Etica & Politica / Ethics & Politics, 2004, 1 http://www.units.it/etica/2004_1/MORFINO.htm Temporalità plurale e contingenza: l’interpretazione spinoziana di Machiavelli (*) Et inter se mortales mutua vivunt Lucrezio,
De rerum natura, II, 76
Spinoza,
come è noto, dedica due brevi ma densi paragrafi al pensiero di Machiavelli nel
Trattato politico: il primo paragrafo
si interroga sul senso politico dell’opera del segretario fiorentino, mentre il
secondo riassume e discute la teoria del «ritorno ai principi». Machiavelli
viene dunque interrogato da Spinoza sul terreno a lui più congeniale, il
terreno della politica, e tuttavia tra le righe spinoziane emerge con forza il
rinvio ad un altro orizzonte, al quadro teorico che rende pensabile (o
impensabile) la politica nella prospettiva machiavelliana: temporalità plurale
e contingenza, per dirla in breve. In questa prospettiva diventa centrale
nell’interpretazione spinoziana il concetto machiavelliano che meno sembrerebbe
compatibile con la sua ontologia, dominata da una necessità che,
nell’interpretazione tedesca, ha talora preso il nome di “logica”, “cieca”,
“assoluta”: il concetto di occasione. L’occasione sembrerebbe squarciare questa
necessità, frantumarla o interromperla al modo del miracolo la cui esistenza è
palese negazione di quell’ordine divino che si specchia nelle leggi naturali.
Che non sia così, che il concetto di occasione costituisca il cuore stesso
della necessità spinoziana (necessità non “logica”, “cieca” o “assoluta”, bensì
“aleatoria”), potrò forse dimostrarlo solo al termine di un cammino che non può
avere miglior punto di inizio di uno straordinario passo di Jankélévitch: l’occasione
– scrive – non è l’istante di un divenire solitario, ma l’istante complicato
dal ‘policronismo’, cioè dallo sporadismo e dalla pluralità delle durate. Se,
invece di scandire misure di tempo differenti, le durate fossero accordate tra
loro da un’armonia immemorialmente prestabilita, o se, invece di accordarsi
qualche volta, formassero tra loro una cacofonia assolutamente informe, per
l’occasione non ci sarebbe posto. L’occasione miracolosa dipende dalla
polimetria e dalla poliritmia, come dall’interferenza momentanea dei divenire (1). Lascio
perdere il contesto generale dell’interpretazione di Jankélévitch, per
concentrarmi su quello che mi sembra una suggestione fondamentale nel suo
passo: si dà occasione, perché si dà policronismo a livello ontologico. O
meglio: per pensare il concetto di occasione in senso machiavelliano è
necessario costruire una ontologia della temporalità plurale, e solo
all’interno di una ontologia pensata in questi termini si dà una teoria non teologica
della contingenza. Per
sostenere questa tesi mostrerò in primo luogo come l’assenza di una teoria
della temporalità plurale imprigioni la contingenza dell’occasione nella gabbia
del telos di una filosofia della
storia. 1. Le
lettere di Descartes sul Principe Prendiamo
in esame in primo luogo la lettura che Descartes propone del Principe nella celebre lettera alla
principessa Elisabetta del Palatinato. La critica centrale e maggiormente
articolata che Descartes rivolge a Machiavelli riguarda la distinzione, a suo
giudizio insufficiente, tra principi legittimi e illegittimi, distinzione che
secondo Descartes non dovrebbe essere fatta solo sul piano delle condizioni
fattuali che costituiscono la scena dell’azione del principe, ma dovrebbe
riguardare un piano giuridico-morale: Credo che
la maggior manchevolezza dell’Autore sia di non aver fatto una distinzione
abbastanza netta fra i Principi che sono giunti al potere poggiando su voti
giusti, e quelli che lo hanno usurpato con mezzi illegittimi: e quindi ha dato
a tutti, in generale, precetti che valgono solo per questi ultimi. (2) Descartes
pone con decisione la distinzione tra le due categorie e afferma che chi è
giunto al potere con la virtù lo mantiene con la virtù e chi attraverso il
vizio lo conserva con il vizio. I precetti machiavelliani, che disancorano la
politica dalla morale, riguarderebbero dunque solo i principi illegittimi e gli
usurpatori, al contrario, scrive Descartes, [...] per
istruire un buon Principe, anche se giunto da poco al potere, mi sembra gli si
debbano proporre massime opposte a queste, e supporre che i mezzi di cui si è
servito per affermarsi siano stati giusti. (3) L’apparente
semplicità del discorso cartesiano – se si deve istruire un principe, anche
salito al trono da poco tempo, ci si deve servire di un ipotetico Antiprincipe,
cioè di uno dei tanti testi della tradizione dello specchio dei principi –
nasconde una questione evidentemente urgente sulla natura della legittimità dei
principi, la questione circa i segni che permettono di operare la distinzione e
di cogliere così la legittimità del principe. Tutta la distinzione si fonda su
una supposizione, la supposizione che i mezzi usati dal principe per giungere
al potere siano stati giusti. Proprio l’utilizzo del verbo supposer apre una voragine nel discorso cartesiano, e ne complica
l’apparente struttura binaria. Quali sono i mezzi giusti per prendere il
potere, e, di conseguenza, come distinguere il buon principe dall’usurpatore?
La risposta di Descartes è sorprendente: Credo che
di fatto lo siano quasi sempre, se i Principi che li praticano li ritengono
tali: infatti, tra i Sovrani, la giustizia ha limiti diversi da quelli che ha
tra i privati; e in tali casi pare che Dio accordi loro il diritto a coloro cui
accorda la forza; mentre le azioni più giuste diventano ingiuste, quando quelli
che le fanno le pensano tali. (4) I segni
che contraddistinguono i mezzi giusti non sono dunque dei segni esteriori,
conformi a una scala di valori che trascende la coscienza del principe, ma al
contrario sono dei segni del tutto interiori, che riguardano il modo in cui il
principe considera i mezzi che utilizza. Ciò che il principe, nell’interiorità
della sua coscienza, ritiene soggettivamente giusto, lo è anche oggettivamente.
Egli diviene, in altre parole, misura della giustizia e dell’ingiustizia: è
giusto ciò che gli appare come tale. Tuttavia il principe avrebbe potuto
considerare giusti i mezzi grazie a cui ha tentato di prendere il potere, senza
però esservi riuscito: è proprio qui, per rispondere a questo problema, che
Descartes introduce l’idea secondo cui la forza vittoriosa è fondata de iure sulla garanzia divina. Il giro
di pensieri di Descartes può essere ricostruito in questi termini: colui che ha
la forza di prendere il potere, ne ha il diritto, per grazia divina, e colui
che ne ha il diritto considera le sue azioni come giuste e dunque vede
rivestirsi la violenza dell’aura d’eternità del diritto (per una sorta di
armonia prestabilita tra diritto e forza). Alla forza del principe risponde
dunque, nell’ordine della provvidenza, la coscienza della giustizia delle
azioni prodotte dalla forza, coscienza che ci è dato supporre in virtù della
nostra fede nella provvidenza, ma non di conoscere. Se
prendiamo il celebre passaggio di Machiavelli sui grandi fondatori di Stati
risulterà evidente che il termine chiave è precisamente quello di “occasione”: […] per
venire a quelli che, per propria virtù e non per fortuna, sono diventati
principi, dico che li più eccellenti sono Moisé, Ciro, Romulo, Teseo e simili.
[…] Ed esaminando le azioni e vita loro, non si vede che quelli avessino altro
dalla fortuna che la occasione; la
quale dette loro materia a potere introdurvi dentro quella forma parse loro; e
sanza quella occasione la virtù dello
animo loro si sarebbe spenta, e sanza quella virtù la occasione sarebbe venuta invano (5). Descartes
sembra sostituire la problematica machiavelliana virtù / fortuna / occasione
che implica una razionalità fondata su una temporalità plurale con quella mezzi
/ fini che ne implica invece una fondata su una temporalità lineare di cui Dio
è garante (in quanto garante della giustizia di ciò che accade): per schematizzare
si potrebbe dire che egli sostituisce un tipo di razionalità che potremmo
definire strategica con una di tipo strumentale. Tuttavia,
se si prende in esame la teoria cartesiana della res extensa risulterà chiaro che non è possibile fondare su di essa
la differenza tra i principi giunti al potere con mezzi legittimi e gli
usurpatori. Ciò che si oppone ad una tale distinzione è la teoria dello
spazio-tempo esposta nei Principi di
filosofia, teoria costruita su una mossa teorica che comanda tutte le altre,
quella che stabilisce l’identità di sostanza corporea ed estensione. Se non si
dà estensione che non sia corpo, ne segue 1)
la negazione del vuoto, poiché la sua esistenza
costituirebbe una contraddizione in termini, cioè uno spazio senza sostanza; 2)
che il luogo interno si identifichi con lo spazio che il
corpo occupa. La negazione del vuoto e
l’identificazione di luogo e spazio occupato dal corpo (uniti naturalmente al
rifiuto dell’universo finito ed allo spazio qualitativo di Aristotele)
conducono Descartes ad affermare la relatività di ogni movimento, essendo
ognuno di questi misurabile in rapporto ad altro e nessuno di essi immobile: Per esempio, se
consideriamo un uomo seduto alla poppa di un vascello che il vento porta fuori
dal porto, e non badiamo che a questo vascello, ci sembrerà che quest’uomo non
cambi affatto di luogo; poiché vediamo che esso resta sempre in una stessa
situazione riguardo alle parti del vascello sul quale esso è; e se osserviamo
le terre vicine, ci sembrerà anche che quest’uomo cambi incessantemente di
luogo, poiché si allontana da queste e si avvicina ad alcune altre; se oltre di
questo, supponiamo che la terra giri sul suo asse, e che faccia precisamente
tanto cammino dall’occidente all’oriente quanto questo vascello ne fa dall’oriente
all’occidente, ci sembrerà da capo che noi determiniamo questo luogo con alcuni
punti immobili che immagineremo essere nel cielo. Ma se pensiamo che non si
saprebbe trovare in tutto l’universo nessun punto che sia veramente immobile
[…], concluderemo che non vi è luogo di nessuna cosa al mondo che sia fermo e
immobile, se non in quanto lo fermiamo nel nostro pensiero (6). L’affermazione
della relatività di ogni posizione spaziale concerne anche la dimensione
temporale. Se è vero infatti che la durata è il perseverare di una cosa nel
proprio essere (7), su un
piano ontologico si danno una molteplicità di durate che non possono essere
unificate se non in base ad una astratta misurazione temporale: il tempo
infatti non è che la misura delle molteplici durate sulla base di una durata
regolare, il movimento dei pianeti. Se dunque prendiamo il concetto di
situazione in senso leibniziano, concetto che aggiunge al concetto cartesiano
di luogo l’ordinata temporale, possiamo dire che i riferimenti spazio-temporali
di un corpo non possono essere dati rispetto ad un sistema di riferimento
assoluto, ma solo rispetto al luogo e alla durata di altri corpi.
