonalità e accentuazioni diverse, vi è la strenua difesa delle repubbliche presente anche nelle pagine dei Discorsi machiavelliani, dove l’eccellenza dei regimi repubblicani era ricondotta al fatto che essi “hanno avuto il principio lontano da ogni servitù esterna, ma si sono subito governati per loro arbitrio” (16). L’autogoverno come unica forma di governo accettabile per salvaguardare la libertà dei cittadini è quindi la tesi principale che i repubblicani inglesi traggono dalla lettura di Machiavelli, al di là di altri aspetti molto più contrastati (ad esempio il ruolo positivo del conflitto sociale, accettato – almeno in parte – da Sidney, e rifiutato invece da Harrington (17)).

Il fatto che a Spinoza “risulti” che Machiavelli “stava dalla parte della libertà, e che per difenderla diede suggerimenti molto salutari” è quindi da attribuirsi senz’altro a una maggiore consonanza dell’interpretazione presente nel Trattato politico con la lettura inglese, piuttosto che con quella continentale. In realtà esiste una peculiarità tutta olandese nella ricezione machiavelliana nel corso del XVII secolo, irriducibile tanto al machiavellismo francese quanto al ‘momento machiavelliano’ – per usare la famosa definizione di Pocock – del repubblicanesimo atlantico (seppure vi siano certamente alcune profonde assonanze con quest’ultimo); una peculiarità legata alle vicende politiche e istituzionali della Repubblica delle Province Unite, e in particolare dello Stato d’Olanda. Ma prima dell’uso repubblicano di Machiavelli da parte degli scrittori della seconda metà del secolo, l’opera del segretario fiorentino era già entrata nel circuito del dibattito politico attraverso gli scritti di Justus Lipsius, il principale esponente in terra olandese della corrente neostoica. Lipsius, professore a Leiden negli ultimi anni del XVI secolo, già nel Preambolo dei Politicorum libri sex riconosce l’acutezza dell’ingegno di Machiavelli (“ingegnum acre, subtile, igneum” (18)), tuttavia sottolinea anche come il suo principe non sempre riesca a seguire la strada della virtù e dell’onore: “Utinam Principem suum recta duxisset ad templum illud Virtutis et Honoris! Sed nimis saepe deflexit, et dum comodi illas semitas intente sequitur, aberravit a regia hac via” (19). Vi è però un punto della lezione machiavelliana che, con giusti accorgimenti, risulta opportuno anche per il principe virtuoso, ed è quello che indica la via della prudentia mixta, cioè l’uso morale della frode, qualora essa rimanga una fraus levis, “quae haud longe a virtute abit, malitiae rore leviter aspersa” (20): più specificamente, per fraus levis il testo intende la diffidentia e la dissimulatio, poiché “nescit regnare, qui nescit dissimulare” (21). Tutto questo comunque non impedisce a Lipsius di mettere in guardia i politici dalla tentazione di cedere alle lusinghe dell’apparenza (“Esse, quam videri, probus malis” (22)), cosicché egli finisce nuovamente per criticare lo scrittore fiorentino quale inventore dell’arte di ingannare il popolo, e conclude: “Machiavellum ergo nemo audiat, qui simulatam nescio quam virtutem Principi induit, et scaenae servientem. O dogma ad Principis perniciem, et subditorum!” (23). Sarà poi per un ironico gioco del destino che allo stesso filosofo neostoico toccherà di venire accusato di machiavellismo mascherato da Dick Volckersz. Coornhert, nella famosa disputa che i due ebbero a proposito della tolleranza religiosa, in quanto egli avrebbe esaltato l’uso politico della religione (ad esempio affermando: “Nulla res multitudinem efficacius regit, quam superstitio” (24)), sottovalutandone il messaggio di salvezza spirituale (25). Ad ogni modo, sebbene in un orizzonte sostanzialmente filomonarchico, l’attitudine più pragmatica del pensiero neostoico rispetto alla tradizione accademica di stampo aristotelico permette un parziale recupero della dottrina machiavellica, mediata proprio dalla virtù – in senso tradizionale – del principe: quindi un Machiavelli ‘disciplinato’, e almeno parzialmente neutralizzato, che però può essere studiato senza preconcetti dai teorici della politica come dagli storici, senza diventare necessariamente il simbolo di una politica immorale e tirannica (26).

Sulla medesima falsariga, nella prima traduzione olandese dei Discorsi (1625) il curatore dichiara che in quest’opera è possibile rintracciare sia buoni consigli, sia pessimi suggerimenti, ma che in entrambi i casi occorre procedere con cautela e senza eccessi, come si fa con la scienza medica, che insegna agli uomini tanto i rimedi alle malattie quanto le caratteristiche di queste ultime (27). Questo non toglie che anche in Olanda, soprattutto negli ambienti accademici, permangano valutazioni estremamente negative dell’opera machiavelliana, che talvolta, soprattutto negli ambienti più legati al clavinismo e alla dottrine monarcomache, seguono la damnatio degli scrittori francesi; ad esempio il filosofo di Leiden Franco Burgersdijk, che svolse un ruolo fondamentale nella diffusione dell’aristotelismo in Olanda, anche se non può essere considerato un pensatore legato al calvinismo ortodosso, nella sua Idea doctrinae politicae (1644) afferma: “falsum est, quod Machiavellus docet, subditos simpliciter esse propter principem; ejus municipia, in quae potest pro libitu dominari. Quin contra magistratus unt (= sunt) propter subditos)” (28). In molti altri casi, tuttavia, l’atteggiamento verso Machiavelli è meno severo, e spesso ne viene semplicemente apprezzata l’abilità di storico, senza troppo soffermarsi sugli insegnamenti politici.

