Etica &
Politica / Ethics & Politics, 2004, 1 http://www.units.it/etica/2004_1/TRIFIRO..htm Anti-Fondazionalismo, Liberalismo e Diritti
Umani
1. Introduzione In questo
lavoro intendo tracciare le linee principali di una argomentazione a favore
della plausibilità e desiderabilità di un approccio anti-fondazionalista ai
principi e alle pratiche dei diritti umani e del liberalismo. Mostrarne
la plausibilità richiede, oltre a delineare la concezione dei valori e dei
diritti liberali a cui intendo rifermi, mostrare la plausibilità di una
epistemologia anti-fondazionalista in generale. La
sezione iniziale è dedicata a questi due momenti preliminari della mia
argomentazione. Affronterò innanzitutto
il tema della plausibilità di una
concezione anti-fondazionalista della conoscenza e della giustificazione.
Siccome fare questo in maniera appropriata richiederebbe un lavoro a sé che affrontasse una vasta letteratura filosofica
intorno ai dibattiti su realismo/anti-realismo e relativismo/oggettivismo, mi
limiterò qui a presentare le linee essenziali della posizione
anti-fondazionalista che considero la più soddisfacente. Indicherò poi brevemente dove si situa nello
spettro delle posizioni liberali la prospettiva da cui conduco le mie
riflessioni. Per dar
forza al liberalismo anti-fondazionalista che intendo difendere, e allo stesso
tempo chiarirne la natura, mi volgerò successivamente a mostrare come due
recenti tentativi di fondare i diritti e i principi fondamentali del
liberalismo su considerazioni di razionalità, quelli rispettivamente di Alan
Gewirth e Jürgen Habermas, sono
destinati a fallire, scontrandosi contro l’inevitabile circolarità delle nostre giustificazioni ultime e il loro
imprescindibile carattere volitivo così come è messo in luce dagli argomenti anti-fondazionalisti. Passerò
dunque a rispondere ai timori sottostanti alle critiche volte a un approccio
anti-fondazionalista ai principi e alle pratiche dei diritti umani e del
liberalismo che sono state avanzate sia da chi vorrebbe fondare questi principi
e pratiche su terreno assoluto sia da anti-fondazionalisti antitetici al
discorso liberale e dei diritti umani. Questo mi permetterà di entrare nel
merito della questione della desiderabilità di un liberalismo
anti-fondazionalista. In
particolare spiegherò perchè ritengo
che una coscienza anti-fondazionalista sia la più consona a una piena difesa e
realizzazione dei valori e dei diritti liberali, e come, viceversa, una
coscienza e una società liberale siano le più favorevoli per un pieno sviluppo
delle possibilità di progresso, in ogni area della cultura, insite in una
concezione anti-fondazionalista della razionalità. Ma
soprattutto insisterò sul fatto che una tale concezione, facendoci apprezzare a
pieno la natura politica e morale, e dunque volitiva al contrario di cognitiva,
dei problemi concernenti la realizzazione di una società che rispetti i diritti
e le libertà fondamentali dell’uomo, ci permette di concentrare le nostre
energie e i nostri comuni sforzi sugli ostacoli concreti a un progresso sociale
ispirato ai valori liberali, vale a dire la volontà e l’impegno di tutti gli
attori sociali coinvolti nel progresso politico e morale; così come ci permette di risolvere le tensioni tra le
pretese universaliste dei principi liberali e dei diritti umani e le asserzioni
particolaristiche di autonomia provenienti da diversi gruppi culturali. 2. Anti-fondazionalismo
e Liberalismo 2.1. Anti-fondazionalismo La
posizione anti-fondazionalista più soddisfacente ritengo la si possa
individuare nella concezione della normatività e della razionalità che emerge
dai lavori dei tre filosofi americani che meglio hanno utilizzato e sviluppato
gli argomenti anti-metafisici e anti-scettici avanzati inizialmente dai padri
fondatori del pragmatismo, Charles S. Peirce, William James e John Dewey, e da
Wittgenstein, ovvero Donald Davidson, Richard Rorty e Hilary Putnam. Il punto
di partenza di questa concezione è il rifiuto della possibilità, non soltanto
fisica, ma pragmatica, di raggiungere il punto di osservazione metafisico,
quella prospettiva che all’interno della tradizione analitica in filosofia, nel
cui quadro le mie riflessioni si svilupperanno, è stata variamente chiamata ‘lo
sguardo da nessun luogo’, ‘il punto di vista dell’Occhio di Dio’ o ‘la
concezione assoluta del mondo’ seguendo rispettivamente Thomas Nagel, H. Puntam
e Bernard Williams. (1) È
importante comprendere bene la distinzione tra impossibilità fisica e grammaticale
in questo frangente, perché solo cogliendo la natura pragmatica del loro
rifiuto del progetto fondazionalista della tradizione metafisica in filosofia
si può apprezzare adeguatamente il rifiuto dello scetticismo radicale che
accomuna i tre filosofi neopragmatisti a cui ci stiamo riferendo e i loro
predecessori. Intendo quello scetticismo che conduce alle conseguenze corrosive
del relativismo che nega si possa ritenere qualsiasi asserzione o pratica
corretta o sbagliata – o, specularmente, che afferma, come affermava Paul
Feyerabend, che ‘tutto va bene’ (2) – e dell’anti-realismo che
nega ogni costrizione da parte del mondo esterno sulle nostre pratiche e i
nostri processi cognitivi. Secondo
l’approccio anti-fondazionalista che avanzo ci è impossibile ottenere la
concezione metafisica del mondo non per un nostro difetto costitutivo, a cui
potremmo ovviare se solo riuscissimo ad arrivare alle giuste scoperte
scientifiche e tecnologiche che ci permetterebbero di supplire alle nostre deficienze
cognitive. Piuttosto, l’impossibilità del progetto fondazionalista della
metafisica è insita nel concetto stesso di realtà – e dunque di verità – a cui
esso tende nella sua ricerca di fondamenti. Il fondamento di cui il pensiero
metafisico è sempre stato alla ricerca consisterebbe infatti in una realtà che
per costituzione si trova al di là di qualsiasi nostro tentativo cognitivo.
Essa è concepita come una realtà trascendente le nostre prospettive
contingenti, e dunque trascendente l’insieme dei valori, interessi e credenze
all’interno del quale soltanto può darsi contenuto semantico e epistemico. È questa
stessa concezione del fondamento giustificante le nostre pratiche e le nostre
facoltà cognitive la sorgente dello scetticismo radicale che corrode la
normatività e ne recide il contatto con la realtà esterna. . Tale concezione
metafisica di “un mondo tanto
‘indipendente dalla nostra conoscenza’ da poter provare”, come osserva Rorty,
che “a quanto ne sappiamo, non contiene alcuna delle cose di cui abbiamo sempre
pensato di parlare” (3), è
infatti alla radice di quello scetticismo che ha accompagnato pari passo la
tradizione fondazionalista in filosofia e che ha trovato la sua massima
espressione nel dubbio iperbolico cartesiano. Questo
scetticismo è stato criticato in maniera simile da Peirce e da Wittgenstein
come un dubbio filosofico, un ‘dubbio di carta’, che a differenza del dubbio
reale è completamente sradicato dalle circostanze concrete della pratica che
realmente ci mettono in crisi e ci danno ragione di dubitare dell’adeguatezza
delle nostre credenze e delle nostre azioni. Peirce
osservò ad esempio come Alcuni
filosofi sono andati a pensare che per iniziare una ricerca bastasse formulare
una domanda a voce o per iscritto, e ci hanno anche raccomandato di cominciare
i nostri studi mettendo in dubbio ogni cosa! Ma il puro e semplice porre una
questione nella forma interrogativa non stimola la mente ad alcuna lotta per
raggiungere la credenza. Senza un dubbio reale e vivente ogni discussione è oziosa. (4) Soltanto
un dubbio reale e vivo, un dubbio supportato da ‘una ragione positiva’ (5) – la ragione che,
emergendo dalle circostanze problematiche in cui ci troviamo, ci spinge verso
la ricerca del sapere certo– è un dubbio praticabile. Il dubbio filosofico, non
poggiando su ragioni concrete è un dubbio che non ha ragione di essere, è un dubbio impossibile perché impossibile è il suo
appagamento. Questa
stessa linea di ragionamento la troviamo ancor più esplicitata in Wittgenstein.
Egli in termini simili osserva che ‘si dubita per ragioni ben precise’,(6) che affinché i nostri
dubbi, così come le nostre pretese di conoscenza, possano avere un contenuto preciso
dobbiamo avere ragioni per dubitare o per affermare di sapere, dobbiamo avere
un’idea di ciò che potrebbe dissolvere il dubbio o giustificare la nostra
pretesa di conoscenza. Comunque, “la fondazione, la giustificazione delle
prove, arrivano a un termine” (7), e dunque anche le nostre
ragioni per dubitare giungono ad un termine. Questo significa che non tutto può
essere messo in dubbio, come non tutto può essere giustificato. “Vale a dire,
le questioni, che poniamo, e il nostro
dubbio, riposano su questo: che certe
proposizioni sono esenti da dubbio, come
se fossero i perni sui quali si muovono quelle altre.” (8)
Perciò l’idea che ‘dietro il
dubbio pratico c’è ancora un dubbio [...] è un illusione.’ (9) La radice di questa
illusione è la stessa convinzione fondazionalista secondo la quale Una
comprensione sicura è possibile soltanto quando mettiamo in dubbio tutto ciò
che può essere oggetto di dubbio, e poi rimuoviamo tutti questi dubbi. (10) In
particolare, il fatto che possiamo dubitare o giustificare le nostre credenze
prese individualmente in circostanze concrete non significa che possiamo
dubitare o giustificare l’intero sistema delle nostre credenze e dei nostri
valori, come vogliono Cartesio e la tradizione scettica che sempre ha
accompagnato quella fondazionalista come una immagine riflessa. Come Davidson e
Rorty rispettivamente, e complementarmente, osservano: Lo
scetticismo sembra poggiare su una semplice fallacia, la fallacia consistente
nel trarre dal fatto che non c’è niente
su cui non potremmo sbagliarci la conclusione che ci potremmo sbagliare su
tutto. (11) Il fatto
che niente è immune da critiche non
significa che abbiamo il dovere di giustificare tutto. (12)
Alla
radice della posizione anti-fondazionalista su cui ritengo convergano i tre
filosofi neo-pragmatisti americani vi è dunque quella che Putnam considera
l’intuizione fondamentale del pragmatismo classico, cioè “che si possa essere
allo stesso tempo fallibilisti e
antiscettici”, perché “il fallibilismo non ci richiede di dubitare ogni cosa, ma soltanto di essere
disposti a dubitare qualcosa – se
sorgono delle buone ragioni per farlo.” (13) Ovvero, l’intuizione che
si può essere anti-fondazionalisti e allo stesso tempo non cadere nelle
trappole del relativismo e anti-realismo radicale. È questa
la considerazione principale su cui poggia la mia affermazione della
plausibilità di una epistemologia anti-fondazionalista. La si può riassumere
dicendo che l’affermazione della neutralità metafisica delle nostre credenze e
delle nostre pratiche non comporta la loro neutralità normativa. Sostenere il
contrario significa considerare la negazione della possibilità di raggiungere
la concezione assoluta del mondo restando ancorati alla prospettiva dell’Occhio
di Dio. Se si ritiene che valido è solo ciò a cui si può dare una fondazione
metafisica certamente si sarà portati a credere che se si nega la possibilità
di ottenere un tale giustificazione per le nostre credenze e le nostre pratiche
si debba pure negare che tali credenze e pratiche possano essere ritenute
valide, o, il che è lo stesso, affermare che ‘tutto va bene’. Ma una volta che
ci si liberi della prospettiva metafisica, come intimano Davidson, Rorty e
Putnam, ci si libererà di tutti i dualismi che hanno costretto la tradizione
filosofica nell’interminabile dialettica tra fondazionalismo-scetticismo,
relativismo-oggettivismo e realismo-idealismo che la caratterizza, quelli per
esempio tra soggetto-oggetto, schema-contenuto e spirito/mente-natura/mondo. Il punto
di approdo è una concezione pragmatista della conoscenza e della razionalità
che ci porta a realizzare la nostra inevitabile condizione etnocentrica. Questa
consiste nella circostanza che le nostre pratiche e il nostro pensiero poggiano
imprescindibilmente su valori e credenze al di là delle
quali non è possibile andare per trovarne una giustificazione, in quanto sono
quelle credenze e valori le basi stesse a cui ci riferiamo per stabilire ciò
che è giustificato e ciò che non lo è. Realizzare la nostra condizione
etnocentrica significa dunque realizzare la nostra contingenza, che le nostre
posizioni normative e le nostre pratiche poggiano ultimamente su un terreno
infondato perché infondabile, ma allo stesso tempo riconoscere che questa
circolarità non ci impedisce di
mantenere uno sguardo critico sulle nostre credenze e sulle nostre pratiche, e
di formare idee più o meno precise di ciò che è corretto o sbagliato, migliore
o peggiore in qualsiasi circostanza. Come afferma Rorty, c’è una differenza tra dire che ogni comunità è valida
quanto ogni altra, e dire che non possiamo fare altro che partire dai
particolari punti di partenza che ci caratterizzano, dalle comunità con le quali al momento ci identifichiamo. (14) Associare
anti-fondazionalismo e relativismo significa fraintendere la distinzione
fondamentale tra relativismo nei confronti delle teorie filosofiche e relativismo nei confronti delle teorie reali. (15) Chi è anti-fondazionalista
è sicuramente relativista filosofico, in quanto tutto va indifferentemente bene
in base a un criterio discriminatorio assente come è quello dello ‘sguardo da
nessun luogo’. Ma non è vero che tutto va bene secondo un parametro di giudizio
effettivo come quello rappresentato dalle norme alla base delle nostre pratiche
di giustificazione etnocentriche. Affidandoci a esse nella pratica noi
distinguiamo tra migliori e peggiori alternative in ogni area della nostra
esistenza. Una
posizione anti-fondazionalista etnocentrica come quella a cui ho brevemente
accennato dunque scappa dai pericoli dello scetticismo radicale poggiando la
sorgente della autorità normativa in quella stessa dimensione volitiva della
pratica, con i suoi bisogni e interessi, da cui i fondazionalisti cercano di
staccarsi al fine di trovare una garanzia assolutamente certa per le nostre
posizioni normative e il loro contatto con il mondo esterno. Possiamo
dunque confermare che gli estremismi epistemologici rappresentati dal
relativismo e dall’anti-realismo non seguono dalla realizzazione
anti-fondazionalista della nostra condizione etnocentrica ma, piuttosto, dagli stessi tentativi
fondazionalisti di arrivare alla concezione assoluta del mondo. Benché questi
tentativi originano dallo stesso interesse di salvare la normatività e il
contatto del nostro pensiero e delle nostre pratiche con il mondo esterno, in
ultima istanza essi compromettono la nostra stessa capacità di pensare e di
agire perché ignorano che dobbiamo sempre poggiare su qualche terreno non
questionabile per poter riuscire a pensare o a fare qualsiasi cosa. La
conseguenza più importante di una tale concezione etnocentrica della
normatività è quella di metterci in grado di realizzare come i problemi che
emergono dalle nostre relazioni con il mondo e con gli altri sono problemi di
natura pratica, morale e politica, e non problemi di ordine epistemologico ed ontologico.
Tale modo di intendere la dimensione epistemica e razionale che ci è propria ci
permette infatti di realizzare come non vi sia altro modo di risolvere le
situazioni problematiche in cui ci imbattiamo oltre a quello di impegnarci in
una attenta e onesta riflessione sui nostri valori, interessi e credenze
fondamentali volta a valutare alla loro luce l’adeguatezza delle nostre
pratiche e teorie, ma anche, e soprattutto, il loro relativo peso, e se non sia
eventualmente opportuno scartare o cambiare qualcuna delle nostre assunzioni
fondamentali. Tutto ciò ovviamente senza mai poter trascendere completamente
dal nostro sistema totale di valori e credenze. L’immagine che descrive la
nostra condizione epistemica è quella dei marinai di Neurath che riparano in
mare aperto la imbarcazione in cui stanno navigando. Come loro, noi possiamo e
dobbiamo sì rinnovare il nostro
sistema di sapere in ognuna delle sue parti, ma solo pezzo per pezzo, senza mai
poter uscire da esso per raggiungere un punto operativo privilegiato. (16) In particolare, così
entrando nel merito dell’argomento di nostro interesse, una concezione
etnocentrica della normatività come quella qui delineata ci farà realizzare
come i problemi che emergono dalla pluralità e conflittualità dei punti di
vista, delle tradizioni, dei bisogni e degli interessi umani, non fanno appello
alla nostra facoltà di rompere il ‘velo dell’apparenza’ e vedere come le cose
stanno e devono stare in realtà, ma
richiamano invece la nostra sensibilità e il nostro impegno etico e politico.