L’affermazione di una contemporaneità assoluta della res extensa rispetto a se stessa sarebbe dunque priva di senso,
implicherebbe l’affermazione di un punto di riferimento immobile e dunque
esterno ad essa. Se dunque
non vi è una contemporaneità dei tempi, non vi è nemmeno la garanzia che il
succedersi degli istanti (intesi come totalità degli stati contemporanei dei
corpi) sia governato in una logica mezzo-fine dall’asse Dio-coscienza. Come
riesce allora Descartes ad accordare il diritto con la forza? Come riesce a far
sì che il diritto non sia altro che la forma presa dalla forza che ha saputo
volgere in suo favore l’occasione frutto dell’intreccio dei tempi? Un’altra
teoria della temporalità è presente in Descartes, una teoria che domina la
prima e che di fatto la neutralizza: come scrisse Feuerbach nella sua Storia della filosofia moderna «Descartes, der Theolog, und Descartes, der Philosoph,
sind mit einander im Kampfe» (8). Mi riferisco alla teoria
della creazione continuata che dà luogo ad una concezione del tempo del tutto
differente rispetto a quella propria della res
extensa (e che finisce per trasfigurare quest’ultima). Dio ricrea infatti
ad ogni istante il mondo: [...]
perspicue intelligimus fieri posse ut existam hoc momento, quo unum quid
cogito, et tamen ut non existam momento proxime sequenti, quo aliud quid potero
cogitare, si me existere contingat (9). Le cose
create esistono dunque in un tempo divisibile in parti indipendenti, istanti
separabili e contingenti. La creazione divina, frutto di una volontà
trascendente, reinstituisce nell’abisso della res extensa tanto la contemporaneità, la sezione d’essenza, quanto
la direzione del tempo. Certo, lo stesso esempio cartesiano ci mostra che, come
avrebbe detto un Feuerbach ben più celebre, “il segreto della teologia è
l’antropologia”, il segreto della temporalità teologica effetto della creazione
continuata è la temporalità originaria dell’ego
che si intuisce come presente nel momento della cogitatio
(10). In ogni caso, circolo
vizioso o relazione speculare che sia, è in questo orizzonte che l’asse
Dio-coscienza può istituire il dominio del tempo della materia, assoggettando
l’intreccio alla linea, la coppia virtù / fortuna a quella mezzo / fine,
l’occasione generata dal policronismo all’istante puntuale dell’instaurazione
del diritto nella linea della storia. 2. L’interpretazione
hegeliana di Machiavelli Un ampio
riferimento a Machiavelli è contenuto nel capitolo 9 della Costituzione della Germania, che è stato redazionalmente intitolato
“La formazione degli Stati nel resto di Europa”. Il capitolo prende avvio
dall’analisi della situazione simmetrica e opposta di Francia e Germania:
entrambi gli Stati avevano al loro interno gli stessi due principi di
dissoluzione, ossia i nobili e le differenti confessioni religiose, e tuttavia,
scrive Hegel, nell’uno
di essi Richelieu li distrusse radicalmente, e fece così della Francia uno
degli Stati [Staaten] più potenti, nell’altro diede
loro tutti i poteri [alle Gewalt], e soppresse così l’esistenza
di esso come Stato. In entrambi i paesi [Ländern] egli
portò a piena maturità il principio che costituiva la loro interna struttura [das Prinzip,
darauf sie innerlich gegründet waren]; il principio della Francia era
la monarchia, quello della Germania la formazione di una moltitudine di Stati
indipendenti. Nessuno dei due aveva ancora definitivamente abbattuto il
principio opposto; Richelieu riuscì a portare entrambi i paesi al loro sistema
stabile, ciascuno dei quali era opposto all’altro [zu ihrem festen einander
entgegensetzten System] (11). Hegel
ricostruisce il modo in cui Richelieu si sbarazzò dei due principi che
impedivano alla Francia di divenire una monarchia: costrinse i grandi a
obbedire al potere statale, dando unità al potere esecutivo dello Stato, e
schiacciò la fazione politica degli ugonotti, concedendo loro la libertà di
coscienza: Riuscì
così alla Francia – conclude Hegel –, e anche all’Inghilterra, alla Spagna e
agli altri paesi europei di pacificare e di unificare quegli elementi che
fermentavano nel loro seno [zu zertrümmern drohenden Elemente zur Ruhe und zur
Verbindung zu bringen], e che minacciavano di distruggere lo Stato; e di
giungere [...] a edificare un centro [Mittelpunkt]
ispirato a leggi liberamente stabilite [nach Gesetzen durch Freyheit bestimmten] e che
sapesse raccogliere tutte le forze – la forma propriamente monarchica, o quella
che oggi si chiama repubblicana (12) . Mentre
Francia, Spagna e Inghilterra giunsero a costituire uno Stato centralizzato,
aprendo “die Periode der Macht, des Reichtums
des Staates”, l’Italia ebbe “un destino [Schicksal]” comune
a quello della Germania: ogni punto del territorio acquistò sovranità divenendo
un “groviglio di stati indipendenti [ein Gewühl unabhängiger Staaten]” alla
mercé delle potenze straniere. Questo fu il desolante orizzonte che Machiavelli
si trovò a pensare: [...]