 

 

3. Un preciso mutamento nella ricezione di Machiavelli in Olanda si ha intorno alla metà del XVII secolo, a ridosso dell’acuirsi dello scontro politico tra i partigiani della repubblica aristocratica dei regenten e quelli della famiglia degli Orange, tendenzialmente filo-monarchica (29). Ora il riferimento a Machiavelli – affiancato a un uso originale dell’opera hobbesiana, in controtendenza rispetto alle violente critiche dirette dai repubblicani inglesi al filosofo di Malmesbury (30) – viene spesso utilizzato dagli scrittori che sostengono la repubblica contro la monarchia come esempio di fervente repubblicano (va ricordato, fra l’altro, che nel 1643 era stata pubblicata a Leiden un’edizione dei Discorsi con il titolo Disputationum de Republica Libri III); ma, soprattutto, nei suoi scritti i repubblicani più radicali trovano le basi antropologiche e metodologiche per una nuova dottrina della ragione di Stato, fondata non più sulle capacità morali e intellettuali del principe, bensì sull’interesse collettivo della cittadinanza. Per chiarire il significato di questo nuovo ‘paradigma machiavelliano’ è opportuno prendere in considerazione quelli che sono forse gli autori più interessanti e più noti all’interno di questa corrente, cioè i fratelli Johan e Pieter De la Court, non a caso del tutto estranei agli ambienti universitari olandesi, molto più conservatori (31). Nei loro due scritti più importanti, le Consideratien van Staat e i Politike Discoursen – questi ultimi esplicitamente ispirati ai Discorsi machiavelliani, dai quali traggono anche numerosi titoli dei paragrafi –, l’influenza machiavelliana è chiaramente osservabile e sintetizzabile in alcuni punti fondamentali.

Il primo di questi aspetti è dato dall’assunzione da parte dei De la Court di un orizzonte antropologico deterministico e antimoralistico, secondo il quale gli uomini seguono il loro nudo interesse, e nel farlo sono mossi assai più spesso dalle passioni piuttosto che dalla ragione. Le Consideratien van Staat affermano infatti che “l’amor proprio è all’origine di tutte le azioni umane, sia quelle buone, sia quelle cattive”, dal quale “nasce una grande diffidenza [tra gli uomini] e la paura di essere derubati dei propri averi” (32); e, ancora: “Un uomo non ha alcun maestro più forte delle proprie passioni e dei propri istinti” (33). Similmente nei Discorsi Machiavelli aveva detto: “Sanno rarissime volte gli uomini essere al tutto cattivi o al tutto buoni”, sottolineando inoltre “Quanto gli uomini facilmente si possono corrompere” (34). Ma, soprattutto, l’inizio del libro II riconosceva che gli appetiti umani sono “insaziabili, perché, avendo dalla natura di potere e desiderare ogni cosa, e dalla fortuna di poterne conseguitare poche; ne risulta continuamente una mala contentezza nelle menti umane” (35). Si tratta di una regola universalmente valida, attribuibile tanto ai comuni cittadini quanto ai loro governanti, e che perciò segna un netto distacco dall’impostazione neostoica, che vede invece nel principe un concentrato di virtù e di razionalità, in grado di disciplinare la disordinata passionalità del popolo: per Machiavelli e per i De la Court, invece, di fronte alle passioni tutti gli uomini sono uguali, al punto che “di quello difetto di che accusano gli scrittori la moltitudine, se ne possono accusare tutti gli uomini, particularmente e massime i principi; perché ciascuno, che non sia regolato dalle leggi, farebbe qualli medesimi errori che la moltitudine sciolta” (36). Occorre a questa altezza una precisazione: sebbene Machiavelli affermi più volte, sia nei Discorsi, sia nel Principe, che la natura umana è diversa in ciascun individuo, poiché tutti seguono la loro personale inclinazione e il loro “umore”, tuttavia è proprio questa varietà irriducibile a una natura sostanziale – e tanto meno a una gerarchia di sostanze – a rendere gli uomini fondamentalmente uguali nella loro indefinitezza, impedendo la reductio ad unum dei loro molteplici comportamenti: uguali perché tutti sempre e comunque differenti da qualsiasi modello si voglia applicare loro dall’esterno.

Ne consegue – e questo è il secondo aspetto di congruenza con la riflessione machiavelliana – l’esaltazione dell’effettualità in politica, contro ogni visione moralistica – una tesi che, come è noto, è presente anche nel I capitolo del Trattato politico, dove Spinoza depreca l’atteggiamento dei philosophi, che considerano gli affetti umani come dei vizi (37). Il capitolo 1 del II libro della I parte delle Consideratien reca come titolo: “Nella formazione di uno Stato e nella produzione di leggi, si deve presupporre che tutti gli uomini siano naturalmente malvagi, e che tali resteranno, a meno che essi non vengano disciplinati e resi migliori da buoni ordini e buone leggi” (38), un’affermazione che riprende quasi letteralmente l’incipit del capitolo 3 del I libro dei Discorsi: “è necessario a chi dispone una repubblica, ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini rei, e che li abbiano sempre a usare la malignità dello animo loro, qualunque volta ne abbiano libera occasione” (39). Pertanto la virtù – del principe come dei cittadini – non può costituire un elemento di controllo dell’agire politico e di produzione delle leggi, essendone la conseguenza piuttosto che la causa: così i De la Court concordano con Machiavelli nell’affermare, direttamente in italiano nel testo, che “le leggi non trovano, ma fanno gli uomini buoni, e la povertà gli fa industriosi” (40). Il miglior governo sarà dunque quello in cui “la buona e la cattiva sorte dei governanti è congiunta alla buona e alla cattiva sorte dei sudditi” (41), dove cioè gli interessi degli uni e quelli degli altri sono indissolubilmente legati fra loro, cosicché chi detiene il potere non può nuocere ai suoi sudditi senza nuocere anche a se stesso, e per favorire se stesso favorisce necessariamente anche i suoi sudditi; la qual cosa diventa assai più facile da ottenere in una repubblica, dove il governo è tenuto da un’assemblea dei cittadini e le decisioni sono prese a maggioranza (dove quindi sudditi e governanti ‘tendono’ a essere gli stessi individui). Solo in una repubblica, infatti, gli uomini, essendo loro stessi gli autori delle leggi, vivono “secondo il senso dell’ordine e delle leggi, alle quali tutti i cittadini dello Stato sono ugualmente sottomessi” (42); un’affermazione che è rintracciabile anche nei Discorsi, machiavelliani: “dove è equalità, non si può fare principato; e dove la non è, non si può fare repubblica” (43)

. Per questo le passioni collettive e le istituzioni pubbliche sono interdipendenti, dal momento che queste ultime nascono da una necessità immanente alla costituzione affettiva della collettività (è quindi insensato pensare di poter dare vita a delle istituzioni sganciate dalla realtà esistenziale di una popolazione); ma, d’altro canto, attraverso le istituzioni è possibile avviare una fase più matura dei rapporti interindividuali, offrendo al gioco delle passioni un quadro più stabile e ordinato, all’interno del quale si neutralizzano gli aspetti più distruttivi e antipolitici e si va verso un assetto razionale nel comportamento della collettività: nel linguaggio dei De la Court, le istituzioni favoriscono il passaggio dalle passioni agli interessi, dal perseguimento cieco del tornaconto personale alla scoperta dell’interdipendenza del benessere individuale da quello comune (44).