Una tale immagine della nostra condizione epistemica ci aiuta a comprendere
come non vi sia nulla su cui l’uomo possa contare oltre che sé stesso, e perciò
che se vogliamo indirizzare il progresso sociale verso il rispetto dei diritti
umani e dei valori liberali non possiamo che contare sull’impegno concreto di
noi uomini e donne reali nel denunciare e criticare pratiche e ideologie che
riteniamo oppressive e ingiuste e nel proporre e dar forma a modi migliori di convivere
e di pensare all’altro. Ci aiuta a comprendere come i problemi derivanti dalla
diversità e conflittualità tra gli esseri umani non siano qualcosa da cui
rifuggire rifugiandosi nella solitudine della riflessione filosofica orientata
a scoprire la via giusta da seguire,
ma vadano presi per quello che sono, una diversità e una conflittualità di
valori, interessi e credenze fondamentali per le quali non vi è altra soluzione
che quelle concrete proposte etiche e politiche che ciascuno di noi ritiene migliori. Ogni
tradizione politica e morale ha proposto la propria soluzione. Secondo la
tradizione liberale e del rispetto dei diritti umani, alla quale volge e dalla
quale è stata formata la mia sensibilità morale e politica, il modo migliore di
vivere la diversità e il conflitto che da essa deriva è quello di subordinare
le scelte di interesse comune a una deliberazione pubblica che rispetti la
libertà e l’uguaglianza di tutti, così come quei bisogni fondamentali alla base
della dignità umana. È esattamente di un approccio etnocentrico ai principi e
alle pratiche proposte da questa tradizione che voglio mostrare la plausibilità
e la desiderabilità. Fin qui ho
svolto l’argomento centrale in difesa della plausibilità di una epistemologia
anti-fondazionalista. Prima di passare a rispondere alle critiche che sono
state volte da più parti a un approccio etnocentrico ai valori e ai diritti
liberali, per poi argomentarne la desiderabilità, è opportuno però fare miglior
chiarezza sulla base volitiva dell’impegno morale su cui insiste tale
approccio, e innanzitutto sulla concezione dei valori e diritti liberali a cui
faccio riferimento. Farò la prima cosa nella
sezione successiva esaminando criticamente due recenti tentativi di fondare
le pratiche e i principi liberali su basi cognitive, quelli di Alan Gewirth e Jürgen Habermas. Concluderò invece questa sezione chiarificando la mia lettura
della progetto liberale. 1.1.
2.2. Liberalismo La
tradizione liberale non può
certamente essere considerata come l’espressione di un progetto chiaramente
definito, caratterizzato da un ben preciso e indiscusso insieme di valori,
credenze, norme, istituzioni e loro interpretazioni e applicazioni. Vi è sempre stato disaccordo tra i difensori del
liberalismo sui tratti definenti il loro progetto politico e morale, sul
contenuto dei suoi valori fondamentali così come
sulle pratiche e le istituzioni migliori per realizzarli. Vi è sempre stato disaccordo,
per esempio, sull’esatto contenuto dei due valori e diritti centrali della
tradizione liberale, quelli della libertà e
dell’uguaglianza, e in particolare sulla loro relativa priorità in caso di conflitto. Così, tra i fondatori del pensiero liberale, John Locke
ha difeso una concezione della giustizia basata su una concezione negativa
della libertà, come assenza di
costrizioni, e dello stato, come mero garante del diritto alla vita, alla
proprietà e alle libertà civili fondamentali dei suoi cittadini; mentre Jean
Jacques Rousseau ha insistito su un ruolo più positivo
dello stato nell’organizzazione della società basato
su una concezione più positiva
e ugualitaria della libertà dei
cittadini come il loro diritto a partecipare nella gestione della res publica. Questo
contrasto tra quelle che Bernard Constant ha chiamato ‘le libertà dei moderni’ e ‘le libertà degli antichi’[1]
ha continuato a caratterizzare il dibattito contemporaneo intorno e interno al
liberalismo sotto la forma di una opposizione tra liberali ‘libertari’ e
liberali ‘ugualitari’. Liberali libertari come Friedrich A. Hayeck e Robert
Nozick, seguendo la tradizione di Thomas Hobbes, J. Locke, Jeremy Bentham e
Adam Smith, difendono la priorità dei
diritti individuali di proprietà e la
libertà di transazione economica
contro qualsiasi interferenza da parte dello stato e così contro ogni concetto di giustizia distributiva,
mentre liberali ugualitari come John Rawls e Ronald Dworkin, più in linea con la tradizione di J-J. Rousseau e di
liberali hegeliani liberali come T. H. Green e L. T. Hobhouse, sostengono che
sia legittimo, e anzi richiesto dai requisiti della giustizia, che lo stato
intervenga nella sfera delle libertà
individuali per ridistribuire certi beni primari e così soddisfare certi diritti fondamentali a un livello
di uguaglianza e benessere di base. Questo
contrasto può essere a sua
volta modulato nei termini di uno scontro tra
chi ritiene che una società dedita al rispetto della libertà e dell’uguaglianza
si debba limitare al rispetto dei così detti diritti di ‘prima generazione’,
ovvero dei diritti civili e politici, come il blocco occidentale sosteneva
nelle trattative per la stesura della Dichiarazione Universale dei Diritti
dell’Uomo, e chi considera invece essenziale per la creazione di una società
libera ed equa riconoscere e implementare i diritti di ‘seconda generazione’,
quelli economici, sociali e culturali, come sosteneva il blocco sovietico. E come ci
si può aspettare, in tutte queste
dispute i membri dei due opposti schieramenti sono sempre stati lontani dal
raggiungere un accordo tra di loro su quale sistema particolare di libertà e diritti politici e civili oppure su quale
particolare sistema di partecipazione al governo, di beni primari, e
di diritti sociali ed economici dare priorità. C’è stato anche ampio disaccordo sulla questione
concernente se qualche forma di governo democratico sia o meno essenziale per
una piena realizzazione del progetto liberale, così come sulla questione se qualche forma di regola
maggioraitaria sia essenziale o meno per il corretto funzionamento di una
società democratica. Così, in opposizione a chi ritiene che sia qualche forma
di ‘regola dei più’ che meglio soddisfa le
esigenze della libertà e
dell’uguaglianza, e della democrazia, ci è stato
chi, seguendo i passi anti-democratici di Platone e di Aristotele, come i
fondatori stessi della tradizione liberale – i.e. Locke, Hobbes, Rousseau e
John Stuart Mill (nonostante qualche loro affermazione più partecipativa) –, ha optato per concezioni più elitarie della competenza politica e morale e
quindi per procedure di decisione pubblica più elitarie.
Vi è stato anche chi ha proposto
modelli anarchici della società giusta,
sostenendo che la libertà e l’uguaglianza possono
essere esercitate propriamente soltanto in assenza di qualsiasi tipo di
coercizione, e quindi al di fuori di qualsiasi struttura centralizzata di
autorità e potere, non importa se governata dai ‘pochi’ o dai ‘molti’. Un
ulteriore soggetto di disaccordo è stata la
questione se la realizzazione adeguata del progetto liberale richieda, come
Jürgen Habermas e Karl-Otto Apel tendono a sostenere, una semplice concezione
procedurale della giustizia che subordini i risultati giusti della
deliberazione pubblica alla corretta applicazione di appropriate regole per la
discussione, oppure se una società giusta non debba piuttosto impegnarsi, come
Rawls e Dworkin invece credono, in concezioni più sostantive della giustizia
che limitino in qualche modo, attraverso una carta dei diritti costituzionale
per esempio, i risultati del processo decisionale democratico. E, come abbiamo
visto, l’esatta natura sia della procedure di decisione collettiva da seguire
sia dei diritti costituzionali da implementare sono stati oggetto di
discussione. Da un
punto di vista fondazionalista solo una di queste opposte posizioni può cogliere l’essenza reale del progetto liberale, e
quindi di una società giusta,
libera ed equa. Al contrario, secondo la prospettiva anti-fondazionalista che
ho delineato, poiché non vi è modo di fondare assolutamente la superiorità di un particolare compromesso, o una particolare
gerarchia di priorità, tra
diritti e valori in conflitto, i dibattiti menzionati devono essere considerati
in qualche misura interni al pensiero liberale stesso. La misura dipenderà ovviamente dalla nostra particolare concezione del
liberalismo, dalla nostra visione della libertà,
dell’uguaglianza e della dignità umana, e
di quello che questi valori comportano nella pratica. Personalmente
io sono inclinato verso una concezione egualitaria, democratica e costituzionale del liberalismo, e in base
a questa prospettiva tendo a considerare posizioni libertarie, anarchiche ed
elitarie come i membri della famiglia liberale più distanti
dai suoi tratti caratterizzanti fondamentali. Tuttavia non escludo che in
qualche, anche se rara, circostanza, per esempio in circostanze di uguale
potere contrattuale tra le parti o di abbondanza di beni primari, una qualche
forma di libertarianismo, proceduralismo o anche di anarchia non possano
rappresentare un’interpretazione e una garanzia migliore della libertà, dell’uguaglianza e della dignità umana. Né escludo che in circostanza di grande disparità nella distribuzione di potere e di benessere tra i
cittadini non sia meglio invece restringere le loro libertà (o almeno di alcuno fra loro, e.g. i più avvantaggiati) e le concordate procedure di
deliberazione collettiva più
sostanzialmente di quello che sarebbe normalmente richiesto dal rispetto della
libertà, dell’uguaglianza e della
dignità umana. Infatti
il valore che ritengo centrale per una sana società liberale, e che può essere
considerato come una conseguenza diretta del rispetto dei diritti alla libertà, uguaglianza e benessere in condizioni di
pluralismo e conflittualità, è quello dell’apertura permanente della deliberazione
collettiva. Con questo intendo dire che una società liberale che vuole seguire coerentemente i dettami
della libertà, dell’uguaglianza e della
dignità dei suoi membri deve
essere pronta a sottomettere a discussione pubblica e a possibile revisione
anche le sue assunzioni fondamentali, il contenuto e la priorità reciproca dei sui valori costituzionali così come le regole e i principi stessi delle procedure
di deliberazione collettiva. Possiamo
dunque dire che considerare i precedenti dibattiti sui valori e gli assetti
istituzionali di una società liberale
come interni alla tradizione liberale stessa non deve essere preso come un modo
di far fronte a una nostra imperfezione cognitiva, ma deve essere presa come
una parte centrale di quello che i valori della libertà, uguaglianza e dignità umana
richiedono in una società dominata
dalla circostanza del pluralismo. L’idea, che può
probabilmente essere apprezzata meglio da una prospettiva anti-fondazionalista,
è che, non importa quale sia la
nostra particolare visione delle concezioni e pratiche concrete di una società giusta, se non vogliamo rischiare di scivolare in
società più oppressive e ingiuste di quelle in cui
concretamente ci è possibile abitare, se non
vogliamo rischiare che legittime richieste di libertà, uguaglianza e diritti fondamentali rimangano
inascoltate e insoddisfatte, dobbiamo evitare di considerare le posizioni
morali particolari e le particolari pratiche e istituzioni della nostra società come se fossero giuste sub specie aeternitatis, e quindi immuni da revisione. È alla luce
di questa concezione del liberalismo, centrata nell’apertura permanente della
conversazione e della deliberazione pubblica, come la vedo espressa per esempio
nei lavori di liberali anti-fondazionalisti come John Rawls, Richard Rorty,
John Gray e Richard Bellamy e di teorici della democrazia deliberativa come,
John Dryzek, James Fishkin, Amy Gutmann, Dennis Thompson, Seyla Benhabib,
Joshua Cohen, Chantal Mouffe, Iris M. Young e Brian Barry,(17) e strettamente intrecciata
con la concezione anti-fondazionalista della giustificazione, che voglio
argomentare la desiderabilità di un
approccio anti-fondazionalista ai diritti e alle pratiche liberali. 3. Liberalismo
Fondazionalista 2.1.
3.1. Gewirth: le presupposizioni dell’agire teleologico In Reason and Morality Gewirth avanza la
tesi che “l’analisi razionale del concetto di azione è la condizione necessaria e sufficiente per
risolvere i problemi centrali della filosofia morale.” (18) La sua intenzione era
quella di mostrare come “dall’‘essere’ delle
caratteristiche generali dell’azione deriva logicamente il ‘dovere’ dei
principi e delle regole morali”; (19) infatti il ‘dovere’ dei principi liberali che attribuiscono
il diritto alla libertà e al
benessere a tutti gli attori intenzionali.(20) Tuttavia
il suo tentativo fondazionalista di fondare ‘i supremi principi morali’ del
liberalismo su un’analisi delle presupposizioni dell’azione teleologica si
scontra contro seri problemi sin dai suoi primi passi: Poiché l’agente considera come un bene necessario la
libertà e il benessere che
costituiscono le caratteristiche generiche del successo della sua azione, egli
logicamente deve anche sostenere che ha diritto a quelle generiche
caratteristiche, e, implicitamente, egli deve affermare una corrispondente
asserzione di diritto (‘right-claims’). (21) È mia
convinzione che l’inferenza che Gewirth da qui per scontato, e sulla quale egli
costruisce la sua intera argomentazione, l’inferenza che parte dalla
considerazione che un agente considera qualcosa come un bene necessario per il
successo della sua azione per concludere che tale agente logicamente deve
affermare un diritto a quel bene, non regge. O meglio, non regge necessariamente
– logicamente. Regge soltanto per chi
pensa che il criterio di validità per le
asserzioni di diritto sia che le condizioni per
le quali un agente afferma di avere diritto siano condizioni necessarie per il
successo della sua azione. Ma è esattamente questa assunzione che è qui in
questione. Ciò che è in questione è
l’inferenza contenuta nella domanda retorica che Gewirth solleva subito dopo il
passo sopra citato: Se egli
(un agente razionale) considera queste condizioni come necessarie per la
possibilità stessa del suo agire e per le possibilità di successo delle sue
azioni, non deve allora sostenere che tutte le altre persone dovrebbero
frenarsi dall’interferire con quelle condizioni? [...] L’agente non deve
sostenere che ha il diritto a queste condizioni necessarie per il suo agire? Gewirth
pensa che a questa domanda si debba rispondere affermativamente. Io penso
invece che la risposta a questa domanda dipenda dal modo in cui intendiamo la
‘asserzione di dovere’ (‘ought-claim’) che ‘tutte le altre persone dovrebbero
frenarsi dall’interferire con le condizioni necessarie per l’agire’. La
possiamo intendere come asserire che se un agente vuole che le sue azioni
abbiano successo, se egli deve
riuscire nella sue azioni, allora le condizioni necessarie per il successo
dell’azione devono essere
soddisfatte. Il che, data la plausibile analisi delle condizioni necessarie per
la riuscita dell’agire teleologico offerta da Gewirth, significa che l’agente
deve godere della libertà e del benessere
necessari per portare a successo l’azione; che a sua volta significa che gli
altri non devono interferire con queste condizioni. In questo senso
l’asserzione di dovere viene considerata come una asserzione strumentale di
mezzi e fini, e come tale, la sua derivazione dalla considerazione fattuale
delle condizioni necessarie per l’azione non è problematica. In questo senso
essa rappresenta un’istanza della proposizione “se vuoi o devi fare x, e y è la condizione necessaria per x, allora devi (o devi volere di)
fare y.” Ma questo non è il senso in cui Gewirth intende l’asserzione di
dovere che egli pensa l’agente è giustificato ad asserire sulla base del suo
considerare certe condizioni come necessarie per la riuscita del suo agire, in
quanto questo senso non ha nulla a che vedere con le asserzioni di diritto, il
tipo di asserzioni con cui Gewirth ritiene le asserzioni di dovere siano
equivalenti. Rispondendo alla domanda precedente in maniera
affermativa Gewirth vuole sostenere che, ritenendo la libertà e il benessere
come condizioni necessarie per l’azione, l’agente è giustificato a sostenere
che la gente non deve interferire con
queste condizioni necessarie, non solo in un senso strumentale e relativo a una
asserzione di mezzi e fini, ma in un senso assoluto. Gewirth vuole fare quello
che i filosofi morali fondazionalisti hanno sempre tentato di fare, fondare i
precetti e le ingiunzioni morali su un fondamento assoluto, per esempio
derivando questi precetti e ingiunzioni da considerazioni di fatto. Ma questo non è una derivazione non
problematica per la quale nessuna giustificazione è necessaria. Tuttavia
Gewirth non offre mai una tale giustificazione. Non offre mai una ragione per
rispondere positivamente alla sua domanda retorica e giustificare così la sua
inferenza centrale, ma si limita a riaffermare ripetutamente e dogmaticamente
la sua posizione come se fosse un dato di fatto autoevidente. Per esempio, quando Gewirth prende direttamente in
considerazione l’obiezione alla validità della sua derivazione, l’obiezione che “anche se un agente considera la
sua libertà e il suo benessere come beni necessari e quindi richiede che non si
interferisca con essi, non segue logicamente che egli deve anche asserire il
suo diritto a quei beni”,
(22) egli non riesce a evitare di ricorrere a una riaffermazione
circolare della validità della
sua posizione. Così, dopo aver osservato “la differenza tra semplici richieste
e asserzioni di diritto”, che specifica risiedere
nel fatto che “le ultime pretendono di essere basate su ragioni”, (23) egli risponde alla
richiesta di dare ragioni per la sua tesi che gli agenti hanno il diritto alla