quando tedeschi, spagnoli, francesi e svizzeri la mettevano a sacco, ed erano i
gabinetti stranieri a decidere la sorte delle nazioni, ci fu un uomo di Stato
italiano che nel pieno sentimento di questa condizione, di miseria universale,
di odio, di dissoluzione, di cecità concepì, con freddo giudizio, la necessaria
idea che per salvare l’Italia bisognasse unificarla in uno Stato [fasste ein
italienischer Staatsmann mit Kalter Besonnenheit die nothwendige Idee der
Rettung Italiens, durch Verbindung desselben in einen Staat] (13). Hegel fa
di Machiavelli il teorico ante-litteram
dell’unità italiana ed in questa prospettiva respinge lo stereotipo del
machiavellismo: il segretario fiorentino parla infatti “con un tono di verità
che scaturisce dalla sua serietà [Wahrheit des Ernstes]”, per questo “non poteva
avere bassezza nel cuore, né capricci nella mente”; egli non è il teorico di
“una tirannia, uno specchio dorato presentato ad un ambizioso oppressore”,
bensì della libertà, dato che “la libertà è possibile solo là dove un popolo si
è unito, sotto l’egida delle leggi, in uno Stato [Freyheit nur in der gesetzlichen
Verbindung eines Volkes zu einem Staate möglich sey]” (14). In
questo senso anche la discussione morale sul fatto che i mezzi proposti da
Machiavelli siano ripugnanti (“il fine non giustifica i mezzi”) perde di
significato. I mezzi proposti da Machiavelli sono strettamente commisurati alle
condizioni dell’Italia del suo tempo: Una
condizione nella quale veleno e assassinio – scrive Hegel – sono diventate armi
abituali non ammette interventi correttivi troppo delicati. Una vita prossima
alla putrefazione può essere riorganizzata solo con la più dura energia [durch das
Gewaltsame Verfahren] (15). Sarebbe
dunque assurdo concepire Il Principe
come un compendio buono per tutte le situazioni, esso è strettamente
commisurato alla situazione italiana dell’epoca. E, in ogni caso, i mezzi
ripugnanti che Machiavelli propone devono essere osservati dall’angolo visuale
del fine che Machiavelli pone: “L’Italia doveva essere uno Stato [Italien
sollte – ein Staat seyn] [...] – e questo universale è ciò che Machiavelli
presuppone, questo egli esige, questo è il suo principio per rimediare alla
miseria del suo paese”
(16). Posto un tale universale come fine, il comportamento del
principe “si configura in tutt’altro modo”: Ciò che
sarebbe riprovevole se esercitato da un privato contro un privato, o da uno
Stato contro un altro Stato, o contro un privato, è adesso una giusta pena [gerechte
Strafe]. Promuovere l’anarchia è il peggiore delitto [Verbrechen], anzi,
l’unico delitto che si possa commettere contro uno Stato; ed essa si possono
ridurre tutti i delitti che lo Stato è tenuto a reprimere [...] L’esercizio da
parte dello Stato, di tale altissimo dovere [Pflicht] non è più un mezzo, ma pena (17). Coloro
che aggrediscono lo Stato sono i criminali peggiori, e dunque la punizione non
può essere considerata un mezzo ripugnante, ma pena, altrimenti la punizione di
ogni delinquente dovrebbe essere considerata una cosa ripugnante. In
sintesi, Machiavelli sarebbe il teorico dell’unità nazionale italiana, del
principio universale dello Stato e dunque della libertà, poiché non vi può
essere libertà se non dentro lo Stato. Tenuto conto del fatto che questo è il
fine supremo, i mezzi non sono altro che negazione della negazione del diritto,
cioè pena. Tutto
questo in teoria. Ma, nella pratica, quale soggetto politico fu individuato da
Machiavelli come il portatore di questa missione? Colui dal
quale Machiavelli aveva sperato la salvezza d’Italia era, secondo ogni
evidenza, il duca Valentino, un principe il quale, con l’aiuto di suo zio [quandoquidem dormitat Hegel!], ed anche
con il suo coraggio, e con inganni di ogni genere, aveva messo insieme uno Stato
con i principati dei duchi Orsini, Colonna, di Urbino ecc. (18) Era
dunque il duca Valentino l’individuo, che come Richelieu in Francia, avrebbe
dovuto identificarsi con il principio, l’unità dello Stato. Ciò tuttavia non
avvenne, e sulle ragioni di questo fallimento Hegel e Machiavelli non sono
concordi: Machiavelli
attribuisce la caduta di Valentino, oltre agli errori politici, anche al caso [Zufall], che lo volle immobilizzato
dalla malattia proprio nel momento più decisivo [in dem entscheidendsten Augenblick], quello della morte di
Alessandro; noi, invece, dobbiamo scorgere nella sua caduta [Fall], una più alta necessità [eine höhere
Nothwendigkeit], che non gli consentì di godere i frutti delle sue
azioni, né di utilizzarli per giungere ad una potenza anche maggiore. La natura
infatti, come si vede dai suoi vizi, sembra averlo destinato ad uno splendore
effimero, e ad essere un mero strumento della fondazione di uno stato [zu einem blossen Instrumente der Gründung
eines Staates]; ed inoltre una gran parte della potenza alla quale egli
arrivò non si basava su un diritto naturale interiore, e neanche su un diritto
naturale esteriore, ma soltanto sul ramo spurio della dignità ecclesiastica di
suo zio [auf einem innern und auch nicht
aüssern natürlichen Rechte beruhte, sondern auf dem fremden Zweig der
geistlichen Würde seines Oheims geprüfte war] (19). Vediamo
come Machiavelli descrive il caso: [...]
Alessandro morì dopo cinque anni ch’egli aveva cominciato a trarre fuori la
spada. Lasciollo con lo stato di Romagna solamente assolidato, con tutti gli
altri in aria, intra due potentissimi eserciti inimici, e malato a morte (20). Il caso
di cui parla Hegel è in Machiavelli l’occasione qui non come congiunzione che
dà origine ad un mondo ma come incontro distruttivo. Non vi sono errori
politici nella strategia del Valentino secondo Machiavelli (“Raccolte io
adunque tutte le azioni del duca, non saprei reprederlo” (21)), né il caso della
malattia intesa come interruzione istantanea della temporalità lineare
dell’azione di un soggetto: vi è precisamente l’affermazione di un policronismo
che dà luogo all’occasione, l’affermazione che non è lo svilupparsi di un ritmo
temporale che determina la caduta del Valentino, ma l’intreccio di più ritmi
appartenenti a livelli ontologici differenti, ritmi biologici (la malattia di
Valentino, la morte di Alessandro VI), politici (l’elezione di un nuovo Papa a
lui sfavorevole, la situazione interna degli Stati conquistati), militari (la
forza e il numero degli eserciti nemici). Questo intreccio plurale è il tessuto
materiale di quella “straordinaria ed estrema malignità di fortuna” che gli
impedì di realizzare i suoi disegni: [...] era
nel duca tanta ferocia e tanta virtù, e sì bene conosceva come gli uomini si
hanno a guadagnare o perdere, e tanto erano validi e’ fondamenti che in sì poco
tempo si aveva fatti, che, se lui non avessi avuto quegli eserciti addosso, o
lui fosse stato sano, arebbe retto a ogni difficoltà (22). Non è
facile comprendere esattamente cosa intenda Hegel quando afferma che la potenza
a cui giunse non si basava né su “un diritto naturale interiore” né “su un
diritto naturale esteriore”: forse significa che non era né re per nascita, né
investito da un re della missione di creare lo Stato (come Richelieu in
Francia). È chiaro invece il riferimento al “ramo spurio della dignità
ecclesiastica”: Hegel credeva che Valentino fosse il nipote di Alessandro VI.
Avesse saputo che era il figlio del papa, un bastardo, avrebbe probabilmente
sottolineato con ancora maggior forza il legame tra le sue origini, il suo
essere (il suo “splendore effimero”), la sua funzione (“mero strumento”) e la sua
fine: un bastardo a maggior ragione è un mero prodotto della natura non
inscrivibile nella sfera del diritto. Per questo vi è una più “alta necessità”
nella sua caduta: non è il semplice intreccio di differenti ritmi di
materialità, ma l’istante in cui si manifesta l’inadeguatezza ad una missione
di cui il Valentino non poteva essere portatore. Senza
voler proiettare sul giovane Hegel categorie della maturità, mi sembra che si
possa cogliere qui all’opera una concezione della temporalità che neutralizza
del tutto la contingenza. L’operazione è condotta su un duplice piano: sul
piano politico della fondazione, in cui la coppia speculare Stato-popolo doma
la contingenza del conflitto da cui è emersa travestendo la violenza del
vincitore nei termini giuridici della pena; sul piano storico della durata lo
Stato diviene il soggetto attraverso cui scorre la linea-tempo, scorrimento che
trasfigura ogni contingenza in una necessità destinale. 1) Quanto
alla fondazione, Hegel sembra sovrapporre al pensiero di Machiavelli una
problematica di tipo hobbesiano. In Hobbes l’istante dell’instaurazione dello
Stato è paragonata alla creazione: I patti e le convenzioni, da cui le parti del corpo politico sono state
primieramente fatte [were at first made], messe insieme e unite,
rassomigliano a quel fiat, o a quel facciamo l’uomo, pronunciato da Dio
nella creazione (23). Il fiat che instaura lo Stato costituisce
con la medesima mossa un popolo che nella teoria hobbesiana è il “correlato
dell’autorità dispotica” ma che può anche essere pensato, nella versione
roussoviana, come “depositario diretto di essa” (24). Prima dello Stato non vi era che l’anarchia della
moltitudine. L’instaurazione dello Stato ha come suo necessario contraccolpo la
creazione del popolo, cioè di un ente che è “unum quid, unam habens voluntatem, et cui actio una attribui possit”. Nulla di tutto ciò
può invece essere detto della moltitudine: “Multitudo cives sunt, hoc est
subditi”. Se dunque il popolo è il nome di colui che regna nello Stato (dunque
nella monarchia “il re è il popolo”) e la multitudo è il nome dei cittadini, cioè dei sudditi, ne consegue
che “quando i cittadini si ribellano allo Stato sono la moltitudine contro il
popolo” e non, come vorrebbe una dottrina sediziosa, “lo Stato [cioè il popolo]
contro il re, che è impossibile” (25). Come scrive Virno, “nell’esistenza sociale e politica dei
molti in quanto molti, nella pluralità che non converge in una unità sintetica,
[Hobbes] scorge il massimo pericolo per il ‘supremo imperio’, cioè per quel
monopolio della decisione politica che è lo Stato” (26). Proprio
applicando questo schema Hegel annulla la contingenza del conflitto che è al
centro della teoria politica machiavelliana (27), unifica de iure,
ideologicamente, la temporalità plurale dal cui intreccio ogni potere emerge e
può essere travolto: l’istante dell’instaurazione dello Stato diventa il luogo
dell’affermarsi della libertà del popolo (libertà regolata da leggi contro
l’arbitrio dei signori feudali) ed in questo contesto la violenza contro chi si
oppone allo Stato acquista la forma giuridica della pena, diventa negazione di
quella radicale negazione di ogni ordine civile che è lo stato di anarchia
moltitudinario. 2) Per
quanto riguarda poi la dimensione storica, Hegel fa dello Stato il padrone
della linea-tempo poiché non si dà storia se non unitamente alla sua
narrazione, e non si dà quest’ultima se non dove una nazione acquista una forma
statale: un tempo solo dunque ed un soggetto che agisce secondo la logica
mezzi-fini attraversato da una “più alta necessità”, un destino. Si tratta
della necessità del capitolo sulla realtà della Scienza della logica, che innalza la contingenza e la guida al
concetto. Ciò che è del tutto neutralizzato, nella lettura hegeliana, è la
potenza demistificante del concetto machiavelliano di occasione, il fatto che
questo costringa a porre ogni realtà storica nell’abisso della fluttuazione
delle forze da cui è emersa e a mostrare come la memoria non sia la
reduplicazione del tempo garantita dal sigillo statale, bensì la posta in gioco
del conflitto. Non è un caso che in quello straordinario ripensamento
sistematico delle categorie dell’Occidente filosofico che è la Scienza della logica non vi sia nemmeno
una riga dedicata alla Gelegenheit,
all’occasione (28) .