Il terzo e ultimo punto di vicinanza tra il pensiero dei De la Court e quello dei Discorsi machiavelliani riguarda il giudizio sulla monarchia, che per i due fratelli olandesi è sempre equiparabile a un regime tirannico: non esistono sovrani buoni, proprio perché ogni uomo, compresi quindi i re, tende a seguire il proprio egoistico interesse, e soltanto una più forte necessità – cioè un diretto confronto con altri egoismi uguali e contrari – può farlo desistere dall’occuparsi esclusivamente di se stesso, a detrimento degli altri (45). In quest’ottica il caso della monarchia turca, tradizionalmente considerato paradigmatico dei regimi tirannici, diventa nell’opera dei De la Court l’esempio più limpido di governo monarchico (46), proprio perché monarchia e tirannia diventano termini perfettamente sovrapponibili. Ne consegue che in un regime monarchico è onnipresente la minaccia di una disgregazione del tessuto sociale, dal momento che esso manca di una strategia razionale di gestione delle passioni in vista del bene comune (dove per ‘razionale’ non si deve intendere l’applicazione di un principio trascendente, bensì quell’ordine immanente che scaturisce appunto da una corretta dialettica politica). Il fatto che “senza dubbio, questo bene comune non è osservato se non nelle republiche” è affermato a chiare lettere anche dai Discorsi di Machiavelli (47), il quale poche righe dopo aggiunge: “Al contrario interviene quando vi è uno principe; dove il più delle volte quello che fa per lui, offende la città; e quello che fa per la città, offende lui. Dimodoché, subito che nasce una tirannia sopra uno vivere libero, il manco male che ne resulti a quelle città è non andare più innanzi, né crescere più in potenza o in ricchezze” (48). In tal modo la diretta e quasi inevitabile trasformazione del principato in tirannide è ricondotta, esattamente come nella riflessione dei De la Court, alla naturale incompatibilità delle passioni e degli interessi del principe con quelli della collettività.

In conclusione, si può senz’altro affermare che il repubblicanesimo dei De la Court assume dal Machiavelli dei Discorsi una visione della politica, che rifiuta qualsiasi fondazione trascendente del potere sovrano, per concepire invece l’ordinamento politico come esito di una interminabile dialettica tra gli individui. Questo non significa comunque che la posizione machiavelliana sia assunta nell’opera dei due olandesi in tutta la sua radicalità: manca ad esempio nei De la Court l’elogio del conflitto sociale, centrale invece nei Discorsi (49), come manca l’elogio della potenza militare di Roma, dal momento che le Consideratien propendono per una repubblica pacifica e commerciale, quale appunto quella delle Province Unite; soprattutto, viene rifiutata l’idea della perfezione dell’imperium mixtum, a favore di uno Stato in cui la sovranità risulti indivisa: “poichè lo Stato non ha che un unico corpo, esso deve essere governato da una sola mente” (50). Ma la differenza più interessante, nella prospettiva di questa lettura, è data dall’opposta valutazione politica della moltitudine in Machiavelli e nei De la Court, dal momento che questi ultimi ne danno un giudizio fortemente negativo. Nelle ultime pagine delle Consideratien, infatti, è detto espressamente che un governo popolare si dà soltanto dove il popolo è ordinato in una “assemblea legale, composta dai comuni cittadini”, ma che in nessun modo esso può nascere da “un’assemblea illegale e tumultuosa del volgo” (51): “inter populum et multitudinem differentia permagna est” (52), intendendo con ‘popolo’ non tanto il principio unitario che Hobbes fa scaturire dal meccanismo rappresentativo, ma più semplicemente quella parte ‘ordinata’ della cittadinanza, che ha “il potere e la conoscenza sufficiente per prendersi cura del proprio benessere” (53): insomma, una classe sociologicamente ben definita, e distinta se non contrapposta alla massa priva di freni, la cui passionalità appare ai loro occhi irriducibile a qualsiasi dimensione politica. Per questo il miglior regime secondo i De la Court non è la democrazia, bensì “un’aristocrazia che tenda alla democrazia” (54), capace cioè di includere chi se ne dimostra degno, ma anche di tenere al di fuori dalla partecipazione politica gli elementi minacciosi.

 

 

4. Se questo è a grandi linee il contesto teorico olandese nel quale la presenza di Machiavelli come ‘partigiano della libertà’ (cioè del regime repubblicano) assume una rilevanza evidente, tornando ora al testo spinoziano va in primo luogo ricordato che nel Trattato politico l’opera dei De la Court è citata (Spinoza parla del “prudentissimus Belga V. H.” (55)) proprio a proposito della naturale – e per Spinoza positiva – tendenza delle repubbliche alla pace, di contro alla intrinseca bellicosità del regime monarchico: le Consideratien vengono quindi riconosciute dal filosofo di Amsterdam come un importante scritto di polemica antimonarchica.

Riconsiderando il paragrafo del trattato spinoziano dove a Machiavelli è attribuita tanto la qualità di acutissimus, quanto quella di sapiens e prudentissimus, alla luce delle acquisizioni compiute dall’excursus storico compiuto, va evidenziato come tutte queste caratteristiche siano individuabili nel pensiero politico olandese dell’epoca, o di quella immediatamente precedente: Machiavelli è senz’altro acutus per il neostoico Lipsius, ancorché non del tutto affidabile sul piano etico, mentre è certamente prudens per i fratelli De la Court e per i loro epigoni repubblicani; ma può essere contemporaneamente entrambe le cose? Il brano in questione del Trattato politico affronta il tema della tirannide e della sua eliminazione, argomento di grande interesse in Olanda, tanto in riferimento alla lotta contro il sovrano-tiranno Filippo II e con i suoi successori da poco conclusa (1648), quanto a proposito dello scontro ideologico tra i regenten e Guglielmo II d’Orange, il quale nel 1650 aveva tentato di imporre con la forza il proprio dominio sul patriziato urbano. Questo duplice riferimento permette quindi di confrontare il testo spinoziano sia con la letteratura monarcomaca di stampo calvinista, ben presente anche in Olanda, soprattutto nella prima metà del secolo (56), sia con le tesi, certo a esso più vicine, dei De la Court. Per i sostenitori del diritto di resistenza nei confronti del potere monarchico, Filippo II aveva perso la propria legittimità di re e si era trasformato in tiranno nel momento in cui era venuto meno ai patti stabiliti con il suo popolo, o con i principali rappresentanti di esso (l’aristocrazia, le municipalità, il clero), minando le libertà e i privilegi sanciti per contratto o per tradizione. È dunque un’intenzionalità malvagia, si potrebbe dire machiavellica – la volontà di non rispettare i patti, quindi di infrangere un principio al tempo stesso umano e divino – che conduce il sovrano alla tirannia, ponendolo al di fuori della legge e legittimando l’insurrezione del popolo e delle sue magistrature contro di lui. Di contro si è visto come per i De la Court, repubblicani di una generazione successiva, non esistano sovrani che non siano anche tiranni, che cioè non si comportino da sempre come uomini malvagi, o che quantomeno non seguano esclusivamente il loro tornaconto personale, disinteressandosi del bene dei loro sudditi. Radicalmente