libertà ed al benessere sostenendo che “queste ragioni non devono essere
ragioni morali.” Infatti “[esse] sono basate sulle ragioni pratiche più
fondamentali di tutte.” Perché
quale migliore ragione può avere una persona per asserire dei diritti rilevanti
per l’agire dell’osservazione che gli oggetti a cui quei diritti si riferiscono
sono necessari perché egli si possa impegnare in qualsiasi azione teleologica? (24) Per spiegare quello che intendeva asserire in
questa ulteriore domanda retorica Gewirth precisa che il fatto che “non c’è una
implicazione diretta da ‘x è un bene
per A’ a ‘A ha il diritto a x’ o da
‘A considera x un bene’ a ‘A afferma
un diritto a x’”, non parla a favore
di “una certa concezione deontologica” che sostiene che “i diritti sono così
unici tra i concetti normativi che non possono essere spiegati o fondati per
mezzo di considerazioni su ciò che è bene e ciò che è male.” (25) Ovvero,
egli precisa che se è vero che dal semplice fatto che qualcuno ritiene qualcosa
come un bene non segue che egli ne abbia diritto – altrimenti “ci sarebbe una
tremenda e proliferazione di ‘asserzioni di diritto’” – non segue neppure che è
sempre impossibile derivare
asserzioni di diritto da qualsiasi
tipo di valutazione concernente ciò che è un bene o un male. Gewirth crede
invece che ci siano tipi speciali di valutazioni che ci legittimano logicamente
a inferire il diritto alle condizioni valutate come un bene. Queste sono le
valutazioni delle condizioni necessarie per il successo di tutto l’agire in generale. La ragione finale per sostenere che l’agente deve
affermare che egli ha diritto ai beni generici della libertà e del benessere è
che, a differenza dei beni e dei fini particolari per cui egli può agire, i
beni generali sono le condizioni necessarie non solo di una azione particolare
tra tante ma della possibilità di riuscita dell’agire in generale. (26) Quello
che per Gewirth renderebbe le presupposizioni di tutto l’agire intenzionale in
generale ‘le più fondamentali di tutte le ragioni pratiche’, indipendenti
da considerazioni morali e valutative, sarebbe il preteso fatto che esse
costituiscono un terreno libero dall’“arbitrarietà, opposta alla necessità
razionale alla quale la giustificazione deve limitarsi se si vuole che il suo
contenuto stesso sia razionale.” (27) Le condizioni necessarie per l’agire in generale ci
fornirebbero il terreno razionale per giustificare le nostre asserzioni di
diritto perché esse rappresenterebbero un terreno comune a tutti gli
agenti, “un terreno per il quale qualsiasi agente deve impegnarsi a pena di
cessare di essere un agente”; un terreno che giocherebbe nelle nostre
riflessioni morali il ruolo di “variabile indipendente” che è giocato nelle
scienze naturali dai fatti empirici. (28) Per questa ragione esse ci permetterebbero di fondare i
principi morali su fondamenta oggettive. Tuttavia,
dovremmo chiederci: il fatto che le condizioni necessarie per l’agire in
generale siano condizioni che ogni
agente che vuole essere un agente deve ritenere come un bene aiuta
veramente a coprire la distanza tra ‘essere’ e ‘dovere’, e dunque ad arrestare
la (pretesa) ‘tremenda’ proliferazione arbitraria delle asserzioni di diritto
basate su interessi e motivazioni individuali? Da parte
mia la risposta a questa domanda dovrebbe essere che la considerazione che una
certa quantità di libertà e di benessere è necessaria per la possibilità
dell’agire intenzionale in generale,
e quindi è considerata come un bene da tutte
le persone interessate al successo dell’agire diretto alla realizzazione di un
fine (e deve essere dimostrato che le persone condividono la stessa visione
della quantità esatta di libertà e benessere necessari per l’agire
intenzionale), non la rende una dimostrazione che tutte le persone interessate
al successo delle loro azioni hanno il diritto al giusto ammontare di libertà e
benessere, perché prima di poter arrivare a tale conclusione dovremmo
dimostrare che tutte le persone (o almeno quelle interessate al successo del
loro agire teleologico) hanno diritto all’azione. Dobbiamo cioè prima
rispondere all’ulteriore domanda: Gli agenti hanno il diritto all’azione? Il punto
che voglio fare è che la libertà e il benessere sono beni necessari solo
relativamente all’agire teleologico, e questo rende il loro status di ‘diritti’
dipendente dallo status di ‘diritto’ dell’agire in generale. Se gli agenti
hanno davvero il diritto di agire, certamente allora avranno anche il diritto
alle condizioni necessarie per l’azione. Ma se questa è la nostra ragione per
sostenere il nostro diritto a queste condizioni non possiamo affermare di aver
derivato asserzioni di diritto da asserzioni fattuali, perché avremo
presupposto sin dall’inizio il vocabolario del concetto di ‘diritto’. Avremo
fatto appello a ragioni di ordine morale dopo tutto. Dovremo quindi qui
sollevare la richiesta di giustificazione ancora una volta: Che ragioni abbiamo
per affermare che abbiamo il diritto all’azione? Nel corso
del suo libro Gewirth non si pone mai questa domanda, ed è esattamente perché
egli manca di fornire una risposta a tale domanda che la sua argomentazione
volta a colmare la distanza tra ‘essere’ e ‘dovere’, e quindi a fondare i
diritti liberali, fallisce. Perché quando gli viene chiesto di giustificare
l’inferenza dalle condizioni necessarie per l’azione al diritto a quelle
condizioni egli ci rimanda alla circostanza stessa che quelle condizioni sono
necessarie per la possibilità dell’agire in generale, e questo rende lo status
morale di quelle condizioni, e quindi la validità di quella inferenza, parassitica
sullo status morale del nostro essere agenti, sul quale egli non si esprime. A
dispetto di quello che Gewirth sembra pensare, lo status morale dell’azione, e
dunque l’inferenza alla base della sua tesi principale, non sono verità
autoevidenti, come dovrebbe bastare a mostrare il fatto che nel corso della
storia il diritto alle condizioni necessarie per la possibilità dell’azione, e
quindi il diritto all’azione, non è stato, e ancora non è, pienamente
riconosciuto a tutti gli agenti. Perciò dopo tutto è Gewirth che apre la porta
alla proliferazione relativista delle asserzioni di diritto, perché l’unica
ragione che egli fornisce a favore dei diritti liberali che vuole difendere è
la semplice, mai argomentata,
asserzione del loro fondamento nelle presupposizioni dell’agire teleologico, e
non vi è limite a quello che può essere affermato senza ragioni. La mia
posizione è che considerare certe condizioni come necessarie per la possibilità
della nostra azione, anche se certamente è rilevante per quello che deve essere
considerato come un diritto, non può rappresentare una ragione sufficiente per
affermare il nostro diritto a quelle condizioni. Le ragioni per questa mia
posizione sono quelle condivise dai critici dei tentativi fondazionalisti di
fondare il nostro pensiero e le nostre pratiche in ogni area della cultura. La
ragione principale per negare la possibilità di derivare asserzioni di diritti
da considerazioni di necessità per l’agire razionale è che nessuna
considerazione potrà mai costituire una ragione sufficiente per giustificare
non circolarmente un asserzione normativa come quelle che attribuiscono
diritti. Perché queste sono asserzioni assolute, le asserzioni che gettano le
fondamenta stesse del nostro pensiero e delle nostre pratiche, le asserzioni
che costituiscono lo scheletro di quello che pensiamo vero o falso, giusto o
sbagliato, bello o brutto ecc., che stabilisce quello che è giustificato e
quello che non lo e’. Per questo motivo Gewirth non può giustificare il diritto
alla libertà e al benessere puntando al fatto che sono condizioni necessarie
per la possibilità dell’azione, perché questa considerazione strumentale non
mostra la loro necessità assoluta
(morale), ma solo che esse sono condizioni necessarie relativamente al successo dell’azione. Come ho
già notato, la considerazione della necessità pragmatica della libertà e il
benessere per la riuscita dell’agire in generale potrebbe giustificare la
nostra asserzione che abbiamo diritto a queste condizioni solo se fosse
possibile mostrare dell’agire stesso che esso è moralmente necessario. Ma
possiamo mostrare tale necessità morale dell’agire razionale? Certo, che il
nostro agire abbia successo è necessario per la conduzione di una vita
soddisfacente, se non per la possibilità stessa
della nostra vita; ma è la vita un bene assolutamente necessario in se
stesso? È la vita un diritto? È il fatto che viviamo una condizione
sufficiente per affermare il nostro diritto alla vita? Gewirth
prende in considerazione queste domande in un articolo successivo a Reason and Morality in cui si prefigge
di mostrare l’esistenza di almeno un diritto assoluto, appunto quello alla
vita.(29) Ma proprio in questo articolo egli rende manifesto come
queste questioni fondamentali abbiamo a che fare con la struttura fondamentale
del nostro pensiero morale, come esse facciano appello al nostro senso morale e
non alle nostre facoltà
cognitive, e come non possiamo darne una risposta che non sia pregiudiziale,
come non possiamo offrire una “soluzione ai problemi centrali della filosofia
morale” tale che tutti debbano concordare con essa a pena di scadere
nell’irrazionalità o nella contraddizione, come egli aveva sostenuto in Reason and Morality. (30) In
quell’articolo infatti Gewirth difende l’assolutezza del diritto alla vita
poggiando pesantemente sulle sue intuizioni morali concernenti le azioni che
sono da ritenere moralmente disprezzabili – “mali impronunciabili“ –, e quindi
proibite assolutamente, e quelle la cui qualificazione morale può essere invece
soggetto a eccezioni e compromessi in determinate circostanze. L’esempio che
Gewirth prende in considerazione è quello del diritto di una madre a non essere
torturata a morte dal proprio figlio. La sua argomentazione si incentra sul
tentativo di mostrare come non vi possano essere accettabili eccezioni a tale
diritto, neanche per esempio la circostanza che al figlio venga ordinato di
torturare la madre da terroristi in possesso di armi atomiche che minacciano di
annientare un’intera città se egli non obbedisce. Gewirth
dice di prendere in considerazione tale esempio al fine di provare il diritto
generale di “tutte le persone innocenti a non essere fatte vittime intenzionale
di un progetto omicida”, perché esso aiuta a mettere meglio a fuoco la
questione centrale per l’esistenza dei diritti assoluti, vale a dire se vi
siano diritti che ‘non possono essere giustificatamente sopraffatti’. L’intento
tuttavia sembra piuttosto quello di conferire forza persuasiva alla sua
argomentazione per l’esistenza di diritti assoluti facendo appello a intuizioni
morali fortemente condivise e sentite dalla gran parte degli esseri umani come
la ripulsione verso la prospettiva di torturare la propria madre. Ma che questa
intuizione sia ampiamente condivisa non significa che la sua validità sia
assoluta. Altrettanto condivisa del resto è l’opposta intuizione che vi possano
occorrere circostanze in cui l’ordine di sacrificare la madre – o, similmente,
il figlio amato – possa essere considerato come moralmente accettabile, se non
moralmente richiesto, come nel caso in cui tale ordine provenga da Dio. Il
racconto della Genesi, a cui Gewirth stesso sembra rimandare chiamando “Abramo”
il suo sfortunato protagonista, fa a caso nostro. Che
Gewirth in ultima istanza non riesca a evitare di ricorrere alle sue
particolari intuizioni morali per giustificare l’esistenza di diritti assoluti
è ulteriormente reso evidente dal fatto che egli evita di approfondire uno dei
punti vitali per la validità della sua argomentazione, ovvero la definizione di
“persona innocente.” I nostri giudizi di innocenza fanno infatti inevitabile
ricorso ai nostri valori fondamentali e alle nostre diverse intuizioni e
credenze morali. Non vi è
modo di sfuggire alla nostra condizione etnocentrica. Il fatto che viviamo, che
siamo agenti razionali, è una condizione sufficiente per il nostro avere
diritto all’azione e alla vita, solo per
noi persone il cui scheletro morale è quello liberale, perché solo noi
liberali pensiamo che tutti gli esseri umani, per il semplice fatto di vivere,
hanno il diritto alla vita. Questa credenza tuttavia non è fondata su ragioni
metafisiche, ma è solo l’espressione del nostro primordiale atteggiamento
morale verso il mondo, l’atteggiamento che stabilisce l’uso della parola
“diritto” per noi liberali, così come il ricorso alla percezione e al controllo
empirico stabilisce l’uso della parola “vero” per noi il cui scheletro
cognitivo è stato formato dal successo del metodo baconiano nelle scienze
empiriche. Proprio come non possiamo fondare non circolarmente i nostri criteri
di verità empirica, perché non sapremmo dove volgerci per trovare il terreno
giustificatorio che ci possa mostrare la loro verità, quei criteri essendo
esattamente ciò che determina i nostri giudizi di verità su questioni fattuali,
per la stessa ragione non possiamo fondare i nostri criteri di correttezza
morale su terreno neutrale. Proprio
perché il nostro pensiero normativo, quando non esprime un giudizio strumentale
di mezzi e fini, non poggia su nessuna ragione che lo giustifichi ma
costituisce esso stesso i parametri in base ai quali valutiamo ciò che deve
contare come una ragione valida per le nostre credenze e per le nostre azioni,
e quindi come pensieri o pratiche razionali, il negare, o non affermare, un
diritto fondamentale non conduce a una contraddizione. Non è possibile
contraddirsi negando, o non affermando, un giudizio morale fondamentale (come ogni altra norma fondamentale) perché, la sua
negazione o affermazione essendo fondamentale,
e quindi poggiando esclusivamente su se stessa, non c’è nulla cui essa possa
contraddire, se non un’altra, contraddittoria, negazione o affermazione
fondamentale. Questa
considerazione mostra come in ultima istanza il pensiero morale, pace Gewirth, deve essere considerato
motivazionale e non cognitivo. Infatti ci mostra come l’unica contraddizione
che occorre in casi di conflitti sulle norme fondamentali, come quelli tra
diverse concezioni dei diritti umani, è quella consistente in diverse persone
che contraddicono reciprocamente, nel senso di opporsi a, le proprie norme di base. Ci mostra come persone che
sostengono posizioni morali contrastanti, quando si accusano a vicenda di
irrazionalità o di contraddizione, si stanno effettivamente accusando di
immoralità, di non conformarsi alla corretta – la loro – concezione morale. Il loro è un disaccordo morale, e non può
essere risolto puntando alla pur plausibile considerazione che una certa
quantità di libertà e di benessere sono presupposizioni necessarie dell’agire
razionale, perché in ultima istanza ognuno può derivare da tale considerazione
una diversa posizione morale. Quest’ultimo
punto, che ribadisce la tesi humeiana che non si può derivare il dovere
dall’essere, può essere chiarificato ulteriormente considerando le affermazioni
conclusive di Reason and Morality,
dove Gewirth prova a rispondere direttamente alle accuse di circolarità volte
contro il suo tentativo di fondare i diritti liberali su un analisi delle
presupposizioni della razionalità teleologica. Qui egli esprime la convinzione
che la sua analisi non è circolare perché il suo punto di partenza è la
considerazione moralmente neutrale
delle caratteristiche generali dell’agire
in generale. Cominciare
dalle caratteristiche generiche comuni a tutto l’agire significa evitare
arbitrarietà e circolarità nello specificare quale morale sia quella giusta o
corretta, precisamente perché le caratteristiche generiche si trovano nelle
azioni raccomandate da tutte le visioni morali e da tutti i precetti pratici. (31) Tuttavia,
dovremmo chiederci: A cosa è dovuta questa neutralità morale delle
caratteristiche generale dell’agire intenzionale? È dovuta al loro essere
caratteristiche moralmente oggettive,
o piuttosto al loro non avere niente a
che fare con la morale? In base alla prospettiva anti-fondazionalista che
ho presentato ritengo che si dia il secondo caso. Le caratteristiche generali
dell’agire razionale sono neutrali rispetto a diverse posizioni morali perché
non hanno nessuna connessione necessaria con qualsiasi punto di vista morale. Così,
ribadendo questo punto per l’ultima volta, è solo chi pensa che ognuno ha il
diritto a soddisfare le sue azioni, e più generalmente a una vita
soddisfacente, che affermerà il diritto universale alle presupposizioni
dell’agire in generale. Se qualcuno pensa invece che solo le persone che
condividono una particolare religione o un particolare status sociale, o che
appartengono a un particolare gruppo etnico o culturale, sono intitolate ad
avere diritti (qualsiasi essi siano), questi non riterrà la considerazione
delle presupposizioni generali dell’agire teleologico rilevante per la
questione di chi sia intitolato ad
avere diritti, benché potrà considerarla rilevante per la questione di quali diritti debbano ascriversi alle
persone che sono intitolate ad averli. Dalla
circostanza che riteniamo certe condizioni necessarie per il successo delle
nostre azioni, possiamo derivare tante concezioni dei diritti umani quante le
concezioni della sorgente dell’autorità morale e della dignità umana che
possiamo sostenere. Come agenti che tengono
alla realizzazione dei loro propositi, l’unica conclusione che siamo
logicamente costretti a trarre dalla considerazione che certe condizioni sono
necessarie per la riuscita delle nostre agire è che dobbiamo cercare di
soddisfare quelle condizioni, ma certamente non che abbiamo diritto al loro
soddisfacimento. Possiamo
quindi concludere osservando che benché l’obbligazione morale trova il suo
contenuto nei presupposti dell’agire, non trova in esse la sua giustificazione.