Nell’idea in sé, nella mente di Dio prima della creazione del mondo, non sembra
esservi spazio per l’occasione; essa sembra avere un suo spazio, sia pure
irrilevante, nel farsi spirito, storia, dell’idea. In un celebre passaggio a
proposito della genesi della riforma protestante, Hegel scrive: [...] dal
punto di vista complessivo l’occasione è indifferente [Doch ist im
ganzen die Veranlassung gleichgültig]: quando la cosa è in sé e per
sé necessaria, e lo spirito è in sé pronto, essa può manifestarsi tanto in un
modo quanto in un altro
(29). Un tempo
solo dunque, il tempo dello spirito: “Quando si hanno compiutamente tutte le
condizioni di una cosa, la cosa entra nella realtà [Wenn alle Bedingungen einer Sache
vorhanden sind, so tritt sie in die Existenz]” (30), sempre in orario, al
tempo giusto, come un bravo attore che ha imparato bene il copione. Il concetto
machiavelliano di occasione non afferma semplicemente la casuale contemporanea
presenza di tutte le condizioni, ma di più, l’impensabilità della cosa prima
ch’essa nasca dalle condizioni, che non sono lì perché la cosa entri nella
realtà, e che dunque, a parlare propriamente, non sono condizioni (nel senso
leibniziano di requisita (31)). Quelle che Hegel chiama
condizioni sono in Machiavelli ritmi singolari, con una storia singolare, a
loro volta risultato impensabile, se non a
posteriori, di altre storie. È questo intreccio di ritmi, di tempi, di
forze, di strategie dell’uomo, della volpe e del leone che Hegel unifica
attraverso la coppia Stato/Storia facendo di essa il luogo di manifestazione
nel tempo della libertà. 3. Lucrezio
e Machiavelli In quale
orizzonte ontologico è necessario pensare la teoria machiavelliana
dell’occasione per salvaguardarne la contingenza intesa come punto di
oscillazione, ossia perché essa non sia, come in Descartes, sempre già decisa e
dunque tradita nel circolo vizioso Dio-coscienza, oppure perché essa non
divenga come in Hegel il pretesto di un’essenza che deve comunque manifestarsi?
In entrambi i casi ne deriva uno sguardo sull’accadere che ne annulla le
oscillazioni: ciò che è accaduto, doveva accadere, aveva il diritto di accadere
(e ciò che non è accaduto non ne aveva il diritto, come testimonia la lettura
hegeliana dell’episodio della disfatta di Cesare Borgia). Un primo
passo in questa direzione potrebbe essere compiuto tracciando una genealogia.
Come è noto Machiavelli è stato un lettore di Lucrezio, in gioventù ha copiato
per sé il De rerum natura. Non si
tratta di fissare in quest’opera un’origine semplice e transitiva di una
ipotetica filosofia di Machiavelli, quanto piuttosto di scovare dei materiali
teorici che il segretario fiorentino può aver utilizzato nelle sue analisi
politiche. In questa prospettiva mi sembra si possano individuare nell’opera di
Lucrezio tre elementi fondamentali: un rigoroso determinismo, la teoria della
contingenza di ogni forma, una allusione ad una teoria della temporalità
plurale. 3.1 I
foedera naturae. A più
riprese, nel suo poema, Lucrezio afferma l’esistenza di leggi naturali, di foedera naturae, che danno conto di
“quel che può essere, / quel che invece non può, e per quale ragione ogni cosa
/ ha un potere limitato e un termine infisso nel suo intimo”(V, vv. 85-90) (32). Ex nihilo nihil fit, nulla nasce dal nulla. Questa proposizione è
posta da Lucrezio alla base della sua concezione della natura. Nel primo libro,
dopo il celebre elogio di Epicuro e l’apologia della sua dottrina, Lucrezio
enuncia il principium cuius nobis exordia
sumet, che permetterà di scacciare “lo sgomento che possiede tutti i
mortali / perché scorgono in terra e in cielo accadere fenomeni / dai cui
effetti non possono in alcun modo vedere le cause, e assegnano il loro prodursi
al volere divino” (33): nullam rem a nilo
gigni divinitus umquam, nessuna cosa nasce dal nulla per un cenno divino.
Se infatti qualcosa potesse nascere dal nulla, l’universo sarebbe del tutto
privo di ordine: Se
infatti nascesse dal nulla, da tutte le cose potrebbe prodursi ogni
specie e più nulla avrebbe bisogno di un seme. Anzitutto
dal mare potrebbero sorgere gli uomini, dalla terra le specie
dei pesci squamosi, ed erompere dall’aria gli uccelli, e gli
armenti e tutte le greggi, e ogni specie di fiere, generati
a capriccio vivrebbero nei campi e nei luoghi deserti. I
medesimi frutti non avrebbero sede consueta sugli alberi, ma sempre
diversa, ciascuno portato da tutti. E certo,
se non esistessero i germi fecondi di ognuno, in che
modo potrebbe sussistere una certa matrice delle cose? Ma poiché
tutti i corpi si creano da semi specifici, di qui
deriva che nasce e affiora alle rive della luce ciascuno
dov’è la materia sua propria i germi essenziali [corpora prima]; […] E
inoltre, perché in primavera vediamo sbocciare la rosa, d’estate
il frumento, al richiamo autunnale la vite, se non
fosse perché, quando i semi distinti delle cose confluiscono
a tempo opportuno, ogni cosa creata si schiude, mentre il
corso delle stagioni è propizio e la vivida terra sicura le
tenere cose germoglia alle rive del sole? Che se
fossero nate dal nulla, d’un tratto uscirebbero in spazi
promiscui e in estranee stagioni dell’anno (34). Come dice
bene Jean Salem commentando questo passo, tutto nella natura ha un suo ritmo,
ed in questo precisamente consiste la regolarità della natura: “il serait fort imprudent d’opposer de manière outrée la nécessité démocritéenne à un hasard censé régir l’univers des
épicuriens. […] Lucrèce ne cesse jamais d’invoquer les foedera naturae, […] lesquelles délimitent l’empan de tous les possibles,
la série des choses qui sont susceptibles de naître” (35). L’esistenza
di questa regolarità della natura si fonda sull’esistenza di corpuscoli solidi pollentia simplicitate, infiniti
per numero e non per differenza, che aeterno
tempore permangono immutabili: […]
poiché è assegnato alle cose, secondo la specie, un
termine al loro crescere e mantenersi in vita, e per
legge di natura [foedera naturai]
risulta stabilito ciò che
ognuna possa e ciò che invece non possa, né si muta
alcunché e anzi tutti i caratteri permangono al punto
che i variegati uccelli nel succedersi delle generazioni mostrano
tutti sul corpo le chiazze della loro specie […] (36). Il ciclo
sempre uguale delle stagioni, il permanere delle medesime forme nel succedersi
delle generazioni delle specie viventi sembrano essere gli esempi privilegiati
dei foedera naturai. Come scrive
Lucrezio nel secondo libro, dopo il celebre passaggio sul clinamen, “il moto che ora agita i corpi delle particelle
elementari / è il medesimo che le ha sempre agitate nel tempo trascorso; /
sempre in futuro saranno trasportate con la stessa velocità, / e ciò che ora
era solito prodursi si produrrà nella medesima condizione, / e vivrà, e
crescerà e acquisterà certamente vigore, / quanto a ogni cosa è assegnato per
legge di natura” (37). L’immutabilità
delle particelle elementari fonda la conoscibilità della natura ed allo stesso
tempo la norma di ciò che può essere ed invece di ciò che è impossibile: Tuttavia
non devi ritenere che tutte le particelle elementari possano
aggregarsi in ogni caso. Allora vedresti dappertutto prodursi
mostri, sorgere parvenze d’uomini a metà fiere, e talora
alti rami spuntare da un corpo vivente e molte
membra di esseri terrestri connettersi a creature marine, e sulla
terra genitrice di tutto la natura pascere le
Chimere spiranti fiamme dall’orrida bocca. Ma è
evidente che nulla di ciò accade, perché vediamo che tutte
le cose generate da semi certi [seminibus
certis] e da sicura matrice possono
serbare crescendo i caratteri della specie. Certamente
ciò deve avvenire in virtù di una stabile norma [certa ratio]
(38). In questi
versi compare due volte l’aggettivo certus,
determinato, che Jean Salem ci dice ricorrere circa 100 volte nel poema: la
determinatezza dei semi, il fatto di essere determinati in una dato modo, fonda
la determinatezza della ratio che
regola il divenire, ratio che non è
né trascendente né trascendentale: è infatti la stessa conformazione dei corpi,
il loro essere così e non altrimenti senza una ragione, che determina la
possibilità della loro composizione, la possibile esistenza di alcune cose è
l’impossibile esistenza di altre. Proprio questa determinatezza che ogni cosa
che nasce riceve dalla natura fa sì che non possano esistere creature
mitologiche, creature costituite da una duplice natura: […] i
Centauri non ci furono mai, e in nessuna epoca possono
esistere creature di doppia natura e duplice corpo, formate
da membra eterogenee, così da avere facoltà e forza
bastanti e uguali in entrambe le parti. Questo
anche un animo ottuso potrà comprendere da quanto
dirò. Circa in tre anni fiorisce l’alacre
cavallo, ma non certo un bambino, che a quell’età cercherà
ancora spesso nel sonno il seno colmo di latte. Poi
quando al cavallo in vecchiaia scemano le gagliarde forze e si
estenuano le membra languenti per la vita che fugge, allora al
pieno fiorire del ragazzo comincia la giovinezza e copre
le sue gote di una lieve lanugine (39). Le
creature mitologiche non possono esistere, né essere esistite, perché ogni
essere ha una sua temporalità, un suo ritmo determinato che non può essere
armonizzato, se non nell’immaginazione poetica, con quello di un altro. 3.2 La
contingenza di ogni forma L’affermazione
dell’esistenza di patti della natura sembra fondare una sorta di determinismo
in cui è garantito il permanere delle forme: il ciclo delle stagioni, il
riprodursi delle specie viventi sembrano annullare ogni forma di contingenza.