Spinoza conosceva senz’altro i termini dell’alternativa sopra indicata; ma vi era anche una terza linea di pensiero sulla tirannide che giocava un ruolo influente nella sua riflessione, ossia quella di Thomas Hobbes, di cui Spinoza possedeva una copia del De cive, testo che peraltro circolava in Olanda già da tempo, e che era al centro di un dibattito molto acceso (57); tra l’altro, nel Trattato teologico-politico, alla fine del capitolo XVIII, la medesima discussione intorno all’utilità – e non, si badi bene, alla liceità – del tirannicidio, era stata condotta in relazione alle vicende inglesi e alla decapitazione di Carlo I Stuart, con una terminologia molto simile a quella usata nel trattato successivo (58). Proprio nel De cive Hobbes dichiara l’impossibilità teorica, prima ancora che pratica, di un governo tirannico, riconducendo l’accusa di tirannia verso un re a un eccesso di soggettività nell’uso dei nomi, derivato dal potere delle passioni sullo stesso linguaggio: “Gli uomini sono soliti infatti significare con i nomi non solo le cose, ma, insieme, anche le loro passioni, come l’amore, l’odio, l’ira, ecc.; onde accade che quello che uno chiama democrazia, l’altro chiama anarchia; quello che uno chiama aristocrazia, l’altro chiama oligarchia; e chi è definito da uno come re, è detto dall’altro tiranno [...] Perciò regno e tirannide non sono forme diverse di Stato; bensì allo stesso monarca viene dato il nome di re in segno di onore, di tiranno in segno di disprezzo” (59).

Di fronte a queste tre interpretazioni del significato della tirannide, il Trattato politico sembra utilizzare proprio il riferimento a Machiavelli per spostare in modo deciso la prospettiva con la quale viene affrontato il problema. Il testo machiavelliano cui Spinoza rinvia in prima battuta è senz’altro Il principe, dove risulta chiaramente quali debbano essere gli strumenti necessari alla fondazione di uno Stato: “L’acutissimo Machiavelli ha ampiamente spiegato di quali mezzi si debba servire un principe trascinato dalla sola sete di dominio, per fondare e conservare uno stato; a qual fine, non appare chiaro” (60). Tuttavia il riferimento – del tutto generico – a questo scritto è filtrato e giustificato da un riferimento ben più puntuale ai Discorsi, in particolare al cap. 16 del I libro, così intitolato: “Uno popolo, uso a vivere sotto uno principe, se per qualche accidente diventa libero, con difficultà mantiene la libertà” (61); qui Machiavelli osserva che “quel popolo non è altrimenti che un animale bruto, il quale, ancora che di natura feroce e silvestre, sia stato nutrito sempre in carcere ed in servitù; che dipoi, lasciato a sorte in una campagna libero, non essendo uso a pascersi, né sappiendo i luoghi dove si abbia a rifuggire, diventa preda del primo che cerca rincatenarlo” (62). Così invece Spinoza: “Ma se il suo fine era buono, come è da credersi di un uomo saggio, pare che sia stato quello di mostrare con quanta imprudenza molti (multi) cercano di levar di mezzo un tiranno senza essere in grado di eliminare le cause che fanno del principe un tiranno, ma anzi creandone di tanto maggiori quanto maggiori sono i motivi di timore che si prospettano al principe: per esempio, quando il popolo (multitudo) ha già prodotto manifestazioni di ostilità al principe e vanta il parricidio, quasi fosse una cosa ben fatta” (63). Tanto nei Discorsi, quanto nel Trattato politico, al centro della scena non è più il re-tiranno, che perde il suo ruolo di attore principale, in quanto detentore di un potere assoluto, per essere riassorbito in un più ampio sistema causale che vede emergere un altro ‘personaggio’, ben più complesso ma anche assai più potente, ovvero il “popolo” in Machiavelli, la “moltitudine” in Spinoza. In entrambi i passi la collettività degli individui che compongono lo Stato si manifesta come soggetto politico a tutti gli effetti, e lo fa proprio laddove essa sembrerebbe essere priva di alcun potere, nel caso cioè in cui tale collettività viva – o sia stata abituata a vivere – sotto un potere tirannico. Infatti quello stesso potere tirannico – o comunque concentrato nelle mani di una sola persona – è generato e mantenuto in vita non tanto da una qualche straordinaria capacità del principe nel governare i propri sudditi (o da una sua straordinaria malvagità), quanto piuttosto dalla ‘disponibilità’ di questi ultimi a lasciarsi governare tirannicamente. Poche pagine prima Spinoza aveva indicato proprio nell’aptitudo dei sudditi il limite immanente, inscritto nei meccanismi di funzionamento dello Stato, all’esercizio del potere da parte dei governanti (64). Il tiranno è quindi l’esito, e non la causa, dell’instaurazione di un regime tirannico: egli non è altro che l’ultimo anello di una catena causale che ha la sua origine nella natura – storicamente determinata – di un popolo, una natura che rimane tale anche quando, per cause più o meno fortuite, il tiranno sia stato eliminato, senza però che siano state eliminate proprio le cause che lo hanno reso tale, ovvero senza che sia mutata in modo significativo la costituzione del popolo (della moltitudine) che egli tiranneggiava. Anche nel caso limite di una tirannia, infatti, l’imperium – cioè la struttura complessiva degli assetti di potere – “è sempre determinato dalla potenza della moltitudine (potentia multitudinis)” (65), o per meglio dire, in questo caso, dall’impotenza della moltitudine, dalla debolezza di una collettività nel dare vita a regimi più liberi e democratici.