Le presupposizioni della razionalità strumentale non possono fondare la nostra
credenza nei diritti liberali a una adeguata misura di libertà e di benessere.
Piuttosto è la nostra visione morale che stabilisce i limiti all’interno dei
quali la razionalità strumentale può legittimamente – eticamente – operare. 2.2.
3.2. Habermas: le presupposizioni dell’agire comunicativo Habermas
è dello stesso parere. Il tentativo di Gewrith di derivare i diritti liberali
partendo da un’analisi delle presupposizioni dell’agire teleologico non può
avere successo perché “il concetto teleologico di azione è inadeguato per
provvedere una giustificazione pragmatico-trascendentale della nozione di un diritto a tali ‘beni necessari’ [i beni
necessari per l’agire intenzionale, i.e. libertà e benessere], invece dell’idea
stessa di ‘beni’.” (32) Comunque egli non crede che ogni progetto fondazionale di giustificazione sia destinato a
fallire. Semplicemente egli non considera l’azione teleologica come il tipo
adeguato di fenomeno dalla cui analisi si possa ottenere una chiarificazione
sui fondamenti della morale. Se invece
si sceglie come base di partenza il concetto di agire comunicativo, si arriva,
per la stessa strada metodologica, a un concetto di razionalità forte
abbastanza per estendere la giustificazione pragamtico-trascendentale del
principio morale alla base di validità dell’agire orientato verso il
raggiungimento della comprensione reciproca. (33) Dunque
Habermas pensa che sia attraverso l’analisi presupposizionale, non dell’agire
teleologico, ma dell’’agire comunicativo’ che possiamo gettare luce sui
fenomeni morali e trovare il terreno giustificatorio per le norme etiche. In
particolare, poiché parlando di ‘agire comunicativo’ egli intende quelle
interazioni sociali in cui “gli agenti sono coordinati, non attraverso calcoli
egoistici, ma attraverso atti volti al raggiungimento della comprensione
reciproca”,(34) egli crede che sia investigando la struttura e le
presupposizioni pragmatiche di questi atti orientati verso il raggiungimento
della comprensione reciproca che possiamo ricuperare il concetto appropriato di
razionalità che ci permetterà di dare un fondamento ai principi e alle pratiche
liberali. Il primo
passo di questa indagine, secondo Habermas, deve essere il riconoscimento
dell’idea centrale della svolta epistemica e pragmatica in filosofia del
linguaggio, cioè la tesi che “le dimensioni del significato e della validità
sono internalmente collegate”, (35) che “comprendiamo un atto linguistico quando conosciamo i
tipi di ragione che un parlante può provvedere per convincere un interlocutore
del fatto che egli è intitolato nella data circostanza ad asserire la validità
del suo proferimento – quando sappiamo cosa
lo rende accettabile.” (36) Questa tesi ci permetterebbe di comprendere come “le
condizioni della comprensione reciproca, come esse devono essere soddisfatte
nelle pratiche comunicative di tutti i giorni, puntano all’assunzione implicita
di un gioco di argomentazione in cui il parlante, nel ruolo di proponente,
potrebbe convincere l’ascoltatore, nel ruolo di opponente, che un’asserzione di
validità possibilmente problematica è in realtà giustificata.” (37) Sulla
base di questa premessa Habermas è portato a considerare l‘agire comunicativo
come quel tipo di interazione sociale in cui “i partecipanti coordinano i loro
piani di azione consensualmente, con l’accordo raggiunto a ogni punto valutato
in termini di riconoscimento reciproco delle asserzioni di validità.” (38) Per Habermas, dunque,
“capire un atto linguistico punta già all’assunzione di un possibile accordo su
quello che si dice.” (39) Il punto
cruciale che dobbiamo cogliere per poter arrivare a una comprensione adeguata
della razionalità inerente all’azione comunicativa che ci permetterebbe di dare
un fondamento alla morale è il carattere del possibile accordo inerente a ogni
atto linguistico. “Il tipo di accordo che è la meta degli sforzi per
raggiungere la comprensione reciproca”, Habermas chiarifica, dipende
dall’approvazione motivata razionalmente della sostanza di un proferimento.
L’accordo non può essere imposto o raggiunto manipolando un nostro compagno di
interazione, perché qualcosa che deve palesemente
la sua esistenza a pressioni esterne non può neanche essere considerato un accordo. (40) Questo è
il punto fondamentale che distingue l’agire comunicativo dall’agire
teleologico: “mentre nell’agire strategico un attore cerca di influenzare il comportamento di un altro
ricorrendo a mezzi diversi dalla minaccia di sanzioni o dalla prospettiva di
una gratificazione al fine di causare
che l’interazione continui come il primo attore desidera, nell’agire
comunicativo un attore cerca razionalmente
di motivare un altro attore
ricorrendo all’effetto illocutorio vincolante inerente all’offerta contenuta
nel suo atto linguistico”, (41) i.e. l’offerta di giustificare discorsivamente, fornendo
ragioni, l’asserzione di validità sollevata dal suo atto linguistico. Ora, la
razionalità inerente all’azione comunicativa solitamente rimane latente nel
corso delle nostre pratiche comunicative quotidiane condotte all’interno alla
nostra ‘comunità comunicativa’. In queste circostanze, infatti, il problema di
raggiungere un accordo non si presenta, poiché il retroterra di credenze e valori
condivisi ai quali si riferiscono le
nostre asserzioni di validità e sul quale dipende il successo delle nostre
azioni comunicative, rimane indiscusso. Tuttavia, “non appena questo consenso è
scosso, non appena l’assunzione che le asserzioni di validità sono soddisfatte
(o potrebbero essere giustificate) è sospesa”, Habermas osserva, “uno è
confrontato direttamente con la alternativa di voltare verso l’agire
strategico, abbandonando la comunicazione completamente, oppure di ricominciare
l’agire diretto verso la comprensione reciproca a un altro livello, il livello
del discorso argomentativo (con l’intenzione di esaminare discorsivamente le
asserzioni di validità problematiche, che sono adesso considerate ipotetiche)” (42) È nel momento in cui
scegliamo di passare al livello del discorso argomentativo quando il retroterra
di consenso delle nostre pratiche comunicative si incrina che abbracciamo
pienamente la razionalità caratteristica dell’azione comunicativa, perché è in
questi casi che ci volgiamo a considerare criticamente le ragioni in favore
delle nostre, altrui o ipotetiche posizioni con lo scopo di risolvere il
conflitto tra credenze e azioni diverse per via consensuale. Come Habermas
afferma, “la razionalità propria alla pratica comunicativa di tutti i giorni” punta
alla pratica argomentativa come alla corte di appello che rende possibile di
continuare l’azione comunicativa con altri mezzi quando i disaccordi non
possono più essere aggiustati per mezzo della routine quotidiana e tuttavia non
possono essere risolti con l’uso diretto o strategico della forza. (43) Sottostante
il concetto di ‘razionalità comunicativa’ vi e’, dunque, “l’esperienza della
forza del discorso argomentativo che unifica senza coercizione e promuove il
consenso.” (44) È in questa esperienza della razionalità discorsiva,
inerente ai processi linguistici volti a raggiungere reciproca comprensione, ed
esplicitamente manifesta nelle nostre pratiche argomentative, che Habermas
ritiene possiamo trovare le risorse per una giustificazione
pragmatico-trascendentale dell’etica liberale. Per Habermas “l’etica filosofica
può assumere la forma di una speciale teoria dell’argomentazione”; (45) infatti la forma di una
analisi dei presupposti pragmatici del discorso argomentativo. Per
capire come Habermas ritenga possibile derivare i principi del liberalismo da
una tale analisi è sufficiente tener presente che la sua analisi dei
presupposti di un felice agire comunicativo punta verso la considerazione che
“chiunque si impegni seriamente in un’argomentazione…deve fare l’assunzione
pragmatica che egli permetterà i suoi ‘si’ e ‘no’ di essere influenzati solo
dalla forza della ragione migliore”; che in altri termini significa che egli
“deve presupporre che il contesto della discussione garantisce in principio
l’assenza di coercizione nell’adottare posizioni, e così via.” (46). Da questa considerazione il principio centrale del liberalismo,
designato “ad escludere come non valida qualsiasi norma che non può ricevere
l’assenso qualificato di tutti quelli che ne subiscono o ne possono subire le
conseguenze” (47), segue come una regola argomentativa. Poiché, Se
qualcuno che si impegna in una corrispondente pratica argomentativa deve fare
le assunzioni idealizzanti del tipo indicato, allora segue dal contenuto di
queste assunzioni di razionalità (apertura, uguali diritti, sincerità e assenza
di coercizione) che, finché il suo solo scopo è quello di giustificare delle
norme, uno deve accettare condizioni procedurali che implicitamente ammontano
al riconoscimento di una regola di argomentazione, (U): ‘Ogni norma valida deve
soddisfare la condizione che le conseguenze e gli effetti collaterali che
influenzano la soddisfazione degli interessi di ognuno, che anticipatamente possono essere calcolate seguire dalla
sua generale accettazione, possano essere liberamente accettati da tutte le persone che ne subiscono gli
effetti (ed essere preferite a quelle di cui si conoscono le possibili
alternative) (48). Il punto
che Habermas vuole fare è che, “in virtù delle assunzioni idealizzanti che ognuno che si impegna in discorsi argomentativi
deve fare come dato di fatto, il
discorso razionale può giocare il ruolo di una procedura che spiega il punto di
vista morale.” (49) Tuttavia, bisogna notare come l’analisi offerta da Habermas
della struttura e delle precondizioni pragmatiche dell’argomentazione
razionale, al contrario per esempio dell’analisi che Rawls offre dello stesso
punto di vista liberale, prima attraverso la costruzione della ‘posizione
originale’ e successivamente attraverso l’idea di ‘ragione pubblica’(50), intende essere non solo
una spiegazione, ma anche, e
soprattutto, una giustificazione di
quel punto di vista. Habermas
segue infatti il progetto neo-kantiano di Karl-Otto Apel di costruire una
giustificazione pragmatico-trascendentale dei principi e delle pratiche
liberali. Questo progetto è incentrato su un’analisi delle contraddizioni
performative volta a dimostrare allo scettico morale che, non appena egli si
impegna nella difesa argomentativa della sua affermazione dell’impossibilità di
fondare principi etici, si sta già contraddicendo perché deve inevitabilmente
accettare le presupposizioni pragmatiche del discorso argomentativo, e queste
coincidono con l’impegno morale verso una ‘comunità comunicativa non
ristretta’, i.e. l’impegno liberale verso il rispetto di pratiche di
deliberazione pubblica libere e giuste. La forza
giustificatoria del programma filosofico di giustificazione dell’etica liberale
di Habermas (e di Apel) – che egli chiama “etica del discorso” – risiederebbe
così nel fatto che le presupposizioni dell’argomentazione razionale espresse
nella regola argomentativa (U) “non sono una questione di mera convenzione,
piuttosto esse sono presupposizioni ineluttabili” (51), appartengono, come Apel
osserva, “a quelle presupposizioni pragmatico-trascendentali
dell’argomentazione che uno deve
sempre (già) avere accettato, se il gioco linguistico dell’argomentazione vuole
avere significato.” (52) Ovvero, il terreno giustificatorio dell’’etica del
discorso’ consisterebbe nella considerazione che “ogni argomentazione, a
prescindere dal conteso in cui ha luogo, poggia su presupposizioni pragmatiche
dal cui contenuto proposizionale il principio dell’universalismo (U) può essere
derivato.” (53) Questa
giustificazione ovviamente funzionerebbe soltanto se si potesse mostrare che
l’azione comunicativa è una presupposizione
ineluttabile e universale di ogni tipo di azione in cui noi potremmo
essere coinvolti; cioè, che qualsiasi
cosa noi potremmo fare saremo sempre
già coinvolti in atti di comprensione reciproca basata sullo scambio di
ragioni. Tuttavia, questo è esattamente ciò che Habermas manca di mostrarci, e
mancando di mostrare che l’azione comunicativa è ‘il tipo fondamentale di
azione’(54) egli compromette sin dall’inizio il suo progetto di
giustificazione dei principi e delle pratiche liberali con una evidente
circolarità. Infatti,
se possiamo ricorrere a forme di comportamento sociale differente dall’agire
comunicativo, allora, non importa quanto profondamente i principi di una etica
democratica e pluralista della conversazione che rispetti i diritti di tutti
all’uguaglianza e alla libertà siano incorporati in tali pratiche comunicative,
nessuna analisi delle presupposizioni pragmatiche di queste pratiche potrà mai
dimostrare che abbiamo l’obbligo di rispettare i principi dell’etica liberale
esemplificati dalla regola argomentativa (U) a pena di cadere in contraddizione
perfomativa. Come Habermas
stesso osserva, “la delineazione di un oggetto di studio non deve presupporre
in partenza il contenuto normativo delle sue presupposizioni, altrimenti si
sarà colpevoli di una petitio principi.” (55) Tuttavia, egli è colpevole
esattamente di una tale demarcazione pregiudiziale dell’oggetto della sua
indagine. In particolare, egli crea l’illusione che una tale petitio principi possa essere evitata
attraverso l’identificazione dei processi di comprensione reciproca, in cui gli
esseri umani si trovano immersi non appena iniziano a essere introdotti alla
cultura e al linguaggio delle loro comunità, con i processi di raggiungere un
consenso attraverso il discorso razionale, i quali hanno luogo soltanto quando
il retroterra consensuale di una comunità comunicativa si rompe; quindi
surrettiziamente attribuendo le presupposizioni pragmatiche e normative di
quest’ultimi processi, contingenti e opzionali, ai primi processi, universali e imprescindibili. È vero
che egli pensa che questa identificazione, e quindi l’asserzione
dell’universalità e ineluttabilità dei principi e dei valori liberali, è
legittimata dalla svolta epistemica nella teoria del significato, in quanto
questa ci mostrerebbe che negli atti orientati verso la comprensione reciproca
è già contenuta in nuce la struttura
pragmatica e normativa del discorso argomentativo. Ma è proprio in questa
convinzione che si trova la fallacia nella sua argomentazione, poiché il fatto
che questioni di significato siano connesse a questioni di validità, che
capiamo un atto linguistico quando comprendiamo le sue condizioni di verità,
non mostra che la riuscita delle nostre pratiche comunicative poggia sul
consenso tra noi e i nostri interlocutori su tutte, o gran parte delle
asserzioni di validità sollevati, e tanto meno mostra che siamo obbligati a
tentare di raggiungere un tale consenso contando soltanto sulla forza della
ragione migliore. Questa distanza tra ‘comprensione’ e ‘consenso’ è dove il
tentativo di giustificazione pragmatico-trascendentale di Habermas cade, poiché
comporta che non vi sia nessuno obbligo di impegnarsi a raggiungere un consenso
razionale inerente alla fatto che siamo utenti di pratiche linguistiche. Significativamente,
Habermas ha implicitamente ammesso questa mancanza di obbligazione morale nel
momento in cui osserva che quando il retroterra di consenso sottostante le
nostre pratiche comunicative quotidiane si sgretola siamo confrontati con una
situazione aperta in cui possiamo scegliere di ricorrere al discorso razionale
– i.e. a un etica del discorso volta a cercare di risolvere il dissenso
rispettando la libertà e l’uguaglianza di ognuno – così come a un azione
strategica diretta a influenzare gli altri in vista dei nostri piani personali.