Il divenire è incanalato sui binari di una necessità che non ammette alcuna
infrazione. Tuttavia non è così: questa regolarità, questo permanere ciclico
non è il primum, ma è un effetto,
fondato sull’abisso di quella che Jankélévitch definirebbe propriamente una
policronia senza armonia. Scrive Lucrezio: Certamente,
infatti, gli atomi non si sono disposti ciascuno
nell’ordine proprio per un loro disegno sagace, né certo
pattuirono quali moti essi avrebbero impresso; ma poiché
in mille modi diversi, sbalzati dagli urti, senza
posa si aggirarono nel vuoto da tempo infinito, e
provavano ogni genere di moto e ogni tipo di unione [coetus experiundo], giungono
infine ad assumere quelle tali disposizioni di cui
consiste l’attuale struttura dell’universo (40). All’origine
della forma non vi è dunque né un telos immanente,
una natura intesa in senso aristotelico come principio del movimento e della
quiete di un dato essere, né un piano divino (mens sagacis), sia esso pensato come immanente o trascendente.
L’attuale struttura dell’universo è invece il risultato di un numero infinito
di urti, di movimenti, di unioni, risultato di infiniti tentativi in un tempo
infinito, potremmo dire, a patto di intenderci sul fatto che i tentativi sono
tali solo rispetto al fatto della struttura attuale dell’universo, a
posteriori, con uno sguardo retrospettivo, ma non nel senso che essi in sé
implicassero incompletezza o imperfezione. Una prima
conseguenza di questa teoria è l’infinità dei mondi: [non] può
in nessun modo apparire verosimile, laddove
lo spazio si apre ovunque infinito e i germi
di numero innumero e di somma abissale volteggiano
in mille maniere sospinti da un moto perpetuo, che solo
questa terra e questo cielo siano stati creati, e che
fuori di essi tanti corpuscoli basilari non producano nulla; soprattutto
perché questo mondo è opera della natura, e i
corpuscoli urtandosi a caso per forza spontanea, variamente,
senza ordine o frutto, e invano addensati, riuscirono
infine a formare a un tratto quei nuovi aggregati che
divenissero per sempre la base delle grandi sostanze, la terra,
il mare il cielo, le specie viventi. Perciò è
sempre più necessario che tu riconosca che
esistono altrove nell’universo altre unioni di corpi materiali, come
questa che l’etere cinge di un avido amplesso (41). Una
seconda conseguenza fondamentale è il fatto che il mondo ha una nascita ed una
morte: […] non
mancano […] i corpi i quali,
avventandosi dall’infinito, possano per caso travolgere con
turbinosa violenza il nostro orbe terrestre, o
apportargli alcun altro distruttivo pericolo: d’altra
parte non difetta lo spazio né la profondità dell’abisso, dove
tutte le barriere del mondo possano disperdersi o
percosse da qualunque altra forze distrutte. E dunque
la porta della morte non è chiusa neanche al cielo, né alla
terra, né al sole, né alle profonde acque del mare, e anzi li
attende e li scruta con vasta e immensa voragine. Perciò
devi anche ammettere che queste stesse sostanze hanno
avuto un principio infatti ogni cosa che sia di
essenza mortale non avrebbe potuto sprezzare, dall’eternità
fino a ora, le irresistibili forze del tempo sterminato (42). Infine,
la terza conseguenza, forse la più importante dal punto di vista teorico è
quella che Althusser chiama il primato dell’incontro sulla forma: Il tempo
infatti trasforma la natura del mondo, ed è
legge che una nuova condizione s’avvicendi alla precedente e
impronti di sé l’universo: nulla rimane uguale a se stesso, tutto si
trasforma, la natura costringe ogni cosa a modificarsi e a mutare. Una cosa
si decompone e langue sfinita dal tempo, ma ecco
un’altra ne sorge ed esce dal dispregio. Così
dunque il tempo modifica la natura del mondo e la
terra passa da uno stato all’altro, impotente a produrre ciò che
prima poteva, ma capace di creare quel che prima non poteva. In antico
la terra tentò di creare anche numerosi portenti, creature
fornite di membra e sembianti orridi e strani, l’androgino,
né l’uno né l’altro dei sessi, ugualmente lontano da entrambi, essere
privi di piedi o di mani, o muti,
mancanti di bocca, o ciechi, generati senza volto, o avvinti
per tutto il corpo da membra aderenti fra loro, e tali
che nulla potessero fare, né ritrarsi in alcun luogo, né
evitare un pericolo, né prendere nulla del necessario. Generava
ogni sorta di mostri e prodigi, ma
invano, poiché la natura ne impedì la crescita: quei
mostri non poterono raggiungere il fiore desiderato dell’età, né
trovare cibo, né congiungersi nell’atto di Venere. è evidente che molte cose devono concorrere negli
esseri affinché
riproducendosi possano formare le stirpi (43). La
regolarità delle forme e il loro permanere ciclico è in realtà fondato sull’abisso.
La forma non persiste in virtù della propria teleologia, ma ogni forma è
l’effetto di una congiunzione che solo in presenza del concurrere multa rebus può divenire una congiuntura, una
congiunzione che dura. Si era detto che Lucrezio aveva negato l’esistenza delle
creature mitologiche sulla base dei foedera
naturae che regolano il divenire delle forme, poiché questi impediscono ad
una essere naturale di essere il composto di due ritmi temporali completamente
differenti. Questa negazione, però, non implica, come si potrebbe credere ad
uno sguardo superficiale, l’affermazione dell’immutabilità e della limitatezza
delle forme, quanto piuttosto la necessità di pensare, e non immaginare, la
loro reale molteplicità e instabilità, e, ancor più radicalmente, la loro
esistenza non solo come un ritmo tra altri, ma come un con - currere, un correre/scorrere insieme, un intrecciarsi
necessario dei ritmi, senza il quale nessuna esistenza singolare potrebbe mai
darsi. Come scrive Lucrezio, in uno splendido verso, “inter se mortales mutua
vivunt” (44). 3.3. La temporalità plurale In questa
prospettiva genealogica mi sembra si possa cominciare a gettare luce sulla
teoria machiavelliana dell’occasione: i ritmi plurali degli atomi fondano allo
stesso tempo la necessità e la contingenza di ogni accadere. Perché si dia
occasione di generazione e di distruzione di un mondo, è necessario pensare più
tempi, più ritmi e non un tempo solo di cui gli eventi sarebbero il puntuale
apparire in una serie continua o discontinua: il successo di Richelieu (del
Principe legittimo), la caduta di Cesare Borgia (dell’usurpatore). In
Lucrezio non vi è però una vera e propria teoria del tempo, piuttosto un
accenno e un’allusione. L’accenno si trova in alcuni versi al centro del I
libro in cui Lucrezio afferma che il tempo non è in alcun modo una natura come
il vuoto e la materia, non ha una sua sussistenza separata dalle cose che
accadono, ma deriva da questo accadere: Dunque
oltre il vuoto e la materia, una terza natura non può
in alcun modo essere annoverata fra le cose, […] Ugualmente
il tempo non esiste per sé, ma dalle cose stesse deriva il
senso di ciò che è trascorso nei secoli, di ciò
che incombe, o poi seguirà nel futuro. Né si
deve ammettere che alcuno avverta il tempo separato
dal movimento delle cose e dalla placida quiete. […] […] puoi
vedere con chiarezza che tutti indistintamente gli eventi [res gestae] non
sussistono di per sé, né sono come i corpi, né si
possono dire della stessa natura del vuoto, ma sono
tali che più giustamente li puoi denominare accidenti
[eventa] della materia e dello
spazio, dove si produce ogni cosa (45). Lucrezio
sembra esporre qui la teoria della temporalità che Sesto Empirico attribuisce a
Epicuro, secondo cui “il tempo è accidente di accidenti, in quanto è connesso
ai giorni, alle notti, alle stagioni, alle affezioni e all’assenza di
affezioni, ai movimenti e agli stati di quiete”, che sono “accidenti che
sopravvengono a realtà diverse” (46). Non è difficile rintracciarvi una polemica con la
concezione stoica, ma, forse più interessante rispetto al nostro percorso,
anche quella con la teoria platonica esposta nel Timeo secondo cui il demiurgo plasma il tempo come “immagine mobile
dell’eternità che procede secondo il numero”, generando “i giorni e le notti e
i mesi e gli anni [...] insieme alla costituzione del cielo medesimo”, e poi,
per distinguere e conservare “i numeri del tempo”, “il sole e la luna e cinque
altri astri” (47). Le parti del tempo precedono nell’ordine delle cose
plasmate dal demiurgo (potremmo forse dire “logicamente” se non fossimo
nell’ambito di un discorso verosimile) i pianeti ed i loro movimenti che non
sono altro che strumenti di misurazione delle differenti parti del tempo,
plasmati a questo scopo, segni di un ordine e di una partizione del tempo che
preesiste loro: il movimento di rivoluzione delle stelle fisse è la misura del
giorno, quello della luna del mese, quello del sole dell’anno, quello degli
altri cinque pianeti infine di parti di tempo ben determinate, seppure senza
nome. Quando
Epicuro afferma che il tempo è accidente di accidenti delle cose sembra
rifiutare proprio una simile concezione del tempo: il tempo non è la