 

 

5. Confrontando l’analisi spinoziana ispirata da Machiavelli con quelle precedentemente elencate (dei monarcomachi, dei repubblicani olandesi, di Hobbes), è possibile individuare quali conseguenze produca questo slittamento del piano di osservazione dall’agire del tiranno al patire della moltitudine. In tutti gli altri casi citati il re-tiranno è sempre osservato e giudicato a partire da un punto di vista esterno e contrapposto a esso, sia il diritto delle libere municipalità e dell’aristocrazia per i calvinisti olandesi, sia la vera religione per i puritani inglesi che Hobbes critica violentemente, sia infine il nascente potere della borghesia commerciale, rappresentato dall’assemblea degli Stati Generali d’Olanda per i De la Court; nel Trattato politico, invece, la moltitudine non si contrappone al tiranno, bensì ne prende letteralmente il ‘posto’, occupando per intero la scena politica, e relegando il tiranno a una figura di secondo piano, in grado di conquistare e mantenere il potere soltanto se la moltitudine glielo concede, perché dimostra di non essere in grado di gestirlo autonomamente, a causa della propria debolezza e parziale impotenza. Ma questo significa anche che è sempre e solo nelle mani dell’intera cittadinanza la possibilità di liberarsi dalla tirannide; così infatti conclude il brano del Trattato politico: “Inoltre egli [sc. Machiavelli] ha voluto mostrare quanti motivi abbia un popolo libero (libera multitudo) per guardarsi dall’affidare in maniera assoluta la propria salvaguardia a uno solo che, se non è tanto vanitoso da credere di poter piacere a tutti, deve temere incessantemente delle insidie; ed è perciò costretto a badare piuttosto a se stesso, e ad ingannare il popolo piuttosto che curarne gli interessi”. Rovesciando il punto di vista sulla tirannide, Spinoza può far emergere nel suo ragionamento il carattere necessariamente collettivo di ogni processo di emancipazione politica; non è casuale che l’espressione “libera multitudo” sia presente soltanto in questo e nel paragrafo precedente (66), oltre che al cap. VII, dove ancora si discute del governo di uno solo (67), proprio a ribadire come, al di là della forma che un imperium può assumere, è sempre e comunque il grado di maturità e di virtù dell’intera cittadinanza a costituirne il fondamento (68). Similmente Machiavelli, interrogandosi su chi sia meglio porre a salvaguardia della libertà di una repubblica, se gli uomini del popolo o gli appartenenti all’aristocrazia, dichiara: “E sanza dubbio, se si considerrà il fine de’ nobili e degli ignobili, si vedrà in quelli desiderio grande di dominare, ed in questi solo desiderio di non essere dominati; e per conseguente, maggiore volontà di vivere liberi, potendo meno sperare di usurparla che non possono i grandi” (69)

Una libera multitudo, che Spinoza definisce come “guidata più dalla speranza che dalla paura”, non è ovviamente quella che, vinta proprio dal suo stesso timore (70), si sottomette al potere tirannico, bensì è piuttosto quella che ha avviato un meccanismo di compensazione reciproca tra affetti positivi – quali appunto la speranza – e leggi giuste, che consolidano i legami tra gli individui. Un altro termine impiegato da Spinoza per descrivere questo circolo virtuoso è quello di “integra multitudo” (71), la quale ha superato i motivi di maggiore disgregazione, e si presenta compatta e armonicamente strutturata al suo interno. La medesima distinzione tra una moltitudine dominata dalle passioni negative – una “moltitudine sciolta”, cioè internamente frantumata e disordinata – e una “regolata dalle leggi” è presente nei Discorsi, libro I, cap. 58, il cui titolo suona paradigmatico: “la moltitudine è più savia e più costante di uno principe”; qui Machiavelli dichiara: “Se, adunque, si ragionerà d’un principe obligato dalle leggi, e d’un popolo incatenato da quelle, si vedrà più virtù nel popolo che nel principe: se si ragionerà dell’uno e dell’altro sciolto, si vedrà meno errori nel popolo che nel principe” (72) .

Spinoza conclude il paragrafo del suo Trattato con le seguenti parole: “E sono indotto a pensarla così su questo sapientissimo uomo, perché risulta che stava dalla parte della libertà, e che per difenderla diede suggerimenti molto salutari”. Dall’acutezza dell’intelletto, riconosciuta in prima battuta, si arriva infine alla saggezza, che è degna di pochissimi. Ma le due qualità non stanno affatto in contrapposizione; al contrario, la capacità del segretario fiorentino di cogliere con esattezza i meccanismi profondi che generano la tirannide e che ne rendono così difficile l’eliminazione si trasforma in saggezza nel momento in cui permette di spostare lo sguardo del teorico dal singolo individuo, che solo in apparenza dispone di un potere assoluto, all’universalità dei singoli che tale potere producono e sostengono materialmente in ogni istante, vuoi con la loro potenza, vuoi con la loro impotenza. Si badi, però, che non si tratta di una conoscenza astratta e generica dei comportamenti collettivi, bensì della capacità di individuare nelle situazioni contingenti della storia i margini di intervento per partecipare all’incremento della potenza della moltitudine, per ‘prendere la parte’ della libertà; in questo senso la politica è per Spinoza una conoscenza del III genere, ovvero è intuizione delle res singulares, che in lui come in Machiavelli implica un’immediata conversione sul piano operativo (73)

. A questa altezza, dunque, la teoria acuta si fa pratica sapiente, in quanto permette di calare il sapere astratto nella situazione, di trasformare una conoscenza puramente descrittiva nella capacità di intervenire effettivamente sui meccanismi di costituzione e di stabilizzazione del potere. Saggezza è anche riconoscere il proprio ruolo determinato in una prassi collettiva, che ha nella teoria un suo momento (un momento della potentia multitudinis), irriducibile a uno sguardo neutro ed esterno rispetto al prodursi degli eventi; anche su questo aspetto si misura la distanza che intercorre tra Spinoza e Hobbes a proposito del rapporto teoria scientifica-prassi politica (74). Così nella lettera a Soderini del 1506, nota col nome di Ghiribizzi, Machiavelli definisce “savio”, cioè ‘sapiente’, colui che, poiché “conoscessi e tempi e l’ordine delle cosse et accomodassisi a quelle, arebbe sempre buona fortuna o e’ si guarderebbe sempre da la trista, e verrebbe ad essere vero ch’il savio comandassi alle stelle et a’ fati” (75). Benché sia molto difficile che Spinoza conoscesse questo passo, credo però si possa cogliere una profonda assonanza, come se il filosofo olandese facesse proprie le parole di Machiavelli per attribuirgli quella acutezza nella conoscenza e saggezza nell’azione che sono indisgiungibili.