Egli però non realizza che questa ammonta a una ammissione del fatto che, anche
se è vero che dobbiamo sempre già presupporre un’etica liberale appena
ci impegniamo nel discorso argomentativo,
non significa che cadiamo in una contraddizione performativa se non ci
impegniamo in una tale etica del discorso. Infatti rimane sempre aperta la possibilità di non passare al livello argomentativo. La
giustificazione pragmatico-trascendentale dell’etica liberale del discorso di
Habermas si scontra dunque nelle stesse difficoltà in cui abbiamo visto
scontrarsi la giustificazione presupposizionale del diritto alla libertà e al
benessere tentata da Gewirth. Infatti la sua riuscita dipende dallo status
trascendentale dell’agire comunicativo esattamente come il successo del
tentativo fondazionale di Gewirth dipende dallo status di ‘diritto’ dell’agire
teleologico. Ed entrambi non fanno che assumere questa premessa fondamentale
del loro argomento senza essere capaci di darne una giustificazione non
circolare. Al fine
di gettare ulteriore luce sull’inevitabile etnocentrismo contro cui l’’etica
del discorso’ di Habermas si scontra possiamo commentare la sua affermazione
che: si
possono dimostrare contraddizioni performative nelle asserzioni di un
proponente che tenta di giustificare la proposizione seguente: ‘Avendo
escluso le persone A, B, C,…dalla discussione azzittendole o imponendo loro la
nostra interpretazione, siamo riusciti a convincerci che N è giustificato. (56) Una
contraddizione può qui veramente essere derivata dal significato di
“raggiungere la convinzione che X”, ma soltanto se in partenza abbiamo preso
questa espressione riferirsi a ‘raggiungere una convinzione razionale’ nel
senso di raggiungere una convinzione soltanto attraverso la valutazione aperta
ed equa delle ragioni disponibili. Ma questa osservazione grammaticale, interna
come è ad una tale particolare pratica giustificatoria, di per se stessa non solo non ci dice che dobbiamo intendere “raggiungere la convinzione che X” in questo
senso, e quindi che dobbiamo accettare tale particolare pratica liberale di
argomentazione razionale, ma è anche totalmente irrilevante per la questione
fondazionale di stabilire le pratiche corrette da perseguire e appoggiare per
creare una società giusta. Ovvero, non ci dice nemmeno che dobbiamo modellare
le nostre società secondo tali processi liberali di deliberazione comune. Il punto
che voglio fare è che, anche se vi è contraddizione nell’accettare le pratiche
discorsive basate esclusivamente sulla forza delle nostre ragioni e allo stesso
tempo comportarsi illiberalmente, non vi è a
priori contraddizione nel caso di qualcuno che si comportasse
illiberalmente, che affermasse per esempio che escludendo A, B, C,… si è
riusciti a realizzare le condizioni per una società giusta. Questo perché la
questione che deve essere determinata prima di poter imputare una
contraddizione in questo caso è il significato dell’espressione “società
giusta” – e.g. se dobbiamo impegnarci
in pratiche discorsive non distorte oppure no. Questa è la questione rilevante da definirsi per poter affermare di
aver fondato principi morali, e non quella del significato di “convinzione
razionale” o “consenso razionale”. E, ovviamente, sarebbe da definirsi in
maniera assoluta; si dovrebbe mostrare che “giustizia” non può significare
nient’altro che quello che noi
intendiamo per essa. In
particolare, se noi crediamo fermamente nella superiorità della nostra
concezione di giustizia, qualsiasi essa sia, non c’è nessuna ragione per cui
non dovremmo ignorare, o anche provare di neutralizzare attraverso mezzi più o
meno intrusivi e oppressivi, altri punti di vista. Questo potrebbe anzi essere
per noi la cosa corretta, razionale,
da fare. L’unica ragione per cui dovremmo evitare un tale comportamento
intrusivo a pena di contraddizione o irrazionalità consisterebbe nel fatto che
siamo noi stessi impegnati in un’etica liberale della deliberazione pubblica.
Ma che dobbiamo affermare un tale
punto di vista morale è esattamente quello che ‘l’etica del discorso’ di
Habermas intendeva dimostrarci; e ovviamente egli non può fare questo
osservando tautologicamente che da una prospettiva liberale del discorso
pubblico ci contraddiremo se ci comportassimo in maniera illiberale. In ultima
istanza non vi è contraddizione nel contravvenire al principio argomentativo
liberale (U) perché non è un fatto di ragione a priori che “solo quelle norme sono valide che esprimono un
interesse comune a tutti quelli che ne subiscono le conseguenze.” (57) Questo è vero solo per chi
crede in un’etica liberale della conversazione e di convivenza, ma ancora una
volta, che dobbiamo essere liberali è
esattamente quello che è in questione. Certamente
Habermas potrebbe dire che la sua derivazione della regola (U) non è
pregiudicata dal fatto che la concezione di validità normativa a cui egli si
appella coincide con lo stesso principio morale che la sua etica del discorso
vuole giustificare, perché quella concezione è intuitiva, nel senso di intuitivamente vera. Tuttavia se la forza della
sua giustificazione pragmatico-trascendentale risiede nel carattere intuitivo
della concezione liberale della validità normativa, egli dovrebbe allora
mostrarci la validità di tale intuizione liberale, dovrebbe mostrarci che “(U)
[non] rappresenta una generalizzazione di intuizioni morali peculiari alla
nostra cultura occidentale.” Ma ancora una volta questo è quello che la
giustificazione trascendentale di (U) doveva mostrarci. (58) E perciò
mia convinzione che l’etica del discorso di Habermas non riesce a offrirci
niente di più di quello che, come egli polemicamente riconosce, filosofi
anti-fondazionalisti come Rawls e Rorty si accontentano di offrirci, ovvero una
ricostruzione delle intuizioni morali pre-teoriche delle culture democratiche e
pluraliste occidentali. Habermas
è insoddisfatto da questo approccio etnocentrico perché, da tipico
fondazionalista, pensa che se non riusciamo a dimostrare “che il punto di vista
morale, come à espresso da (U), è generalmente valido e non esprime
semplicemente una orientazione culturalmente specifica”, allora “soccomberemo a
un relativismo che depriva i precetti morali del loro significato e le
obbligazioni morali della loro forza particolare.” (59) E tipicamente fondazionalista
è anche la giustificazione ultima a cui egli ricorre per non soccombere a tali
temute conseguenze. Egli infatti poggia la validità della sua derivazione
trascendentale su una concezione fondazionalista della verità e della
razionalità. Vale a
dire, Habermas sostiene che sia un’analisi dei concetti stessi di ‘verità’ e di
‘validità’ a mostrare che il principio morale (U) non esprime un’orientazione
culturalmente specifica. La validità di tale principio, in base al quale solo
quelle norme sono valide che godono dell’assenso non costretto di tutti quelli
che ne subiscono gli effetti, poggerebbe sul fatto epistemico che “asserzioni
valide devono ammettere la possibilità di essere giustificate per mezzo di
ragioni che potrebbero convincere chiunque a prescindere dal tempo e dal
luogo.” Cioè, la concezione liberale della validità normativa seguirebbe dal
fatto che essa “articola una nozione di trascendenza o di auto-superamento che
è già contenuta nelle asserzioni di validità enunciative.” (60) Questa
ulteriore mossa ci riporta alla nostra iniziale discussione su quale concezione
della normatività sia più plausibile,
quella fondazionalista o quella anti-fondazionalista, facendoci entrare però in
complicate discussioni sul carattere trascendente delle nostre nozioni
normative, sul fatto che è sempre sensato dire di qualsiasi pratica o credenza s, per qualsiasi concezione y di qualsiasi nozione normativa x, “s
è y ma non è x” – per esempio “s è giustificato in base alle norme delle nostre
pratiche di giustificazione ma non è vero.” Ho già
spiegato perché ritengo plausibile una concezione anti-fondazionalista della
normatività e in particolare perché ritengo che abbandonare il progetto
fondazionalista non significhi condannare la nostre credenze e le nostre
pratiche al relativismo radicale che ne corrode la forza normativa. Per quanto
riguarda il carattere trascendente della normatività mi limito a ribadire ciò
che Putnam e Rorty hanno osservato, e cioè che riconoscere che le nozioni
normative sono irriducibili e che quindi trascendono ogni particolare
interpretazione che a ogni dato momento può venirne data non significa porre la
loro corretta interpretazione al di là del sistema di valori e credenze in cui
ci possiamo trovare. Rorty and Putnam danno un’alternativa lettura etnocentrica
della trascendenza della normatività. Prendendo la nozione di ‘verità’ come la
nostra nozione normativa paradigmatica, possiamo spiegare la loro
interpretazione della trascendenza della verità come consistente nel puntare
verso quello che, in base ai nostri punti
di vista attuali, consideriamo la pratica di giustificazione ideale. Questa
interpretazione ci permette di non recidere il legame tra la nozione di
‘verità’ e le nostre pratiche giustificatorie, legame che soltanto impedisce a
tale nozione di svuotarsi completamente di praticabilità e dunque di contenuto. Alla luce
di questa interpretazione etnocentrica l’etica liberale del discorso si libera
della portata cognitiva di cui era stata caricata da Habermas per rivelarsi nel
suo carattere squisitamente volitivo. Mentre Habermas afferma le procedure
democratiche di deliberazione pubblica perché le ritiene conduttive
“all’intuizione morale”
(61), all’oggettività intesa, non come imparzialità morale, ma
come l’ideale epistemico inscritto in una nozione di verità come corrispondenza
a una realtà al di là dello spazio e del tempo, gli anti-fondazionalisti
concepiscono l’oggettività come intersoggettività e affermano l’ideale della
comunicazione non distorta come un semplice ideale morale e politico, come il
modo migliore di arrivare a un accordo intersoggettivo. In
particolare, in base all’approccio anti-fondazionalista, quando posti di fronte
a pratiche di giustificazione conflittuali scegliamo di impegnarci in un etica
liberale della conversazione lo facciamo, non per scoprire la pratica razionale
da seguire aspettando, paradossalmente, di vedere quale pratica godrà
dell’assenso razionale di tutti (noi stessi inclusi), ma semplicemente per
risolvere un impasse pratico e politico, per il bisogno pratico e morale di
garantire eque e aperte condizioni di partecipazione al dibattito pubblico su
questioni di interesse generale. Ovvero, per gli anti-fondazionalisti il
problema posto dalla diversità e conflittualità dei punti di vista pone, come
ha ben osservato Ernst Tugendhat, “non un problema di giustificazione ma di partecipazione al potere, di chi deve
prendere la decisione su quello che è permesso e quello che non lo è. (62) Avendo
chiarificato il carattere volitivo dell’impegno morale secondo una prospettiva
anti-fondazionalista, e avendo ribadito la plausibilità di una tale
prospettiva, è giunto il momento di passare a rispondere più da vicino ad
alcune importanti critiche che sono state rivolte a un approccio
anti-fondazionalista alle pratiche e ai principi liberali. 4. La
plausibilità di un liberalismo anti-fondazionalista Un
approccio ai diritti e ai valori liberali che neghi la possibilità di raggiungere
il punto di vista dell’Occhio di Dio che ci permetterebbe di ottenere una
risoluzione dei contrasti indiscutibilmente giusta è stata l’oggetto di due
tipi di critiche a cui ogni serio tentativo di difendere una posizione liberale
anti-fondazionalista deve rispondere. Da una
parte vi è chi crede che tale negazione implichi l’affermazione
dell’impossibilità del progetto liberale. Dalla sinistra politica,
anti-fondazionalisti post-nietzscheani di eredità marxista come Michael
Foucault, Jacques Derrida e Francois Lyotard (e come M. Horkheimer e T.W.
Adorno prima di loro), hanno creduto che il fallimento del progetto
fondazionalista mostri come non sia possibile tracciare una distinzione netta
tra forza e persuasione razionale o una gerarchia precisa tra i diversi e
conflittuali diritti a cui ci appelliamo; come ogni tentativo di persuasione
razionale e di definizione di una gerarchia di diritti e valori sia
un’espressione mascherata di una volontà di potenza; e dunque che il progetto
liberale di creare una società che riconosca e rispetti il diritto alla libertà
e all’uguaglianza di tutti attraverso il mantenimento di condizioni non
distorte di deliberazione pubblica sia una chimera e un’altra mascherata
espressione di volontà di potenza. La loro tipica reazione alla perdita
dell’innocenza metafisica è di trarre dall’assenza di un linguaggio universale
con i suoi universali criteri di razionalità la conclusione che, se veramente
vogliamo fare valere i nostri interessi e bisogni, dobbiamo evitare di conformarci
agli standard delle pratiche e dei vocabolari ereditati o della cultura
dominante, in quanto questi sono espressione stessa degli interessi che negano
la nostra richiesta di riconoscimento. Per la stessa ragione dovremo evitare di
conformarci alla retorica riformista della tradizione liberale. (63) Similmente,
ma dal lato politico conservatore, intellettuali come Michael Sandel, Charles
Taylor e Alasdair Macintyre, ritengono che l’impossibilità di trascendere
l’intero insieme di valori e credenze che caratterizzano l’ambiente sociale al
quale apparteniamo mostri sia l’incoerenza della (pretesa) concezione liberale
della libertà come l’abilità dell’io
di staccarsi dalla totalità dei suoi tratti caratterizzanti, sia la collegata implausibilità
della (ancora pretesa) concezione liberale dello stato come neutrale nei
confronti di tutte le diverse
possibili concezioni del bene che i suoi membri possano affermare. La loro
tipica reazione all’impossibilità di trascendere completamente il nostro
retroterra culturale e’, spesso accompagnata da una ricaduta metafisica, quella
di pensare ai limiti dei nostri io come determinati dai limiti delle nostre
comunità e, conseguentemente, allo scopo della riflessione e della pratica
politica come quello di portare quei limiti alla coscienza pubblica e di
rispettarli fedelmente. Dall’altro
lato, fondazionalisti liberali di tradizione kantiana come Jürgen Habermas,
Karl-Otto Apel e Alan Gewirth, concordando con le critiche precedenti che
abbandonare la concezione metafisica della razionalità significherebbe
rinunciare alle speranze liberali, denunciano l’anti-fondazionalismo per
deprivare i nostri più cari ideali, e le pratiche e istituzioni che ci stanno
più a cuore, della loro base giustificatoria e quindi dell’unico loro strumento
di difesa contro tutti i tipi di minacce politiche e morali; e puntano al
pensiero anti-liberale di Nietzsche e agli argomenti anti-liberali dei filosofi
post-nietzscheani e comunitari come a una conferma dei loro timori. La loro
tipica reazione alle affermazioni dell’anti-fondazionalismo è dunque, come
abbiamo già avuto modo di vedere, una seria preoccupazione, e ritengono di
fondamentale importanza per la realizzazione degli ideali liberali mostrare
come questi, e le istituzioni politiche che li realizzano, siano fondati sulla
ragione. Questi
due diversi tipi di critiche rappresentano due lati della stessa medaglia.