duplicazione sensibile di un’idea intelligibile, l’eterno, ma è l’effetto
dell’accadere delle cose, e perciò non può porsi come luogo teorico in cui si
unifica ogni divenire, ma è piuttosto ciò che risulta dalla pluralità dei ritmi
delle cose esistenti (48). Volendo tradurre letteralmente un’espressione della
lettera a Erodoto, il tempo è un “sintomo [sumptoma]
specifico” dell’accadere delle cose (49). Ritornando
a Lucrezio, troviamo una vera e propria allusione ad una teoria plurale della
temporalità a proposito della teoria dei simulacra,
di “queste tracce delle forme che aleggiano ovunque forniti di sottile trama” e
che “non si possono scorgere isolati uno ad uno” (50). Ora, questi simulacri fluiscono dalla superficie dei
corpi di continuo, “texturas rerum tenuis tenuisque figuras” (51). Non si tratta dunque di
un’azione transitiva attraverso il simulacro dell’oggetto sul soggetto della
percezione (azione che permetterebbe di disporre su una linea-tempo le
percezioni successive), ma piuttosto di una azione della textura rerum attraverso la textura
dei simulacra sulla textura del corpo: Altro e
diverso è il vero. Poiché in un singolo istante, che
percepiamo – il tempo di emettere un’unica voce –, si celano
numerosi attimi, di cui la ragione scopre l’esistenza (52). In uno tempore, tempora multa latent. In un
istante si nasconde un intreccio di temporalità. La caduta di Cesare Borgia non
è l’irruzione dell’istante semplice della creazione continuata del Dio
cartesiano né della più alta necessità hegeliana che permea la contingenza, ma
l’effetto di questo intreccio di temporalità latenti che la ragione scopre se
va dietro alla verità effettuale della cosa e non all’immaginazione di essa. 4. Agostino,
Aristotele e Machiavelli. Ricostruire
la genealogia Machiavelli-Lucrezio consente di meglio cogliere una teoria mai
messa esplicitamente a tema dal segretario fiorentino, ma che costituisce
piuttosto la condizione di possibilità della sua teoria politica. Laurent
Gerbier ha recentemente dedicato una tesi di dottorato al tessuto metaforico
dei testi machiavelliani concernenti il tempo con il preciso scopo di far
emergere la teoria in essi implicita. La prima
mossa di Gerbier, dall’antico sapore storicista, consiste nel fare della teoria
machiavelliana della temporalità nient’altro che l’espressione in pensieri del
suo mondo presente, del suo orizzonte storico: le città italiane che, dandosi
delle istituzioni libere a partire dal secolo XI, si sono sottratte alla
duplice tutela della Chiesa e dello Stato, sottraendosi con ciò all’eternità
della rivelazione ed alla sempiternità dell’impero ed esponendosi alla
variazione dei tempi, all’irruzione della novità (53). Da ciò consegue, secondo Gerbier, il rifiuto
machiavelliano della metafisica a vantaggio di una vera e propria fisica della
politica. In questa prospettiva interpretativa diventa però dirimente la
questione circa il concetto di tempo di cui dispone Machiavelli, se si tratti
cioè del tempo della Fisica
aristotelica in cui gli istanti si succederebbero omogenei e vuoti, oppure di
un tempo che, lungi dall’essere molteplicità giustapposta di istanti presi partes extra partes, semplicemente
numerati, sia invece molteplicità di tensioni, sovrapposte nell’istante e
sviscerate dal ragionare dello Stato. Gerbier ritiene che alla molteplicità
degli istanti giustapposti Machiavelli opponga la molteplicità delle fibre del
tempo che si intrecciano ad ogni momento, proprio perché egli rielabora nel
pensiero la congiuntura storica delle città italiane in cui non vi sarebbe
l’unità del tempo successivo e omogeneo della Chiesa o dell’Impero, ma
l’intreccio che costituisce la novità dell’istante. Secondo
Gerbier Machiavelli arriverebbe a questa concezione della temporalità non tanto
leggendo la situazione politica italiana attraverso la concettualità
lucreziana, ma piuttosto prendendo in contropiede la celebre critica agostiniana
della riduzione del tempo al moto: Ho
sentito una volta affermare da un dotto che il tempo non è altro che il moto
del sole, della luna e degli astri, ma non gli ho dato ragione. Perché allora
il tempo non potrebbe essere il moto di tutti i corpi? Ma se si fermassero i
luminari del cielo e continuasse a girare la ruota di un vasaio, forse che non
ci sarebbe più il tempo per misurare quei giri […] e di dire se si susseguono a
ritmo costante o se alcuni vanno più lenti, altri più veloci, alcuni più lunghi
altri più brevi? (54) L’argomento
agostiniano è naturalmente funzionale all’affermazione della spiritualità del
tempo, a stabilire la priorità del legame del tempo con l’anima piuttosto che
non con il movimento, mentre Machiavelli accetterebbe l’esempio in tutta la sua
radicalità: «tout mouvement – scrive
Gerbier –, toute opération, toute tension effectuée dans le monde engendre
effectivement son temps propre; et c’est de cette multiplicité des temps qu’il
faut comprendre les articulations» (55). Il tempo di Machiavelli è un tempo fibroso fatto di una
molteplicità di microcontinuità intrecciate e irriducibili ad una misura neutra
ed astratta. Non si può riportare il corso
del tempo ad un movimento ultimo, «il s’agit seulement de comprendre comment
chaque action engendre du temps, ou, plus exactement, engendre dans le chaos
des instants un ordre, à son voisinage, que l’on pourra décrire comme ‘son’
temps» (56). Per questo secondo Gerbier la metafora che domina la
trattazione machiavelliana del tempo è quella del liquido, denso, intessuto di
fibre, di velocità e direzioni differenti: il tempo è un rapporto di potenze e
non una successione indifferente. L’interpretazione
di Gerbier mi sembra estremamente interessante: proprio a partire da essa mi
sarà possibile mostrare come sia la teoria della temporalità spinoziana a
costituire la lente filosofica necessaria per concepire in tutta la sua
radicalità il concetto machiavelliano di occasione. Tuttavia, prima di fare
questo ulteriore e definitivo passaggio, è necessario soffermarsi sul modo in
cui Gerbier legge Aristotele: a) successione di istanti omogenei e vuoti
esterni l’uno all’altro; b) tempo come numero del movimento della sfera. Mi sembra
che in questa lettura ci siano un fraintendimento e una semplificazione. 1) Il
fraintendimento è l’effetto dell’uso di una lente interpretativa facilmente
riconoscibile, la nota di Sein und Zeit sulla
genesi del concetto volgare di tempo da Aristotele a Hegel. Qui, in un
passaggio assai celebre, Heidegger stabilisce un parallelo così stretto tra
l’analisi della temporalità del IV libro della Fisica e quello della filosofia della natura del periodo jenese di
Hegel da giungere a concludere che il secondo sia stato “ricavato direttamente”
dal primo: Aristotele vede l’essenza del tempo [das Wesen der Zeit] nel nun,
Hegel nell’ora [im Jetzt]. Aristotele
concepisce il nun come oros, Hegel assume l’ora come limite.
Aristotele intende il nun come stigme, Hegel interpreta l’ora come
punto. Aristotele definisce il nun
come tode ti, Hegel qualifica l’ora
come questo assoluto. Aristotele, fedele alla tradizione, pone in rapporto kronos e sfaira, Hegel sottolinea la circolarità del tempo (57). In uno
dei suoi saggi più limpidi, “Ousia” e
“grammé”, Derrida ha messo in rilievo come la questione sia ben più
complessa (58). Se prendiamo il testo di Aristotele, scopriamo che egli
si pone di fronte al tempo la stessa questione che si era posto di fronte al
movimento, all’infinito, allo spazio e al vuoto, cioè, in primis, se esso rientri nel numero delle cose esistenti o di
quelle non esistenti e, secondariamente, quale sia la sua natura (59). Per rispondere alla
prima questione Aristotele dà luogo come sua consuetudine ad una analisi del
senso comune. In questa prospettiva sembra che il tempo “non esista” o che la
sua esistenza sia “oscura e appena riscontrabile” (60). Se lo si prende in esame, si deve infatti riscontrare che
il tempo – sia nella sua infinità sia quello da noi considerato – si compone di
passato e futuro. Qualsiasi parte di tempo si consideri, essa appartiene
necessariamente ad uno di questi due grandi dominii, il passato e il futuro. Il
primo però non è più, mentre il secondo non è ancora: come è allora possibile
che il tempo abbia un’essenza (ousia)
se le sue parti sono dei non-enti? Il presente certo è, ma non è una parte del
tempo, è piuttosto il limite tra il passato e il futuro, l’elemento
infinitesimo di discrimine. Sia che lo si affermi sempre identico, sia che lo
si concepisca come diverso, si andrà incontro a difficoltà insolubili, perché
in realtà il nun non è una parte del
tempo con un suo essere stabile: come scrive giustamente Wieland, “il tempo non
consiste di istanti, ma sempre e soltanto, nuovamente, di tempi” (61). L’esistenza
del tempo, la presenza del nun nella
trattazione aristotelica non è dunque affatto stabilita: l’essoterica,
l’analisi del senso comune, conduce in realtà ad una aporia. Questa presenza
non sarà affermata nemmeno all’interno della trattazione scientifica del tempo.