Se il ragionamento che ho fin qui condotto appare convincente, le conclusioni che se ne possono trarre sono dunque le seguenti: la lettura – o, per meglio dire, la citazione – di Machiavelli nel capitolo V del Trattato politico si inserisce in un quadro originale molto articolato che è quello della ricezione di Machiavelli nel pensiero politico olandese del XVII secolo. Spinoza è a conoscenza dei termini di tale ricezione, ne individua gli aspetti ideologici ed è chiaramente schierato dalla parte della fazione repubblicana, tuttavia la sua appartenenza a tale schieramento teorico è assai originale, come si evince confrontando proprio l’assunzione delle tesi machiavelliane nell’opera dei De la Court e nel Trattato politico: infatti, se in entrambi i casi è certa l’assunzione dell’orizzonte antropologico machiavelliano, nonché la scelta politica a favore della repubblica, dettata dalla consapevolezza dell’eguale sottomissione alle passioni di tutti gli uomini e dalla fiducia nel circolo virtuoso affetti-leggi repubblicane-libertà, tuttavia in Spinoza tale assunzione è ben più radicale, come dimostra soprattutto la messa al centro dell’analisi di un nuovo soggetto politico, la moltitudine. Quanto Spinoza ‘apprende’ da Machiavelli – o, quanto meno, ciò che egli individua come decisivo nell’opera del fiorentino – è una vera e propria “scienza della moltitudine”, cioè un pensiero che riconosce la natura intrascendibile e irrapresentabile – in una parola, irriducibile a unità – dell’agire della molteplicità di individui che compongono uno Stato, qualunque sia la forma che tale Stato assume; una scienza che si contrappone radicalmente alla scienza hobbesiana, ovvero a quella teoria politica che ha il suo esito nella costituzione del popolo come unità omogenea e identificata, tramite l’artificio del patto e della rappresentazione, nella persona del sovrano. infine, porre la moltitudine al cuore della riflessione politica non significa soltanto riconoscere, con le parole dei Discorsi, che “se uno è atto a ordinare, non è la cosa ordinata per durare molto, quando la rimanga sopra le spalle d’uno; ma sì bene, quando la rimane alla cura di molti e che a molti stia il mantenerla” (76); ma anche che il filosofo, per quanto acuto sia il suo sguardo, diventa vero sapiente soltanto quando riconosce di occupare un posto definito dentro l’operare della moltitudine, e prende sulle proprie spalle la responsabilità, senza rinunciare al proprio singolare ingenium, ma anzi mettendolo in gioco, decidendo di stare “dalla parte della libertà”.

 

 

Note.

(1) Il secondo passo è al cap. X, § 1, dove Spinoza parla dell’“acutissimo fiorentino”, citando anche un passaggio dei Discorsi; si veda Tractatus politicus (d’ora in poi citato come TP), in SPINOZA, Opera, a cura di C. Gebhardt, Carl Winters, Heidelberg 1972 (I ed. 1925), vol. III, p. 353; trad. it. in B. SPINOZA, Trattato politico, a cura di P. Cristofolini, Ets, Pisa 1999, p. 221.

(2) Cfr. in particolare il bel lavoro di V. MORFINO, Il tempo e l’occasione. L’incontro Spinoza Machiavelli, Led, Milano 2002.

(3) Tra gli studi più recenti sul cartesianesimo olandese si veda W. van BUNGE, From Stevin to Spinoza. An Essay on Philosophy in the Seventeenth-Century Dutch Republic, Brill, Leiden-Boston-Köln 2001, in particolare i capp. II e III (pp. 33-64 e 65-93).

(4) Ethica, III, Praefatio e V, Praefatio, in SPINOZA, Opera, cit., vol. II, p. 137 e pp. 278-280; trad. it. in SPINOZA, Etica, a cura di E. Giancotti, Editori Riuniti, Roma 1988, p. 171 e pp. 291-293.

(5) Cfr. ad esempio il lavoro di H. WANSINK, Politieke wetenschappen aan de Leidse Universiteit 1575±1650, H&S, Utrecht 1981.

(6) Cfr. Tractatus theologico-politicus (d’ora in poi TTP), cap. XV, in SPINOZA, Opera, cit., vol. III, p. 181; trad. it. in B. SPINOZA, Trattato teologico-politico, a cura di A. Droetto ed E. Giancotti Boscherini, Einaudi, Torino 1972, p. 359.

(7) Cfr. rispettivamente TTP, adn. XXXIII ad cap. XVI, p. 263 (trad. it. p. 384), ed Epistola L, in SPINOZA, Opera, cit., vol. IV, pp. 238-239; trad. it. in B. SPINOZA, Epistolario, a cura di A. Droetto, Einaudi, Torino 1974 (I ed. 1951), p. 225.

(8) Per un’ampia panoramica sulla storia della ricezione di Machiavelli cfr. G. PROCACCI, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Laterza, Roma-Bari 1995.

(9) Tra l’altro, in una lettera a Hugo Boxel, Spinoza dichiara di non considerare degna di valore “l’autorità di Platone, di Aristotele e di Socrate”, ovvero le più tradizionali auctoritates filosofiche, preferendo piuttosto le parole di “Democrito, Epicuro, Lucrezio o qualche altro atomista” (Epistola LVI, p. 262; trad. it. p. 244). E questo è il commento di MORFINO, Il tempo e l’occasione, cit., p. 52: “La linea di demarcazione che Spinoza traccia nella tradizione filosofica occidentale non separa dunque platonismo e aristotelismo, amici del cielo e amici della terra, come nel celebre dipinto di Raffaello, ma contrappone entrambe queste correnti al materialismo, per il quale prende apertamente partito: Machiavelli, vedremo, appartiene allo stesso spazio del Kampfplatz filosofico”.

(10) TP, cap. V, § 7, pp. 296-297; trad. it. p. 85.