Entrambi condividono la convinzione che il progetto politico dell’Illuminismo,
quello di creare una società di individui liberi e uguali liberandosi di
autorità e ineguaglianze ingiustificate, dipende strettamente dall’altro
progetto dell’Illuminismo, quello filosofico, erede della tradizione metafisica
classica in filosofia, di rompere l’inganno del pregiudizio e dell’errore
attraverso l’impiego disciplinato della Ragione. Richard
Rorty è il filosofo che più di ogni altro nel corso degli ultimi vent’anni ha
tentato di mostrare come i due progetti dell’Illuminismo sono ben distinti e
solo contingentemente legati; come, “abbandonare il razionalismo occidentale
non ha alcuna conseguenza politica scoraggiante. Lascia il progetto politico
dell’Illuminsmo valido come sempre è stato.” (64) Se approcciamo la questione da una prospettiva pragmatista,
con la sua convinzione che i nostri valori e progetti poggiano solo su loro
stessi senza alcun bisogno di un supporto filosofico, è infatti un breve passo
il riconoscimento che “la filosofia e la politica non sono così strettamente
legate”, che “ci sarà sempre spazio per una buona dose di disaccordo filosofico
tra persone che condividono le stesse simpatie politiche, e per posizioni
politiche diametricalmente opposte tra filosofi appartenenti alla stessa
scuola.” (65) Come
esempi di quest’ultimo caso Rorty indica Nietzsche e Heidegger da un versante
politico e Dewey e James dall’altro. Mentre la sfiducia dei due filosofi
pragmatisti americani verso il progetto metafisico era tanto forte quanto
quella dei due filosofi tedeschi, i primi abbracciavano le speranze liberali e
appoggiavano le istituzioni liberali che Nietzsche aveva denigrato come le
speranze e le istituzioni ‘dell’ultimo uomo’, l’uomo incapace di grandezza
individuale, e che Heidegger rigettò appoggiando il regime di Hitler. In questo
modo, continua Rorty, James e Dewey ci hanno mostrato che non vi è ragione per
cui gli anti-fondazionalisti dovrebbero prendere Nietzsche come il loro esempio
morale, nessuna ragione per cui essi non possano indignarsi moralmente contro manifestazioni
nazi-fasciste quanto ogni altra persona. Ci hanno mostrato, cioè, che possiamo
sostituire alla giustificazione fondazionalista “questo è ciò che Dio (o la
Natura, o la Ragione) mi detta” quella individualista nietszcheana “Così io
voglio”, così come quella etnocentrica liberale “Così noi, noi cittadini liberali di una comunità democratica, vogliamo.” (66) Questa
giustificazione etnocentrica delle pratiche liberali è tuttavia esattamente ciò
che le critiche al liberalismo anti-fondazionalista che stiamo considerando
mettono in questione. Per cominciare a darne una risposta, e quindi recidere il
legame contingente che unisce liberalismo e Illuminismo, possiamo notare come
queste critiche, assumendo la necessità di questo legame, rappresentano una
riedizione, nel particolare contesto di giustificare i diritti e i valori
liberali, delle due opposte posizioni nel più largo dibattito tra relativisti e
oggettivisti che abbiamo visto essere centrato nella convinzione che l’abbandono
del progetto fondazionalista risulterebbe nella dissoluzione della forza
normativa dei nostri valori e delle pratiche che le implementano. Ci possiamo
quindi aspettare che la risposta anti-fondazionalista liberale ai due tipi di
critiche in questione segua le linee dell’abbandono della dialettica tra
oggettivismo e relativismo. Possiamo
quindi cominciare a rispondere ribadendo, con Putnam, che “l’idea che la
filosofia morale sia impossibile senza una garanzia trascendentale che può
essere data solo se postuliamo una realtà noumenica è uno sbaglio” (67); e, con Rorty, che
possiamo ancora ritenere “un tipo di speranza che non richiede il sostegno
dell’‘idea di un soggetto trascendentale e durevole’.” (68) Bisogna insistere che
rinunciare alla possibilità di poter assegnare un contenuto fondazionale ai
concetti di ‘razionalità’ e ‘natura umana’ che ci possa garantire in maniera
assoluta la superiorità dei diritti e dei valori liberali non significa dover
rinunciare agli ideali e alle pratiche con cui ci identifichiamo. In
particolare non significa dover rinunciare al rispetto della dignità altrui –
e.g. non ci depriva della facoltà di dare ragioni per le nostre convinzioni e
azioni, di evitare l’uso gratuito e oppressivo della forza o di essere aperti e
tolleranti verso le opinioni e le pratiche degli altri – e neppure significa
ammettere la nostra impotenza di fronte a manifestazioni illiberali – i.e. una
coscienza anti-fondazionalista non ci depriva della capacità di indignarci di
fronte a soprusi dei diritti umani e dei valori liberali in generali, né ci
impedisce di prendere le misure che consideriamo necessarie per ovviare o porre
riparo a tali soprusi. Anche se non possiamo realizzare il sogno
filosofico dell’Illuminismo non significa che non possiamo fare del sogno
liberale Illuministico un ideale effettivo
ed efficacie verso il quale condurre
le nostre pratiche. Non significa che non possiamo fare il nostro meglio per
superare situazioni conflittuali in cui ognuno è sordo ai bisogni e agli
interessi dell’altro e porta avanti ciecamente la sua volontà di potenza; che
non possiamo o dobbiamo provare a creare condizioni più uguali e libere di
coabitazione e conversazione pacifica tra diversi punti di vista e modi di
vita. È vero che in base alla prospettiva anti-fondazionalista possiamo fare
questo soltanto appellandoci, caso per caso, alle nostre migliori,
etnocentriche e sempre rivedibili credenze e intuizioni su quelle che vanno
considerate come condizioni libere e uguali di convivenza e cooperazione, su
dove tracciare la linea di demarcazione tra forza e persuasione razionale e su
quali siano i valori e i diritti cui va data priorità. Tuttavia il fatto che
non vi sia una netta demarcazione tra forza e persuasione e una precisa
gerarchizzazione tra diritti e valori tracciate nel cielo, che la realizzazione
degli ideali liberali sia difficile, lenta, e plausibilmente senza fine, non
sveste di significato il nostro impegno politico e morale, ne mostra, come osserva
Putnam, che non possiamo “provare a riformare e migliorare i nostri modi di
vita, così come provarne di nuovi se li riteniamo migliori.” (69) Anzi è vero il contrario. Riconoscendo
la nostra imprescindibile condizione etnocentrica, il ruolo cruciale giocato
dalle nostre impostazioni valutative di base nella formazione e approvazione
delle credenze che sosteniamo e delle pratiche in cui siamo impegnati,
facilitiamo l’attività della critica costruttiva delle situazioni attuali che è
un momento essenziale per il progresso sociale. Infatti adesso possiamo
ridirigere la nostra attenzione da questioni insolubili concernenti le
fondamenta epistemiche delle nostre azioni e credenze ai modi concreti, seppure
difficili, in cui potremo mai essere capaci di cambiare e migliorare le nostre
pratiche e noi stessi. Vale a dire, l’onesta e attenta riflessione
sull’adeguatezza delle nostre teorie e pratiche alla luce dei nostri valori e
delle nostre credenze fondamentali, sulla reciproca coerenza e priorità tra
queste nostre assunzioni fondamentali o la eventuale opportunità di scartarne o
sostituirne qualcuna, e sulla sincerità e forza del nostro impegno verso la
creazione di condizioni di vita migliori. In particolare la svolta etnocentrica
ci permette di ridirigere la nostra attenzione alle urgenti questioni politico
e morali di come ovviare agli attuali soprusi di quelli che consideriamo i
diritti fondamentali – per esempio alle attuali istanze di ineguaglianza
politica e sociale, di coercizione e di distorsione della discussione pubblica
– e di come realizzare concretamente i valori e gli ideali liberali di libertà,
di uguaglianza e di dignità umana. (70) Ho
parlato di ‘diritti umani’, di ‘valori e ideali liberali’, di ‘libertà,
uguaglianza e dignità umana’
come se fossero concetti chiari che godono di ampio consenso tra chi riconosce
in essi i propri ideali. Questa assunzione, oltre a contraddire la storia del
pensiero liberale come la ho brevemente descritta nella sezione iniziale,
contraddirebbe la mia impostazione anti-fondazionalista e confermerebbe dopo
tutto le critiche comunitarie e nietzcheane incentrate sulla convinzione che il
progetto liberale si regge su quello fondazionalista e per questo deve essere
abbandonato. Ma un approccio anti-fondazionalista ai diritti e valori liberali
non ha bisogno di fare questa assunzione. Un tale
approccio non ha problemi a riconoscere che non vi è un consenso, neanche tra chi si proclama
appartenente alla tradizione liberale, sul contenuto dei valori e dei diritti
caratterizzanti tale tradizione e sul tipo di istituzioni e procedure pubbliche
che dovrebbero implementarli, e quindi neanche su quali pratiche debbano essere
considerate un serio pericolo per il rispetto della libertà, dell’uguaglianza e
dei diritti umani. Perché il fatto che non saremo mai capaci di raggiungere un
consenso sull’interpretazione e l’applicazione di questi valori, diritti,
istituzioni e procedure non fa niente per svuotare di senso il nostro sforzo politico
e morale di creare le condizioni per una società migliore, una società che
rispetti quello che noi pensiamo sia
l’interpretazione migliore della libertà, dell’uguaglianza e dei diritti umani.
Possiamo sempre poggiare sui nostri particolari, anche se differenti, e spesso
conflittuali, valori e punti di vista in base ai quali continuiamo a
distinguere tra vero e falso, giusto e sbagliato, forza e persuasione ecc., e
questo è tutto quello di cui abbiamo bisogno, oltre a essere tutto quello di
cui possiamo disporre, per dare la forma che riteniamo migliore alle nostre
società e alle nostre esistenze in esse. Per di
più, questo dibattito continuo, e plausibilmente senza fine, sulla giusta
interpretazione e applicazione dei valori e dei diritti liberali è una
caratteristica essenziale di una sana società liberale
così come la leggo io, i.e. una
società centrata sul valore
dell’apertura permanente della deliberazione pubblica. Non vi è semplicemente alcun modo di uscire da questo
dibattito se vogliamo rimanere fedeli ai valori della libertà e dell’uguaglianza. Infatti, data la pluralità dei punti di vista sul modo migliore di dare un
contenuto ai valori e ai diritti liberali, e alle istituzioni e pratiche che li
implentino, è essenziale che venga mantenuta aperta la discussione pubblica sui
valori e le istituzioni fondamentali delle nostre società. Altrimenti rischiamo
di scivolare in società più oppressive e ingiuste di quelle in cui
realisticamente ci sarebbe possibile vivere; rischiamo che legittime richieste
di libertà e uguaglianza e di riconoscimento di diritti fondamentali rimangano
inascoltate e insoddisfatte. Queste
ultime considerazioni ci introducono alla questione della desiderabilità di un approccio anti-fondazionalista ai principi e
alle pratiche liberali. Prima di sviluppare questa seconda parte della mia tesi
iniziale voglio però rendere
più esplicita la risposta alle critiche anti-fondazionaliste anti-liberali
contenuta nelle osservazioni che ho appena fatto. Queste ci
mostrano come una cultura dedicata a promuovere e garantire la libertà e
l’uguaglianza di tutti non debba identificarsi con l’ideale anarchico del
rifiuto di rigettare ogni possibile pratica o punto di vista, né con il rispettivo ideale epistemologico di
raggiungere la prospettiva di osservazione privilegiata che soltanto ci renderebbe capaci di essere neutrali verso tutte le possibile particolari concezioni e pratiche morali, e
neppure con l’ideale metafisico individualista di un io completamente
svincolato dai nostri valori e dalle nostre credenze e moralmente autonomo al
di fuori di qualsiasi contesto sociale. Il fatto
che non possiamo che poggiare su qualche insieme di valori e credenze per poter
essere capaci di pensare e di agire mostra al contrario come, almeno alla luce
di un approccio anti-fondazionalista, una cultura liberale non debba evitare di
affermare una particolare posizione politica e morale e di impegnarsi nella sua
realizzazione. Un tale approccio ci mostra come la difesa dei valori e dei
diritti liberali non debba coincidere con la difesa di uno stato neutrale verso
tutte le posizioni; come il progetto liberale non debba avere problemi a
riconoscersi come un espressione di una particolare volontà di potenza tra le altre, e a riconoscere alla sua
base una particolare concezione della persona e del bene comune tra le altre.
Ci mostra anzi come una cultura liberale deve semplicemente essere dedita alla
realizzazione del suo progetto, della sua volontà di
creare una società che rispetti i diritti fondamentali dei suoi diversi membri,
non distorte relazioni di potere tra di loro, e la loro libertà di scegliere e rivedere i loro progetti di vita,
inclusi i loro progetti politici di vita comune; una società di persone che
vedono come il loro bene comune, costitutivo delle loro identità, la creazione e il mantenimento di condizioni
libere e eque di coabitazione e discussione che tutti possano ragionevolmente
accettare. Dobbiamo
ribadire tuttavia che il fatto che il progetto liberale deve essere considerato
come un particolare progetto morale e politico tra gli altri non contraddice
l’ideale liberale di creare una società pluralista e
anti-autoritaria. Il punto cruciale, sottolineato più volte sia da Rorty che da
Putnam, è che il riconoscimento della nostra inevitabile condizione
etnocentrica, del fatto che “ci sono tanti punti di vista che non possiamo
prendere in seria considerazione” (71) e non “scartare come sbagliati, infantili, malvagi, o
parziali” (72), non comporta riconoscere il fallimento degli ideali
liberali o l’ineluttabilità di
comportamenti viziosi e illiberali. Non comporta che non possiamo provare a
essere tolleranti verso posizioni diverse dalle nostre, provare ad ascoltare
seriamente le loro ragioni, guardare le cose dal loro punto di vista e trarre
lezioni dai loro insegnamenti evitando di imporre sordamente i nostri valori e
interessi. Il progetto liberale dovrà solo
opporsi, come ogni progetto che miri alla propria realizzazione, a quelle
pratiche e a quegli ideali che minacciano seriamente la sua stessa
realizzazione. 5. La
desiderabilità di un liberalismo anti-fondazionalista 5.1. La
desiderabilità di una concezione anti-fondazionalista della
normatività Le mie
osservazioni precedenti hanno già mostrato
come ritengo che un approccio anti-fondazionalista alla normatività sia generalmente desiderabile, in quanto non solo
ci permette di evitare di rimanere impantanati in interminabili, e spesso
sterili, questioni metafisiche ed epistemologiche, ma soprattutto, facendo
volgere la nostra attenzione alle assunzioni fondamentali e solitamente
nascoste alla base delle teorie e delle pratiche con le quali diamo senso al
mondo circostante e contribuiamo a darne forma, ci permette di essere più
onesti, più assertivi e più efficaci nell’affrontare le situazioni
problematiche in cui ci possiamo trovare. Più onesti perché, riconoscendo la
circolarità ultima delle nostre
giustificazioni non possiamo più pretendere che i nostri valori e le nostre
credenze, le nostre tradizioni e le nostre pratiche, godano di una legittimità più degna di rispetto di quella che gli
conferiscono i nostri apprezzamenti etnocentrici, per esempio quella che gli
potrebbe conferire Dio, la Natura o la Ragione. Più assertivi perché, per questa stessa ragione, giungiamo a realizzare
che le norme cui aderiamo non possono che essere il frutto delle nostre più o meno consapevoli, ma sempre
circolari, decisioni, e per questo sempre aperte a essere modificate come
riteniamo più opportuno. Più efficaci
perché adesso, avendo spostato l’attenzione critica sulle assunzioni
fondamentali che danno forma alle nostre tradizioni di pensiero e alle nostre
pratiche, possiamo lavorare in diretto contatto con la sorgente delle
difficoltà che incontriamo e con i modi effettivi con cui poterle risolvere,
vale a dire le nostre impostazioni di valore verso il mondo e gli altri. In
particolare, una concezione etnocentrica della normatività, facendoci prendere coscienza della natura voltiva
dei problemi concernenti la realizzazione dei nostri ideali morali e politici
ci permette di ovviare alla strumentalizzazione di argomenti epistemologici da
parte di stati e comunità
refrattarie al rispetto e all’implementazione del diritto internazionale per
giustificare certe loro politiche e pratiche illiberali e oppressive. Intendo,
per esempio, la strumentalizzazione della concezione fondazionalista della
validità per giustificare politiche totalitarie e imperialiste, così come la
strumentalizzazione delle tesi relativiste per giustificare infrazioni ai
diritti umani riconosciuti dai trattati internazionali. Una volta
riconosciuta la base volitiva del nostro pensiero e delle nostre pratiche
saremo infatti sospettosi verso chi giustifica le sue scelte politiche e morali
in termini di validità epistemica, fondazionalisticamente come le scelte corrette e quindi proclamando
il diritto, se non il dovere, di imporle, o relativisticamente come legittimità a scegliere ciò che ogni cultura ritiene giusto e quindi proclamando il diritto alla
non interferenza. Cercheremo invece di andare oltre a queste giustificazioni
per scoprire i motivi e gli interessi reali sottostanti a tali scelte e così
valutarne la legittimità morale e
politica, ovviamente secondo i nostri criteri di legittimità. In base
alla prospettiva liberale a cui vanno le mie simpatie, per esempio, a chi
giustifica le proprie scelte politiche appellandosi alla forza della tradizione
culturale si chiederà di
mostrarci che veramente tali scelte rispettino la libertà e l’uguaglianza di
tutte le persone che ne subiscono le conseguenze. Si chiederà che ci venga mostrato che la cultura della comunità di cui si difende il diritto all’indipendenza da
interferenze esterne, comprese quelle volte all’implementazione dei valori e
dei diritti liberali, sia veramente rappresentativa di tutti i membri che
subiscono le conseguenze delle scelte politiche che vengono giustificate
appellandosi al relativismo culturale. Avremo
così modo di vedere, per esempio, se chi difende il principio della sovranità statale e del non-intervento appellandosi a tesi
relativiste voglia difendere, non l’autonomia di un popolo secondo il principio
liberale dell’autodeterminazione, ma un regime repressivo le cui pratiche non
hanno nulla a che vedere con la cultura indigena e locale cui si appella per
giustificarle ma solo con gli interessi personali di una elite dirigente, e
quindi, come osserva Adamantia Pollis, “strumentalizzi il linguaggio del
relativismo culturale per giustificare e razionalizzare le sue azioni
repressive.” (73) Avremo modo di stabilire, similmente, come Karen Miller ha
illustrato in uno studio sulle donne iraniane che mette in luce come le donne
non hanno preso parte nel determinare la cultura dominante perché
tradizionalmente escluse dal potere decisionale, se “nel rigettare le pretese
dell’universalismo, le pretese relativiste non fanno che perpetuare le pratiche
tradizionali” (74), proteggendole da possibili critiche e revisioni. Se queste
eventualità risultassero essere il
caso non vi è ragione per cui non si
potrebbe intervenire negli affari interni di uno stato – o di un qualsiasi
comunità –, anche se gli standard
di adeguatezza morale e politica a cui si fa appello per giustificare tale
intervento – come per esempio quelli ampiamente accettati dalla comunità internazionale espressi dalla Dichiarazione
Universale dei Diritti dell’Uomo e dalle due Convenzioni sui diritti civili e
politici e sui diritti economici, sociali e culturali – non possono essere
giustificati non circolarmente. Bisogna
insistere contro i difensori fondazionalisti del liberalismo che riconoscere
l’impossibilità di stabilire universalmente la validità dei valori e dei
diritti liberali non significa deprivarne della loro universalità normativa o negare la possibilità di
implementarli universalmente, in quanto la neutralità metafisica non implica la
neutralità normativa. Bisogna insistere che prendere consapevolezza della
nostra condizione etnocentrica non ci depriva delle difese contro quelle che
riteniamo minacce verso i nostri valori e le nostre pratiche più care, né rende le nostre difese di queste pratiche e valori,
come crede Richard Wilson, ‘una macchina senza cinture che al primo ostacolo
morale mette a repentaglio la sicurezza dei passengeri’(75), ma ci fa soltanto
realizzare che, come osserva Rorty, non c’è modo di sconfiggere razionalmente i totalitari
appellandosi a premesse comuni condivise, e non c’è alcun punto nel pretendere che una comune natura
umana faccia incoscientemente sostenere ai totalitari queste premesse. (76) Le stesse
virtú politiche e morali di un
approccio anti-fondazionalista alla normatività le si
possono osservare prendendo in considerazione l’uso strategico del discorso
fondazionalista. Infatti, riconoscere la base volitiva del nostro impegno
morale e politico, come ci può aiutare
a svestire politiche conservative e oppressive dalla retorica relativista
utilizzata per giustificarle, ci può aiutare
a svestire simili politiche dalla retorica fondazionalista della necessità
morale e quindi individuare le motivazioni e gli interessi nascosti. In questo
modo riusciremo a salvare i principi liberali e dei diritti umani dal
discredito morale in cui possono essere gettati da chi, avendo tutti gli
interessi a non doverli rispettare, utilizza strumentalmente contro di essi la
critica che si può muovere soltanto ai fondamentalismi liberali o
alle strumentalizzazioni liberali. La critica che, per esempio, A. Aldeeb solleva
riflettendo sul dialogo conflittuale sui diritti umani tra il mondo islamico e
quello occidentale, ovvero che in realtà “i
diritti umani sono usati come uno strumento politico e niente affatto come una
garanzia per il rispetto dei diritti umani.” (77) Su quest’ultimo punto Bartolomeo Conti osserva
correttamente che è improbabile che l’universalità dei diritti umani potrà mostrare la sua forza [morale] tra le culture del
terzo mondo finché rimangono una parte
integrale di una strategia per il dominio politico, economico e culturale
dell’Occidente, usati come una scusa per intervenire e interferire in altri
paesi. (78) Una
concezione anti-fondazionalista e deliberativa della razionalità ci permette dunque di allentare le tensioni che si
stanno acutizzando a conseguenza dei processi di globalizzazione tra le pretese
universalistiche dei principi e dei valori sottostanti il discorso della
democrazia e dei diritti umani e le crescenti richieste particolaristiche di
riconoscimento provenienti da diversi gruppi culturali. Ci permette di uscire
da quello che Seyla Benhabib ha approriatamente chiamato ‘lo Scilla della
criminalizzazione e repressione delle prartiche di comunità culturali
minoritarie e il Cariddi della tolleranza multiculturale indiscriminata’(79), aprendo le democrazie
contemporanee a modelli più flessibili di governo e di convivenza. 5.2. La
desiderabilità di un
approccio anti-fondazionalista da un punto di vista liberale È proprio
riflettendo sulle tendenze fondamentaliste interne alla tradizione liberale che
possiamo giungere ad apprezzare la desiderabilità di un
approccio anti-fondazionalista ai diritti umani e ai valori liberali in
generale, a confronto di uno fondazionalista. È mia convinzione infatti che una
coscienza anti-fondazionalista è la più consona a una autentica affermazione
dei principi e delle pratiche della tradizione liberale. La
considerazione principale dietro a questa affermazione è che, come Putnam e
Rorty rispettivamente osservano, “il desiderio di assolutezza porta al monismo” (80), e che
“è difficile essere sia incantati con una visione del mondo e tolleranti verso
le altre.” (81) Vale a dire, è un breve passo
dal fondazionalismo al fondamentalismo,
e il fondamentalismo è incompatibile con l’impegno liberale di mantenere
condizioni libere e eque di deliberazione collettiva tra persone ritenute
libere di formare, rivedere e perseguire qualsiasi progetto di vita compatibile
con la stessa libertà degli altri. La
considerazione su cui voglio insistere è che solo una concezione
anti-fondazionalista della razionalità può rendere possibile la piena
realizzazione della concezione deliberativa del liberalismo. Non voglio
sostenere che l’anti-fondazionalismo coincide con il liberalismo. Non vi è
infatti niente di incoerente nell’essere anti-fondazionalisti e allo stesso
tempo conservatori, intolleranti o totalitari. L’anti-fondazionalismo non esprime alcuna posizione morale, consiste soltanto
in una particolare concezione della giustificazione. Tuttavia,
l’anti-fondazionalismo è particolarmente adatto a una cultura liberale e dei
diritti umani perché, localizzando la sorgente dell’autorità normativa nelle diverse norme contingenti che
regolano le nostre pratiche, e negando che una qualche pratica ha un privilegio
assoluto nei confronti delle altre, rende possibile la realizzazione
dell’ideale liberale anti-autoritario e progressista di rimuovere tutti gli
ostacoli alla libera discussione delle opinioni e delle istituzioni ricevute e
all’equa considerazione dei punti di vista e dei bisogni di tutti. Il
fondazionalismo, invece, con la sua idea che vi è una particolare punto di
vista che si staglia da tutti gli altri, a cui dovrebbe essere data autorità indiscussa per la sua corrispondenza con l’ordine
metafisico del mondo, tende a compromettere la realizzazione di condizioni
libere e eque di indagine e di deliberazione collettiva e quindi a violare il
rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo. Il punto
principale che voglio fare è che, anche se il progetto fondazionalista fosse
realizzabile, anche se qualcuno arrivasse a conoscere come le cose sono realmente e come dovrebbero essere, una piena affermazione degli ideali liberali ci
esorterebbe a non piegarci ai dettati della prospettiva dell’Occhio di Dio.