Una volta trovata la definizione di tempo, Aristotele afferma che l’istante, il
nun, è principio di continuità e di
divisione del tempo: L’istante
costituisce la continuità del tempo [...]: difatti esso collega il passato e
l’avvenire; e anche il limite del tempo: in effetti segna la fine del passato e
l’inizio dell’avvenire. Ciò però non si nota con la stessa evidenza con cui si
notano le proprietà del punto fermo, perché l’istante divide solo in potenza (62). Dunque
l’istante divide il tempo solo in potenza ed in quanto divide esso è un
accidente del tempo (63). La successione di istanti astratti e giustapposti, di cui
parla Gerbier, sembra essere un’ulteriore semplificazione del fraintendimento
heideggeriano di un testo estremamente ricco e complesso. E se proprio si vuole
individuare storicamente un tale modello di temporalità, sarà piuttosto
nell’empirismo lockiano che si dovrà cercarlo. In Locke infatti l’idea di
durata (duration), idea complessa di modo
semplice, si costituisce in base alla riflessione sul susseguirsi delle idee
nella nostra mente: È
evidente a chiunque voglia soltanto osservare ciò che accade nella sua mente [what
passes in his own Mind], che v’è un seguito di idee [a train of Ideas] le quali si succedono
costantemente l’una all’altra nella sua intelligenza, fintanto che egli sia
sveglio. La riflessione su questo
apparire di varie idee, una dopo
l’altra, nella nostra mente, è ciò che ci fornisce l’idea della successione; e
la distanza tra le varie parti di tale successione, o fra l’apparire di due idee qualsiasi nella nostra mente, è ciò
che chiamiamo durata. Poiché, mentre
pensiamo o mentre riceviamo successivamente idee molteplici nella mente,
sappiamo di esistere; e così chiamiamo l’esistenza, o la continuazione
dell’esistenza nostra, o di qualunque altra cosa, commisurata al succedersi di
idee, quali che siano, la durata di noi stessi, o di qualunque altra cosa che
sia coesistente al nostro pensare (64). Stabilito,
nella costituzione dell’idea di durata, il primato della riflessione sulla “serie”
o “catena” di idee rispetto al moto (il moto può essere infatti ridotto alla
successione di idee che esso produce nella mente), si potranno individuare gli
elementi primi che costituiscono la durata soffermandosi sugli anelli della
catena: Una parte
della durata simile [a quella] nella quale non percepiamo nessuna successione,
è quella che chiamiamo un Istante,
ossia quella parte di durata che occupa
solo il tempo nel quale si trova nella nostra mente una sola idea, senza che ad essa ne succeda un’altra; e in cui,
per conseguenza, non percepiamo nessuna successione del tutto (65). Il
primato della riflessione nella costituzione dell’idea di durata e di istante è
tuttavia affermabile solo una volta che si costruisca una metafisica
dell’interiorità, in cui la mente e “la costante e regolare successione di
Idee” che vi ha luogo sono la misura di ogni altra successione (versione
soggettiva del tempo assoluto e matematico di Newton, il quale “in se et natura
sua absque relatione ad externum quodvis, aequabiliter fluit” (66)): la mente ripiegandosi
su di sé scopre non la textura
lucreziana, complesso intreccio di temporalità plurali nella percezione, ma il
semplice apparire di idee-percezioni l’una dopo l’altra. L’istante, che in
Lucrezio nasconde, che è originariamente opaco e deve essere districato dalla
ragione, è per Locke invece trasparente. Proprio su questa trasparenza Locke
fonderà la celebre idea di identità personale del capitolo 27 della seconda parte
del Saggio: l’identità della persona
consiste precisamente nella possibilità che la coscienza ha di ripiegarsi sulla
linea-tempo e di riconoscere in un istante passato quello stesso sé che è
cosciente nel presente, operazione che sarebbe evidentemente complicata da un
modello di temporalità come quello lucreziano in cui dietro l’istante
apparentemente semplice è latente un intreccio di tempi. 2)
Veniamo ora a quella che ho definito una semplificazione dell’argomentazione di
Aristotele: essa nasce dalla riduzione della teoria aristotelica del tempo al
suo esito ultimo. Riprendiamo Fisica
IV. Dopo l’analisi delle opinioni del senso comune a proposito della labile
esistenza del tempo, Aristotele passa in rassegna le soluzioni che la
tradizione filosofica precedente ha proposto circa la natura (physis) del tempo; dall’analisi della
tradizione Aristotele giunge ad una prima approssimativa conclusione: “il tempo
sembra essere soprattutto movimento e un certo cambiamento (kinesis kai metabolè tis)” (67). Tuttavia il ricorso alla
tradizione non è di per sé sigillo di verità, ma piuttosto il punto di innesco
di una dialettica che dovrà far emergere la verità scientifica (68). Aristotele mostra come
il tempo non possa essere identificato con il movimento: il
mutamento e il movimento di ciascuna cosa sono soltanto nella cosa che muta, o
anche là dove venga a trovarsi la stessa cosa mossa o che muta: il tempo,
invece, è parimenti in ogni luogo e presso ogni cosa (69). Tuttavia
deve esservi un rapporto se parte della tradizione filosofica ha finito per
identificarli: il movimento non è il tempo, bensì la conditio sine qua non del tempo, ossia il tempo non è senza
movimento, esso è qualcosa del movimento. Con ciò Aristotele si porta sulla
soglia di quella definizione che diventerà uno dei cardini filosofici della
tradizione Occidentale: “il tempo è numero del movimento secondo il prima e il
poi” (70). Subito prima della definizione aveva precisato che i
concetti di prima e di poi sono riferiti primariamente a spazio e movimento e
solo metaforicamente al tempo, e subito dopo affermerà per prendere le distanze
dalla tradizione pitagorica che numero è da intendersi non come ciò che numera
ma come ciò che è numerabile (“il tempo è un numero non mediante cui noi
numeriamo, ma che è esso stesso numerato” (71)). E qui giungiamo alla celebre conclusione: di quale
movimento è numero il tempo? Della sfera. Perché? Ecco la risposta di
Aristotele: Se dunque
ciò che è primo è misura di tutte le cose dello stesso genere, il moto
circolare uniforme è misura in senso primario, in quanto il suo numero è ciò
che v’è di maggiormente conoscibile. Dunque né il movimento di alterazione, né
quello di accrescimento o di generazione sono uniformi, mentre il moto locale
lo è. Per
questo motivo sembra che il tempo sia il moto della sfera celeste, in quanto
mediante questo movimento noi misuriamo e gli altri movimenti e il tempo (72). A questo
proposito mi sembrano estremamente interessanti le riflessioni di Wieland: L’unità
di misura del tempo non è impostata arbitrariamente, ma figura già data dalla
natura: la conversione del cielo rappresenta l’unità di misura con cui numerare
tutti gli altri movimenti. Ciò può essere ritenuto, se si tien conto del modo
in cui la riflessione procede nella Fisica,
una lieve incongruenza. Abbiamo qui di fatto un esempio degli effetti di
ritorno della cosmologia sulla fisica. Se ne può desumere che l’assolutezza e
l’unità del tempo [...] costituisce in ogni caso in Aristotele non un postulato
fisico, ma cosmologico
(73). All’inizio
di quella che potremmo definire una dialettica delle teorie tradizionali del
tempo Aristotele, prendendo in considerazione la concezione di Archita secondo
cui il tempo sarebbe il movimento della stessa sfera dell’universo, aveva
formulato la seguente obiezione: Se vi
fossero più cieli (oi ouranoi), il
tempo sarebbe il movimento di ciascuno di essi, sicché più tempi sarebbero
simultanei (74). L’obiezione
di Aristotele ad Archita può essere ritorta contro lo stesso Aristotele. Se il
tempo è il numero del movimento della sfera, l’esistenza di più sfere, di più
universi darebbe luogo all’esistenza di più orologi dell’essere simultanei, che
tuttavia potrebbero definirsi tali solo riferendosi ad una misura comune (ma
allora non sarebbero più universi, ma parti di un universo più grande), oppure stabilendo
che il tempo di uno di essi deve costituire l’unità di misura per gli altri: in
questo secondo caso tuttavia l’orologio dell’essere si rivelerebbe nella sua
essenza ultima come infondato, come pura convenzione. 6. Spinoza:
tempo, durata, contingenza. Possiamo
dunque concludere che in Aristotele vi è una sovradeterminazione cosmologica
del tempo fisico, che impone la sfera come orologio dell’essere (oltre che,
naturalmente, su un livello puramente fisico l’incardinamento di ogni altro
tempo – numero dei mutamenti di generazione e corruzione, di alterazione, di
aumento e diminuzione e degli spostamenti locali nel mondo sublunare – nella
regolarità teleologica della forma) e in Descartes una sovradeterminazione
teologica del tempo della res extensa
che fa della linea il tempo della storia (se crediamo ad Althusser, si tratta
della stessa struttura della temporalità presente nel pensiero di Hegel (75)). Per trovare un pensiero
in cui vi sia un universo infinito ed un Dio immanente dobbiamo rivolgerci a
Spinoza: solo con Spinoza possiamo giungere a pensare filosoficamente il
concetto di occasione machiavelliano. Se
prendiamo la celebre lettera spinoziana sull’infinito scopriremo che i termini
fondamentali dell’ontologia spinoziana, la sostanza e i modi, sono interamente
traducibili in termini temporali: la temporalità della sostanza è l’eternità
mentre la temporalità del modo è la durata. Il tempo viene introdotto oltre
come misura delle durate. Per comprendere l’articolazione spinoziana di durata
e tempo è necessario riferirsi alla teoria cartesiana dello spazio e del tempo,
esposta nei Principi di filosofia.