(11) Si veda P. CRISTOFOLINI, Spinoza e l’acutissimo fiorentino, in Id., Spinoza edonista, Ets, Pisa 2002.

(12) Cfr. Epistolae LI e LII, pp. 241 e 242; trad. it. pp. 226 e 227.

(13) Si veda ancora PROCACCI, Machiavelli nella cultura europea, cit.

(14) TP, cap. V, § 7, p. 297; trad. it. p. 85.

(15) Sul Machiavelli ‘inglese’ si vedano i saggi presenti nella raccolta Machiavelli and Republicanism, a cura di G. Bock, Q. Skinner e M. Viroli, Cambridge University Press, Cambridge 1990, e inoltre M. GEUNA, La tradizione repubblicana e i suoi interpreti, “Filosofia politica”, XII (1998), pp. 101-132, e Q. SKINNER, La libertà prima del liberalismo [1998], trad. it. a cura di M. Geuna, Einaudi, Torino 2002.

(16) Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, libro I, cap. 2, in MACHIAVELLI, Tutte le opere, a cura di M. Martelli, Sansoni, Firenze 1971, p. 79.

(17) Cfr. GEUNA, La tradizione repubblicana, cit., pp. 117-118.

(18) Iusti Lipsi Politicorum sive civilis doctrinae libri sex, Qui ad Principatum maxime spectant, Lugduni Batavorum, ex officina Plantiniana, Apud Franciscum Raphelengium, 1589, Ad lectorem.

(19) Ibidem.

(20) Politicorum sive civilis doctrinae libri sex, cit., liber IV, cap. XIII, p. 206.

(21) Ivi, p. 209.

(22) Iusti Lipsi Ad libros politicorum breves notes, Lugduni Batavorum, ex officina Plantiniana, Apud Franciscum Raphelengium, 1589, nota ad librum I, cap. VI, p. 15.

(23) Ibidem.

(24) Ivi, nota ad librum I, cap. III, p. 8.

(25) Sul dibattito tra Coornhert e Lispius cfr. J.I. ISRAEL, The Intellectual Debate about Toleration in the Dutch Republic, in The Emergence of Tolerance in the Dutch Republic, a cura di C. Berkvens-Stevelinck, J. Israel e G.H.M. Posthumus Meyjes, Brill, Leiden-New York-Köln 1997, pp. 3-36.

(26) Su queste conclusioni si veda anche M. Van GELDEREN, The Machiavellian moment and the Dutch Revolt: the rise of Neostoicism and Dutch Republicanism, in Machiavelli and Republicanism, cit., pp. 205-223.

(27) Cfr. De Discoursen van Nicolaes Machiavel Florentijn, over de eerste thien Boecken van Titus Livius, Beyde uyt den Italianischen in onse Nederduytsche Tale overgesegt Door A. van Nievelt, Ghedruckt in't Jaer 1625, p. V.

(28) Idea oeconomicae et politicae doctrinae, auctore Franc. Burgersdicio, Opus Posthumum, Lugd. Batavorum, Apud Hieronimum de Vogel, Anno 1644, p. 35. Sulla filosofia di Burgersdijk cfr. H.W. BLOM, Morality and Causality in Politics. The Rise of Naturalism in Dutch Seventeenth-Century Political Thought, Cip, Den Haag 1995, pp. 67-100.

(29) Su questi avvenimenti si può utilmente consultare J.I. ISRAEL, The Dutch Republic. Its Rise, Greatness and Fall 1477-1806, Clarendon Press, Oxford 1995, cap. 29 (The Republic at its Zenith, I: The 1650’s), pp. 700-738.

(30) Cfr. S. VISENTIN, Assolutismo e libertà. L’orizzonte repubblicano nel pensiero politico olandese del XVII secolo, “Filosofia politica”, XII (1998), pp. 67-85.

(31) Per un resoconto biografico sui fratelli De la Court si veda I.W. WILDENBERG, Johan en Pieter De la Court (1622-1660 en 1618-1685). Bibliografie en receptiegeschiedenis, Holland University Press, Amsterdam-Maarsen 1986.

(32) Consideratien van Staat, ofte Polityke Weeg-schaal, beschreven door V. H., ‘t Amsterdam, by Iacob Volckertsz. 1661 (II edizione, accresciuta rispetto alla I, dell’anno precedente), parte I, libro I, cap. 1, p. 13.

(33) Ivi, p. 6.

(34) Discorsi, libro I, capp. 27 e 42, pp. 109 e 126.

(35) Ivi, p. 145.

(36) Ivi, libro I, cap. 58, p. 140.

(37) Cfr. TP, cap. I, § 1, p. 273; trad. it. p. 27.

(38) Consideratien, p. 137.

(39) Discorsi, p. 81.

(40) Consideratien, parte I, libro II, cap. 1, p. 137; la citazione è presa dal libro I, cap. 3 dei Discorsi: “Però si dice che la fame e la povertà fa gli uomini industriosi, e le leggi gli fanno buoni” (p. 82).

(41) Consideratien, libro I, cap. 5, p. 23. Sulla centralità strategica di questa affermazione nel pensiero politico dei De la Court cfrf. H.W. BLOM, Burger en belang: Pieter de la Court over de politieke betekenis van burgers, in Burger. Een geschiedenis van het begrip ‘burger’ in de Nederlanden van de Middeleeuwen tot de 21ste eeuw, a cura di J. Kloeh a K. Tilmans, Amsterdam University Press, Amsterdam 2002, pp. 99-112.

(42) Consideratien, parte II (Van de Vryheid), libro I, cap. 1, p. 256. La coppia “ordini e leggi” è, come è noto, di chiara origine machiavelliana.

(43) Discorsi, libro I, cap. 55, p. 136.

(44) Cfr. BLOM, Morality and Causality in Politics, cit., pp. 178-180. Occorre ricordare che l’opera di maggior successo dei De la Court è intitolata proprio Interest van Holland, ofte gronden van Hollands-Welvaren (Amsterdam, J.C. van der Gracht 1662). Per una ricognizione più generale sul concetto di interesse nella prima modernità cfr. A.O. HIRSCHMAN, Le passioni e gli interessi. Argomenti politici a favore del capitalismo prima del suo trionfo [1977], Feltrinelli, Milano 1990.

(45) Alla trattazione del regime monarchico le Consideratien dedicano numerosi passaggi del I libro e l’intero II libro della I parte (pp. 137-185).