Esorterebbe Dio, o i suoi portavoce, a sedersi al tavolo della scambio libero e
equo delle ragioni insieme ai sostenitori di tutti gli altri punti di vista
soggettivi e contingenti. Una piena
affermazione degli ideali liberali, pace
Habermas, Apel e Gewirth, subordina dunque la filosofia e la religione ai
dettati della libertà, dell’uguaglianza e dei diritti umani in generale.
Ovvero, se concepissimo la creazione e la difesa di deliberazioni pubbliche
libere e aperte e il rispetto dei diritti umani come la nostra più alta
responsabilità, tutte le questioni
metafisiche, anche se non perderebbero di senso, passerebbero certamente in
secondo piano. In una cultura liberale, la metafisica, anche se fosse un
progetto possibile, non rappresenterebbe il fondamento della cultura perché in
una cultura liberale non ci sarebbero voci privilegiate al riparo da ogni
discussione. Possiamo
formulare lo stesso punto diversamente osservando come il liberalismo faccia
del fondazionalismo un punto di vista tra gli altri subordinando l’assenso alle
pratiche e convinzioni di primo ordine che i fondazionalisti appoggiano alla
nostra scelta personale in condizioni libere e eque di deliberazione. Questo è
in linea perfetta con il modo in cui l’anti-fondazionalismo vede il nostro
assenso alle pratiche e convinzioni che affermiamo, ovvero come il frutto delle
nostre personali valutazioni alla luce dell’insieme di valori e credenze
fondamentali che costituisce il terreno infondato che guida e da forma al
nostro pensiero e alle nostre pratiche. L’anti-fondazionalismo riporta la
sorgente dell’autorità
normativa all’assenso individuale delle singole persone, esattamente come
l’ideale liberale di libertà e di uguaglianza si propone di fare. A tutto
questo i liberali fondazionalisti risponderanno che gli ideali liberali non
oppongono il fondazionalismo per se,
ma solo il fondazionalismo anti-liberale. Dopo tutto i liberali
anti-fondazionalisti stessi ammettono di rigettare l’ideale anarchico del
rifiuto di opporre qualunque posizione, e di dare priorità assoluta alla loro
particolare interpretazione dei diritti e valori liberali sopra ogni altra
considerazione. Per questa ragione, perché mai un’affermazione fondazionalista
di questa priorità sarebbe in conflitto con
i principi liberali – i.e con l’affermazione di questa stessa priorità –, mentre un’affermazione anti-fondazionalista non lo
è? In che modo un’affermazione
anti-fondazionalista dei principi e delle pratiche liberali differisce da
un’affermazione fondazionalista? Per
rispondere a queste domande bisogna notare innanzitutto come affinché la nostra
affermazione degli ideali liberali rappresenti un’opzione politica concreta
degna di seria considerazione essa debba consistere in un’affermazione di un
insieme concreto di principi, pratiche e istituzioni. Inoltre bisogna
riconoscere che anche se entrambi, i fondazionalisti e gli
anti-fondazionalisti, affermassero le stesse concrete implementazioni degli ideali
liberali, rimane pur sempre una importante differenza tra l’affermare una volta per tutte un particolare
insieme di principi, pratiche e istituzioni, tra il tracciare, per esempio,
certi limiti al rispetto della libertà, dell’uguaglianza e dei diritti umani,
una determinata gerarchia tra di loro, o un certa demarcazione tra forza e
persuasione, una volta per tutte, e
lasciare questi limiti, gerarchie e demarcazioni aperte a discussione e
possibili revisioni. Perciò, visto che ci sono, e plausibilmente ci saranno
sempre, diverse possibili interpretazioni del contenuto dei diritti e della
loro relativa priorità e
diverse possibili interpretazioni di ciò che costituisce una distorsione della
comunicazione libera ed equa, e dunque diverse concezioni dei principi e delle
pratiche liberali corrette, se vogliamo rimanere fedeli ai valori e agli ideali
liberali dobbiamo far si che le particolari instanziazioni dei principi
liberali a cui diamo il nostro assenso rimangano aperte al libero ed equo
confronto tra tutte le interpretazioni e concezioni di tali principi
disponibili al momento. Questa è la stessa osservazione che ho fatto
precedentemente, applicata questa volta al dibattito interno al liberalismo
stesso; e il fondazionalismo fallisce qui per la stessa ragione. Esso pone le
pratiche e le concezioni di primo ordine che afferma al riparo da ogni
possibile discussione e revisione; chiude la conversazione, anche la
conversazione all’interno del liberalismo stesso, così tradendo quello che ho
posto al cuore della tradizione liberale, l’apertura permanente della
deliberazione collettiva anche sulle sue stesse regole e procedure. Certo,
anche la particolare concreta società liberale che gli anti-fondazionalisti
possono affermare, non importa quanto vicina al paradiso liberale, manifesterà sempre un qualche grado di conservatorismo e
autoritarismo. Si opporrà a certe
pratiche e concezioni politiche e morali e cercherà di difenderne altre da possibili cambiamenti. Ma
ancora una volta, una consapevolezza anti-fondazionalista, al contrario di una
fondazionalista, non sarà a priori contraria a possibili riforme
del particolare insieme di principi, istituzioni e pratiche liberali con cui
essa si identifica, anche se non saprà
garantirne la facilità di
attuazione. È pure
certo che non vi è niente che escluda ai fondazionalisti di affermare
l’apertura permanente della conversazione. Anzi, come abbiamo visto per esempio
con Habermas, essa è stata ritenuta da alcuni fondazionalisti essere l’unica
strada che possa portare alla Verità. Tuttavia questa giustificazione
strumentale delle pratiche e dei principi liberali, a meno che non venga
supplementata da un criterio di Verità distinto dall’esito delle deliberazioni
conformi a un etica del discorso liberale, non aggiunge nulla a una difesa
etnocentrica – morale e politica invece di cognitiva e metafisica – di quelle
stesse pratiche e di quei principi. Per di più, l’affermazione fondazionalista
dell’apertura permanente della conversazione avrebbe eventualmente finito per
dissolvere ogni differenza che avrebbe potuto fare una differenza pratica tra
un liberalismo fondazionalista e uno anti-fondazionalista. Il
liberalismo fondazionalista avrebbe ammorbidito le pretese di autorità delle sue pratiche e concezioni di primo ordine a
un tale grado da arrivare a coincidere con il liberalismo anti-fondazionalista.
Sarebbe cioè arrivato ad affermare la stessa concezione anti-autoritaria e
progressista della società avanzata da un pieno impegno liberale e facilitata
da una concezione anti-fondazionalista della normatività. I fondazionalisti
dovrebbero dunque riconoscere quello che gli anti-fondazionalisti hanno da
tempo sostenuto, ovvero che le questioni metafisiche ed epistemologiche sono
irrilevanti per il funzionamento delle nostre pratiche. 5.3. La
desiderabilità di una
cultura liberale da un punto di vista anti-fondazionalista Fino a
qui le mie considerazioni sono state volte a mostrare la desiderabilità di una concezione anti-fondazionalista della
normatività per la piena
realizzazione del progetto liberale di creare una società che rispetti la
libertà, l’uguaglianza e i diritti fondamentali di tutti. Per completare di
mostrare la tesi della desiderabilità di un
liberalismo anti-fondazionalista voglio ora valutare tale posizione dal lato
anti-fondazionalista e abbozzare un’argomentazione a favore della desiderabilità del liberalismo per una concezione
anti-fondazionalista della normatività. È mia
convinzione infatti che una tale posizione epistemologica ci fornisce le
risorse per una giustificazione strumentale delle società liberali come quelle
società che garantiscono le condizioni migliori per il più pieno sviluppo delle
potenzialità umane. Posso illustrare
questa convinzione osservando come il fondazionalismo, chiudendo la discussione
sui fondamenti delle sue pratiche e concezioni di primo ordine, rappresenta un
ostacolo non solo alla realizzazione del progetto liberale, ma anche alla
possibilità di produrre risoluzioni più efficaci per le nostre situazioni
problematiche e per lo sviluppo della cultura umana in generale. Dico questo
perché, in base a una prospettiva anti-fondazionalista, non vi è modo migliore
di far fronte alle varie situazioni problematiche in cui ci possiamo trovare
oltre a quello di continuare a provare a formulare concreti modi migliori di
affrontarle, e non vi è modo migliore di trovare credenze e pratiche migliori
oltre a quello di mantenere un atteggiamento fallibilista e critico verso le
nostre credenze e pratiche attuali, continuando a provare a formularne e sperimentarne
di nuove e mantenendo aperto lo scambio critico di opinioni con le altre
persone. Questi sono esattamente quegli atteggiamenti che il fondazionalismo
tende a inibire e il liberalismo invece incoraggia, o per lo meno dovrebbe
incoraggiare. Questo
significa che, alla luce della prospettiva anti-fondazionalista, una cultura
dedicata al mantenimento e al miglioramento di condizioni libere ed eque di
indagine e cooperazione collettiva non è impegnata soltanto in un processo di
miglioremento morale e di progresso sociale – ovvero, non si dedica ai valori e
ai diritti liberali soltanto perché li considera, etnocentricamente, moralmente
giusti –, ma è anche dedita alla più
piena promozione dello sviluppo umano in tutte le sue aree, alla più piena promozione delle nostre capacità umane. L’osservazione con cui voglio concludere è dunque
che il rispetto della libertà, dell’uguaglianza, e dei diritti umani in
generale, favorendo la proliferazione e il confronto libero e aperto di tutti i
possibili punti di vista che non rappresentano una minaccia ragionevolmente
seria a quei valori e diritti stessi, facilita la formulazione e la
proposizione di teorie, pratiche e progetti migliori, facilita il miglioramento
della nostra esistenza in generale. E questo, ancora una volta, non perché,
come ritengono Habermas e Apel per esempio, condizioni democratiche di indagine
e cooperazione costituiscono l’unica strada verso il raggiungimento della
‘concezione assoluta del mondo’, ma semplicemente in base a una semplice considerazione
pratica che ognuno a modo di apprezzare nella vita di ogni giorno, ovvero, che
più siamo lasciati liberi di provare a migliorare le nostre teorie e le nostre
pratiche e più punti di vista e opinioni abbiamo la possibilità di ascoltare,
più probabile sarà che troveremo soluzioni più soddisfacenti per le situazioni
problematiche in cui siamo immersi. Ovviamente ‘soddisfacenti’ e ‘migliori’
alla luce dei nostri valori e delle nostre credenze di base. 6. Conclusioni: ethnos come dispositivo espositivo,
non giustificatorio Voglio concludere con una riflessione sul concetto
di ‘etnocentrismo’ a cui mi sono richiamato e che ho difeso nel corso della mia
argomentazione della plausibilità e desiderabilità di un approccio
anti-fondazionalista – etnocentrico –
ai diritti umani e ai valori e alle pratiche del liberalismo. Mi aspetto
infatti che già da tempo nel corso delle riflessioni che ho condotto si sia
sentita la necessità di sollevare la critica che usualmente viene fatta a ogni
tentativo di riferirsi a un particolare ethnos
come alla base dell’autorità normativa: ‘Quale
ethnos?’ ‘Esiste un determinato ethnos liberale che possa giustificare il tuo liberalismo
etnocentrico?’ ‘Sono le nostre società liberali degli ethnos omogenei alle
quali poterci riferire come serbatoio di intuizioni comuni e di autorità
normativa?’ La mia risposta è, come ci si può aspettare, che le
così dette società liberali in cui viviamo, se mai sono esistiti ethnos omogenei, non sono ethnos del genere. Come ho indicato in
più occasioni, esiste una pluralità di intuizioni e credenze conflittuali e
irriconciliabili all’interno della tradizione liberale stessa sui diritti e le
pratiche che dovrebbero definire il suo carattere morale e le sue impostazioni
politiche. La posizione liberale etnocentrica che ho avanzato non pretende di
far riferimento a un qualche esistente e ben definito ethnos liberale come alla sorgente giustificatoria dell’autorità
normativa dei diritti e delle pratiche liberali. Il mio riferimento all’origine
etnocentrica dell’autorità normativa è stato semplicemente un dispositivo
epistemologico per mezzo del quale trasmettere la convinzione che le facoltà
critiche del nostro pensiero e la base giustificatoria delle nostre pratiche
non collassano a seguito del riconoscimento del fallimento del progetto
fondazionalista. Il mio riferimento all’etnocentrismo è stato uno strumento
espositivo tramite il quale trasmettere quello che ritengo il messaggio
centrale della posizione anti-fondazionalista che ho delineato: che le nostre
credenze, i nostri valori e progetti possono essere sviluppi storici e
parrocchiali, che le nostre teorie e pratiche possono in ultima istanza
poggiare su credenze e valori infondati, e tuttavia costituire le nostre
speranze migliori e non meno capaci di ottenere il nostro più serio ed efficace
impegno e di motivarci a lottare per la loro realizzazione. Infatti, un ethnos,
secondo il mio impiego di questo concetto, è definito da un particolare insieme
di valori, credenze, e progetti istituzionali, e come tale non si riferisce
necessariamente a qualche chiaramente identificabile ed esistente realtà
sociale. L’insieme dei valori e delle credenze, delle pratiche e delle
istituzioni, a cui ho brevemente accennato in queste riflessioni e con cui ho
identificato la mia lettura del progetto liberale, definiscono un tale ethnos ideale. I membri di tale ethnos liberale sono tutte quelle
persone che, ovunque nel mondo, e in qualsiasi momento della storia, si sono o
si potranno identificare con questo insieme di valori, credenze e progetti. Un ethnos
liberale in questo senso è semplicemente l’espressione di una certo ideale
morale e politico. Insistere sull’etnocentrità di questo ideale è stato così
solo un modo di applicare ai valori e ai diritti liberali l’osservazione di
Joseph Schumpeter secondo la quale possiamo “realizzare la validità
relativa delle nostre convinzioni e pur tuttavia difenderle senza esitazione” (82); non è stato un tentativo di fondare la giustificazione
ultima delle nostre convinzioni e pratiche liberali ricorrendo all’autorità di una comunità
esistente chiaramente identificabile. D’altronde, anche se una tale comunità esistesse realmente, tale giustificazione varrebbe
soltanto per i suoi membri; la sua autorità non avrebbe
alcuna valenza, razionale o persuasiva che sia, su chi non si identificasse con
i suoi valori fondamentali. Questo è stato
l’altro punto che ho voluto fare insistendo sulla nostra inevitabile condizione
etnocentrica. Note. (1) T.Nagel: The
View from Nowhere (Oxford: Clarendon, 1986), B.Williams: Ethics and the Limits of Philosophy,
(London: Fontana, 1985), H.Putnam: Realism with a
Human Face, (Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 1990). (2) P.Feyerabend: Against Method (London: NLB, 1975). (3) R.Rorty: ‘The World Well Lost, in Consequences of Pragmatism, (Brighton: Harvester Press, 1982), p.14. Tutte le citazione che compaiono in questo lavoro, quando non è
specificato, sono state tradotte dall’autore. (4) C.S.Peirce: The Collected Papers of Charles S. Peirce,
C.Hartshorne and P.Weiss eds. (Cambridge: Harvard University Press, 1931-1958),
vol. 5,§376. (5) “Una persona può, è vero, nel corso dei suoi studi, trovare una ragione
per dubitare ciò che in partenza credeva; ma in questo caso egli dubiterebbe
perché avrebbe una ragione positiva per dubitare, e non in base alla massima cartesiana.”