(46) Cfr. ivi, p. 184, nonché i Politike Discoursen, libro V, Discorso 9, p. 378. Il titolo di questo discorso è sintomatico: “Il miglior governo monarchico non è per i sudditi altrettanto buono del peggior governo repubblicano (p. 377). Sulla critica delacourtiana alla monarchia cfr. W.R.E. VELEMA, ‘That a Republic is Better than a Monarchy’: Anti-monarchism in Early Modern Dutch Political Thought, in Republicanism: a shared European heritage, a cura di M. van Gelderen e Q. Skinner, Cambridge University Press, Cambridge 2002, vol. I, pp. 9-26.

(47) Discorsi, libro II, cap. 2, p. 148.

(48) Ibidem. Su questo passaggio insiste il saggio di J. SCOTT, Classical Republicanism in Seventeenth-century England and the Netherlands, in Republicanism, cit., vol. I, pp. 61-81.

(49) Cfr. in particolare Discorsi, libro I, cap. 2, dove si afferma Roma fu una repubblica perfetta “per la disunione della Plebe e del Senato” (p. 81), nonché i due capitoli successivi (pp. 81-83).

(50) Consideratien, parte I, libro I, cap. 6, p. 29.

(51) Ivi, parte III, libro I, cap. 6, p. 471.

(52) Ibidem.

(53) Ivi, parte III, libro III, cap. 2, p. 564.

(54) Ibidem.

(55) TP, cap. VIII, § 31, p. 338; trad. it. p. 185.

(56) Sulla ricezione del pensiero monarcomaco ugonotto in terra olandese cfr. M. Van GELDEREN, The Political Thought of the Dutch Revolt, Cambridge University Press, Cambridge 1992, in particolare pp. 146-165.

(57) Si veda in proposito C. SECRETAN, La réception de Hobbes aux Pays-Bas au XVIIe siècle, “Studia Spinozana”, III (1987), pp. 27-46, nonché VISENTIN, Assolutismo e libertà, cit.

(58) Cfr. TTP, cap. XVIII, p. 227; trad. it. pp. 454-455.

(59) Elementorum Philosophiae Sectio Tertia – De Cive, in Thomae Hobbes Malmesburiensis opera philosophica quae latine scripsit, a cura di W. Molesworth, J. Bohn, London 1839 (rist. anastatica Scientia Verlag, Aalen 1966), vol. II, cap. VII, §§ 2 e 3, pp. 236-237; trad. it. in. T. HOBBES, De Cive, a cura di T. Magri, Editori Riuniti, Roma 1992, pp. 145-146.

(60) TP, cap. V, § 7, p. 296; trad. it. p. 85.

(61) Discorsi, p. 99.

(62) Ibidem.

(63) TP, cap. V, § 7, pp. 296-297; trad. it. p. 85.

(64) “Quando diciamo che uno può decidere quel che vuole su ciò che è sotto la sua giurisdizione, questo potere va definito in base non solo alla potenza dell’agente, ma anche dalla disposizione del paziente” (ivi, cap. IV, § 4, p. 293; trad. it. pp 75-77).

(65) Ivi, cap. II, § 17, p. 282; trad. it. p. 49.

(66) “Quando parlo di uno stato istituito a quel fine [ovvero allo scopo di vivere nella concordia, come spiega il paragrafo precedente], mi riferisco a quello che è stato instaurato da un popolo libero (quod multitudo libera instituit), e non a quello che si acquista sopra il popolo per diritto di guerra. Un popolo libero è guidato più dalla speranza che dalla paura, mentre per un popolo soggiogato prevale la paura sulla speranza” (ivi, cap. V, § 6, p. 296; trad. it. p. 85).

(67) Al § 26 Spinoza, dichiarando di aver dimostrato le basi del regime monarchico, conclude: “Basti soltanto avvertire che io qui prendo in considerazione quello stato monarchico che è istituito da un popolo libero (quod a libera multitudine instituitur), il solo che può giovarsi di questi principi” (p. 319; trad. it. p. 139).

(68) A proposito di questa conclusione si veda anche quanto afferma L. BOVE in La strategia del conatus. Affermazione e resistenza in Spinoza [1996], trad. it. a cura di F. Del Lucchese, Ghibli, Milano 2002, a proposito del nesso Machiavelli-Spinoza, così sintetizzato: “Pensare la politica e la sovranità secondo una dinamica auto-organizzativa della moltitudine, della resistenza attiva verso le logiche di dominio, dell’affermazione della propria autonomia” (p. 315).

(69) Discorsi, libro I, cap. 5, p. 83.

(70) Sul tema della paura in Spinoza si veda il saggio fondamentale di E. BALIBAR La paura delle masse [1985], trad. it. in Id., Spinoza. Il transindividuale, Ghibli, Milano 2002, pp. 13-40; va ricordato, a tale proposito, che oltre al significato soggettivo (la massa ha paura) e quello oggettivo (la massa fa paura) evidenziati da Balibar, esiste anche un valore riflessivo di questo sintagma: la massa che fa paura a se stessa.

(71) Cfr. ad esempio TP, cap. VIII, § 3: “Posto infatti che si dia uno stato assoluto, esso è in realtà quello che è governato dal popolo tutto intero (quod integra multitudo tenet)” (p. 325; trad. it. p. 155). Sul carattere ‘virtuoso’ del nesso tra la libertà delle istituzioni e quella dei cittadini cfr. CRISTOFOLINI, Spinoza e l’acutissimo fiorentino, cit.

(72) Discorsi, pp. 140-142.

(73) Per Machiavelli, inoltre, il sapere del particolare è comune a tutti gli uomini come egli stesso dichiara in Bodei fa riferimento ai Discorsi, libro I, cap. 47, il cui titolo è: Gli uomini come che s’ingannino ne’ generali, né particulari non si ingannano (p. 129). Su questo aspetto, che segna forse una differenziazione tra i due pensatori, insiste R. BODEI in Geometria delle passioni, Feltrinelli, Milano 1991, p. 329.

(74) Su questo punto rinvio a VISENTIN, Il movimento della democrazia. Antropologia e politica in Spinoza, di prossima uscita in un testo collettaneo sul concetto di democrazia, a cura di G. Duso, per i tipi di Carocci.

(75) Lettera a Giovan Battista Soderini, 13-21 settembre 1506, in MACHIAVELLI, Tutte le opere, cit., p. 1083.

(76) Discorsi, I, 9, p. 90.