Ibid.: vol. 5,§264. (6) L.Wittgenstein: Della Certezza, traduzione di
M.Trinchero (Torino: Giulio Einaudi, 1978), §458. (7) Ibid., §204. (8) Ibid., §341. (9) Ibid., §19. (10) L.Wittgenstein:
Ricerche Filosofiche, trad. di
R.Piovesan, (Torino: Giulio Einauidi, 1967), §87. (11) D.Davidson: ‘The Myth of the Subjective’, in Relativism: Interpretation and Confrontation,
M.Krausz ed., p.165. (12) R.Rorty: ‘Solidarity or Objectivity?’, in Objectivity, Relativism and Truth:
philosophical papers vol.1, (Cambridge: Cambridge University Press, 1991),
p.29. (13) H.Putnam: Il Pragmatismo: una
questione aperta, trad. di M.Dell’Utri (Roma-Bari: Laterza, 1992), p.28. (14) R.Rorty: ‘Postmodernist Bourgeois Liberalism’,
in Objectivity, Relativism and Truth,
p.202. (15) R.Rorty: ‘Pragmatism, Relativism, Irrationalism’, in Consequences of Pragmatism, p.167. (16) “Non c’è modo di prendere
puri enunciati protocollari stabiliti definitivamente come punti di partenza
delle scienze. Non esiste nessuna tabula rasa. Siamo come marinai che
devono ricostruire la loro nave in mare aperto, non essendo mai in grado di
smontarla fuori dal mare e di ricostruirla con i materiali migliori.” O.Neurath: 'Protocol
Sentences', in Logical Positivism,
A.J.Ayer ed. (Westport, Conn.: Greenwood Press, 1959), p.201. (17) Vedi per esempio: J.Rawls: Political Liberalism, (New York: Columbia University Press, 1993);
R.Rorty: Contingency, Irony, and
Solidarity, (Cambridge: Cambridge University Press, 1989); J.Gray: Two Faces of Liberalism (Cambridge/Oxford:
Polity Press, 2000);
R.Bellamy: Liberalism and Modern Society,
(Pennsylvania: Pennsylvania State University Press,1982); John Dryzeck: Deliberative democracy and Beyond
(Oxford, Oxford University Press, 2002); Democracy and Deliberation (New Haven:
Yale University Press, 1991); A.Gutmann & D.Thompson: Democracy and Disagreement, (Cambridge, Mass./London: Harvard
University Press, 1996); S.Benhabib: ‘Toward a Deliberative Model of
Democratic Legitimacy’, in Democracy and
Difference,
edito da S.Benhabib, (Princeton: Princeton University Press, 1996); J.Cohen:
‘Procedure and Substance in Deliberative Democracy’, in Democracy and Difference; I.M.Young: ‘Communication and the Other: Beyond
Deliberative Democracy’, in Democracy and
Difference; B.Barry: Justice as Impartiality (Oxford: Clarendon Press, 1995). (18) A.Gewirth: Reason
and Morality, (Chicago and London: University of Chicago Press, 1978),
p.28. (19) Ibid.,
p.31. (20) Di
seguito, parlando di agire o di attori, impiegherò interscambiabilmente i
termini “teleologico”, “intenzionale” e “razionale” intendendo per mezzo di
essi riferirmi ad ogni agire (o attore) diretto alla realizzazione di un fine.
Con la stessa intenzione impiegherò a volte anche il termine “azione” e
“attore” senza qualificarli. (21) Ibid., p.63. (22) Ibid. (23) Ibid., p.72. (24) Ibid. (25) Ibid., p.75. (26) Ibid., p.77. (27) Ibid., p.78. (28) Ibid. (29) A.Gewirth: ‘Are There Any Absolute Rights’? in Theories of Rights, edito da J.Waldron
(Oxford: Oxford University Press, 1984), pp-91-109. (30) A.Gewirth: Reason
and Morality, p.110. (31) Ibid., p.356. (32) J.Habermas: ‘Discourse Ethics’, in Moral Consciousness and Communicative Action,
trad. di T.McCarthy, (Cambridge, Mass.: MIT, 1990), p.101. Habermas riporta in questo frangente la critica che Alaisdair Macintyre
ha mosso, lungo la stessa linea della mia critica, al tentativo fondazionalista
di Gewirth. Vedi
A.Macintyre: After Virtue, (London:
Duckworth, 1981), p.64. (33) Ibid. (34) J.Habermas: The Theory of Communicative Action: Volume 1,
trad. di T.McCarthy (London: Heinemann, 1984), p.286. (35) J.Habermas: ‘Actions, Speech Acts, Linguistic
Mediated Interactions, and Lifeworld’, in On
the Pragmatics of Communication,
(Cambridge, Mass.: MIT, 1998), p.228. (36) Ibid., p.232. (37) Ibid., p.231. (38) J.Habermas: ‘Discourse
Ethics’, in Moral Consciousness and
Communicative Action, p.58. (39) J.Habermas: ‘Toward a Critique of the Theory of
Meaning’, in On the Pragmatics of Communication, p.294. (40) J.Habermas: ‘Moral Consciousness and Communicative
Action’, in Moral Consciousness and
Communicative Action, p.134. (41) J.Habermas: ‘Discourse Ethics’, p.58. (42) J.Habermas: ‘What Is Universal Pragmatics?’, in On the
Pragmatics of Communication, pp.23-24. (43) J.Habermas: The
Theory of Communicative Action: Volume 1, pp.17-18. (44) J.Habermas: ‘Actions, Speech Acts…’, in On the
Pragmatics of Communication, p.220. (45) J.Habermas: ‘Discourse Ethics’, p.44. (46) J.Habermas: ‘Remarks on Discourse Ethics’, in Justification
and Application, trad. di C.Cronin, (Cambridge, Mass.: Polity Press, 1993),
p.31. (47) J.Habermas: ‘Discourse Ethics’, p.63. (48) J.Habermas: ‘Remarks on Discourse Ethics’, in Justification
and Application, p.32. (49) Ibid., p.50. (50) Vedi J.Rawls:
A Theory of Justice, (Oxford:
Clarendon, 1999) e Political Liberalism,
(New York: Columbia University Press, 1993). Qui
affermo senza poter argomentare per motivi di spazio la mia convinzione che il
‘liberalismo politico’ elaborato da John Rawls, sin dalla prima formulazione
sistematica che egli ne ha offerto in A
Theory of Justice, vada considerata, a dispetto di quello che molti critici
ne pensano, come una versione del liberalismo anti-fondazionalista che difendo
in questo articolo. (51) J.Habermas: ‘Discourse Ethics’, p.89. L’enfasi è mia. (52) K.-O.Apel: ‘The Problem of Philosophical
Foundations Grounding in Light of a Transcendental Pragmatics of Language’, in After Philosophy: End or Transformation,
edito da K.Baynes, J.Bohman e T.McCarthy, (Cambridge, Mass.: MIT, 1987), p.259.
L’enfasi è mia. Vedi anche K.-O. Apel: Towards a Transformation of Philosophy, (London: Duckworth, 1980). (53) J.Habermas: ‘Discourse Ethics’, p.82. L’enfasi è mia. (54) Si veda ad esempio: ‘What is Universal
Pragmatics’, in On the Pragmatics of Communication, p.21. (55) J.Habermas: ‘Discourse Ethics’, p.83. (56) J.Habermas: ‘Discourse Ethics’, p.91. (57) J.Habermas: ‘On the Employments of Practical
Reason’, in Justification and Application,
p.13. (58) J.Habermas: ‘Discourse Ethics’, p.76. “Lo scettico solleva l’obiezione che (U) rappresenta una hasty
generalizzazione delle intuizioni morali peculiari alal cultura occidentale,
una sfida alla quale il cognitivsta risponderà con una giustificazione
trascendentale del suo principio morale.” (59) Ibid., p.76. (60) J.Habermas: ‘Remarks on Discourse Ethics’, in Justification and Application, p.52. (61) J.Habermas: ‘Discourse Ethics’, p.57. (62) E.Tugendhat: Probleme
der Etik, (Stuttgart: Reclam, 1984), p.118. (63) Una osservazione simile è stata sollevata da
Rorty in ‘Habermas and Lyotard on Post-modernity’, in Objectivism, Relativism, and Truth, e in ‘Method, Social Science,
and Social Hope’, in Consequences of Pragmatism. (64) R.Rorty: Truth,
Politics and Post-modernism, (Amsterdam: Van Gorcum, 1997), p.36. (65) R.Rorty: ‘Hope in Place of Knowledge’, in Philosophy and Social Hope, (London:
Penguin,1999), p.23. (66) R.Rorty: Truth,
Politics and Post-modernism, p.46. (67) H.Putnam.:
The Many Faces of Realism, (LeSalle,
Ill.: Open Court, 1987), p.42. (68) R.Rorty.: ‘Method, Social Science, and Social Hope’, in Conseguences of Pragmatism, p.206. (69) H.Putnam: ‘Pragmatism and Relativism’, in Words and Life, (Cambridge, Mass. and
London: Harvard University Press, 1994), p.194. (70) Gli stessi Foucault, Derrida e Lyotard hanno contribuito a questa
attività riformista interna alle società liberali puntando agli elementi
repressivi pericolosamente nascosti dietro a certe delle nostre comuni e
indiscusse pratiche e istituzioni. (Come hanno contribuito a questa attività
tutti i filosofi anti-fondazionalisti che ci hanno ricordato come ogni
giustificazione fondazionalista, più spesso che non, è un tentativo di
razionalizzare l’imposizione di una particolare pratica e il mantenimento dello
status quo.) Tuttavia, in una maniera
tipica ai filosofi post-nietzscheani di influenza marxista, i tre filosofi
francesi insistono sulla mancanza di speranza per il progetto liberale,
facendoci chiedere se, dopo tutto, in fondo alle loro argomentazioni
anti-fondazionaliste essi non rimangano invischiati in quello stessa insoddisfazione
metafisica che abbiamo visto condurre alle conclusioni corrosive del
relativismo radicale, e quindi se in fondo non siano ancora attaccati a una
concezione fondazionalista della razionalità, esattamente come i relativisti
radicali. (71) R.Rorty: ‘Solidarity or Objectivity?’, in Objectivity, Relativism, and Truth,
p.29. (72) H.Putnam: ‘Fact and Value’, in Reason, Truth and History, p.148. (73) A.Pollis: ‘Cultural Relativism Revisited:
Through a State Prism’ in Human Rights
Quarterly, 18.2 (1996) p.319. Che il
relativismo culturale sia spesso impiegato da stati oppressivi come un’utile
ideologia dietro cui difendere le loro infranzioni del diritto internazionale,
è un’osservazione ampiamente condivisa, specialmente da difensori di una
concezione universalista dei diritti umani. Si veda per esempio, J.Donnelly: ‘Cultural
Relativism and Universal Human Rights’, in Universal
Human Rights in Theory and Practice, (Itthaca/London: Cornell University
Press, 1989), pp.109-124; E.O.A.El Obaid: ‘Universality of Human Rights and
Cultural Relativism’ in http://www.chrf.ca/english/education/files/pdfs/Rehman-El-Obaid-Ang.pdf;
F.R.Tesón:‘International Human Rights and Cultural Relativism’ in Virginia Journal of International Law,
Vol.25:4, 1984; J.-y. Wang: ‘China and Universal Human Rights Standards’ in http://www/geocities.com/pennwang/research/reshr/hrintro.htm;
e K.Miller: ‘Human Rights of Women in Iran: The Universalist Approach and the
Relativist Response’ in http://www.law.emory.edu/EILR/volumes/win96/miller/html.
Vedere anche ‘Report of the special Rapporteur on violence againts women, its
causes and consequences, Ms. Radhika Coomaraswamy, submitted in accordance with
Commission on Human Rights resolution 2001/49’, E/CN.4/2002/83 31/01/02. (74) K.Miller: ‘Human Rights of
Women in Iran: The Universalist Approach and the Relativist Response’. (75) R.Wilson: Human
Rights, Culture and Context, p.8 (76) R.Rorty: ‘Science as Solidarity’, in ORT, p.42. Tuttavia
non potere convinvere razionalmente i nostri opponenti non significa non potere
criticare i loro punti di vista e le loro pratiche o non poter interferire con
esse se vi fossero le condizioni per farlo. È qui
opportuno tracciare con chiarezza la distinzione tra critica razionale e interferenza
strategica o intrusiva. Lo possiamo fare considerando il caso in cui la cultura
di una communità, non importa quanto
illiberale e irrispettosa dei diritti umani essa possa essere, sia veramente
rappresentativa di tutti i suoi membri. In base alla prospettiva liberale che
ho presentato, per esempio, se è
moralmente o politicamente sbagliato interferire strategicamente o
intrusivamente con pratiche e tradizioni che sono la libera espressione dei
loro partecipanti, e che non rappresentano una minaccia per i diritti di chi
non si identifica in essi, non è tuttavia
moralmente sbagliato criticarle. Infatti, il confronto razionale è uno dei principi centrali della concezione deliberativa
della società liberale a cui mi
riferisco. (77) A.S.S.A.Aldeeb: ‘Dialogue
conflictuel sur les droits de l’homme entre Occident et Islam’, in Islamochristiana n.17, pp.58-59. Citazione da B.Conti: ‘Universality of Rights Tested by Cultures: Islam
and Arab Declarations on Human Rights’ in Mediterranean
Journal of Human Rights, Vol.6 p.182. (78) B.Conti: ‘Universality of Rights Tested by
Cultures: Islam and Arab Declarations on Human Rights’, p.182. Che un approccio ai diritti umani ed ai valori liberali orientato verso
la pratica concreta, e distante da un approccio assolutista, sia desiderabile
per una loro più efficace implementazione a livello universale, in particolare
contribuendo a dissociarli da possibili strumentalizzazioni paternaliste e
imperialiste occidentali, è un osservazione che hanno anche avanzato, seppure
in contesti di riflessioni diverse dalle mie, David E. Zammit in ‘Human Rights
Versus Social Practice in the Mediterranean’, in Mediterranean Journal of Human Rights, Vol.1, no.2, (vedi in
particolare p.91) e Milena Modica in ‘The Universal Character of Human Rights
and the Mediterranean Regionalization’ in
Mediterranean Journal of Human Rights, Vol.3, no.2 (in particolare p.557). (79) S.Benhabib: The
Claims of Culture, (Princeton University Press, 2002) p.104. Traduzione
mia. (80) H.Putnam: ‘The Craving for Objectivity’, in Realism with a Human Face, p.131. (81) R.Rorty: ‘The Priority of Democracy to Philosophy’,
in Objectivism, Relativism and Truth,
p.195. (82) J.A.Schumpeter: Capitalism, Socialism, and Democracy, (London, 1943), p. 243. |