Abbiamo visto come Descartes giunga attraverso la sua teoria della res extensa a determinare ogni movimento come misurabile in
rapporto ad altro e nessuno di essi immobile. Ora, in quanto una cosa persiste
nel suo essere, possiamo dire che dura, che ha una durata specifica che
ovviamente può essere collocata temporalmente solo prendendo come termine di
misura altre cose che durano. Il tempo non è altro che la misura di queste
durate sulla base di una durata regolare: il movimento dei pianeti. In generale
dunque i riferimenti spazio-temporali di un corpo non possono essere dati
rispetto ad un sistema di riferimento assoluto, ma solo rispetto al luogo e
alla durata di altri corpi. Come si è detto è la creazione divina che
reinstituisce nell’abisso della res
extensa la linea-tempo dell’essere. Spinoza, facendo di Dio la causa immanente e non
trascendente del mondo e la volontà un effetto e non una causa, fa della
temporalità della res extensa la sola
temporalità, estendendola anche all’attributo pensiero. Tanto la continuità
temporale degli istanti quanto la discontinuità di un istante rispetto alla
linea tempo si fondano sulla trascendenza della volontà divina: la creazione
continuata taglia delle sezioni contemporanee di materia soggiogandone la
pluralità alla decisione della Un
problema tuttavia si pone. Quando Spinoza esclude che si possa intendere
l’eternità in termini di sempiternità nella explicatio
della def. 8 della prima parte dell’Etica,
sembra per ciò stesso indicare una concezione dell’eternità intesa come eterno
presente o simultaneità assoluta. La pagina letterariamente più bella dedicata
ad una lettura di questo genere è certamente quella del Principio speranza di Ernst Bloch: Il mondo
si presenta qui come cristallo con il
sole allo zenit, così che nulla proietti la sua ombra. [...] Nell’oceano
unico della sostanza manca il tempo, manca la storia, manca lo sviluppo e ogni
molteplicità concreta. [...] Lo spinozismo si erge come se fosse eterno il
meriggio nella necessità del mondo, nel determinismo della sua geometria e del
suo cristallo tanto sicuro quanto asituazionato – sub specie aeternitatis (76). La
contrazione della pluralità del mondo in un eterno presente annullerebbe ogni
spazio teorico per l’occasione, sarebbe precisamente la negazione della sua
possibilità. Non solo l’occasione sarebbe inessenziale rispetto al manifestarsi
dell’essenza come in Hegel, ma l’essenza sarebbe sempre già manifestata in una
assoluta simultaneità rispetto a cui lo scorrere del tempo non sarebbe che
l’effetto illusorio di una conoscenza inadeguata del mondo (con il conseguente
schiacciamento della durata sul tempo, come nell’interpretazione hegeliana di Glauben und Wissen). Rispetto
ad una tale interpretazione si possono opporre due argomenti, uno di ordine
filologico l’altro di ordine analogico, entrambi tuttavia non conclusivi. L’argomento
filologico è di estrema semplicità: la tradizione teologica occidentale, da
Boezio a Tommaso e oltre, aveva forgiato un certo numero di espressioni per
definire la temporalità di Dio rispetto a quella mondana, tre le altre, le più
celebri, nunc stans o tota simul (77). Spinoza non usa mai, in
tutta la sua opera matura, espressioni di questo genere: in alcun luogo afferma
che aeternitas est nunc stans o interminabilis vitae tota simul. Queste espressioni erano a portata di mano,
potremmo definirle come l’abbiccì della teologia, e ciononostante Spinoza non
le usa mai, nemmeno una volta. Questo mi sembra indichi quantomeno che egli
potesse ritenerle fonti di fraintendimento e di errore, non all’altezza della
sua teoria dell’eternità. Mi sembra a questo proposito che non soltanto la
presenza di una parola sia da considerarsi una prova filologicamente rilevante,
ma anche la sua assenza quando sarebbe scontato attendersela in un determinato
contesto. L’argomento
analogico mi sembra possa essere proposto in questi termini: la specificità
della strategia filosofica spinoziana consiste nello svuotare le parole della
tradizione del senso stratificatosi nei secoli per dar loro una nuova
concettualità attraverso un sistema di relazioni del tutto nuove. L’esempio più
manifesto è il lavoro filosofico che Spinoza svolge intorno al termine “Dio”:
posto al centro della prima parte dell’Etica,
viene svuotato di ogni significato religioso e teologico, per divenire il nome
della cieca potenza della natura. Considerando che esempi analoghi potrebbero
essere esibiti rispetto a termini come “sostanza”, “individuo”, “mente”,
“diritto” etc. non c’è ragione di meravigliarsi del fatto che Spinoza abbia
proposto un concetto inaudito attraverso un termine, aeternitas, la cui storia è tanto antica quanto l’Occidente ed è
inestricabilmente intrecciata alle sue differenti figure del divino. Contro chi
però continua a sostenere un’interpretazione dell’eternità nel senso di
simultaneità o eterno presente, si può rispondere solo che essa rende
semplicemente inintelligibile tutta la produzione filosofica matura di Spinoza,
se si fa eccezione per la prima e la quinta parte dell’Etica (ma anche qui costretti a chiudersi gli occhi di fronte a
pagine e pagine). Spinoza avrebbe dedicato la più parte del suo lavoro alle
ombre dell’immaginazione, delle passioni, delle religioni, della storia e della
politica, pur sapendo che essi non sono che illusioni dal punto di vista
dell’eterno mezzogiorno della sostanza, dell’assoluta simultaneità. E volendo
aggiungere una punta di perfidia, si potrebbe consegnare questi interpreti alla
celebre obiezione di Kojève nella Nota su
eternità, tempo e concetto del suo Corso: Il
sistema di Spinoza è l’incarnazione perfetta dell’assurdo [...]. In effetti se
Spinoza dice che il Concetto è l’Eternità, mentre Hegel dice che è il Tempo,
hanno in comune che il concetto non è una relazione.
In entrambi i casi è l’Essere stesso
che riflette su se stesso in e per, o – meglio ancora – in quanto Concetto. Il
Sapere assoluto che riflette la totalità dell’Essere è dunque tanto chiuso in
sé quanto ‘circolare’, quanto l’essere stesso nella sua totalità: non c’è nulla
al di fuori di questo Sapere, come non c’è nulla al di fuori dell’Essere. Ma
c’è una differenza. L’Essere-concetto di [...] Spinoza è l’Eternità, mentre l’Essere-concetto di Hegel è il Tempo. Di conseguenza il sapere assoluto
spinozista deve anch’esso essere l’Eternità. Cioè deve escludere il tempo.
Detto altrimenti: non è necessario del tempo per realizzarlo; l’Etica deve essere pensata, scritta e
letta in un batter d’occhio. E qui è l’assurdo. [...] Spinoza deve essere Dio
da tutta l’eternità per poter scrivere o pensare la sua Etica (78). Si salva
l’eternità (e con essa quel quid di
trascendenza che in essa rimane) e si perde Spinoza! Per
venire al dunque, mi sembra che se si intende correttamente il rapporto delle
durate in termini relazionali, l’eternità debba essere pensata come immanente
all’intreccio delle durate, senza però violare il divieto spinoziano di
pensarla in termini temporali (in essa infatti non vi è “né quando, né prima,
né poi”). Se la si pensa come contrazione di ogni tempo, si distrugge il
sistema relazionale delle durate. Se la si pensa in termini temporali, si
distrugge il concetto di eternità. Si tratta allora forse di tentare di
pensarla come il principio di oggettività della relazione delle durate (e in
quanto tale non immersa nella temporalità, allo stesso modo in cui per
Aristotele l’anima è principio del movimento del corpo, ma non è essa stessa in
movimento), che consiste tanto nella sua necessità (nella sua intelligibilità)
che nel divieto di proiettare sulla totalità la temporalità modale attraverso
l’ontologizzazione degli auxilia
imaginationis, cioè del tempo, della misura e del numero. La conoscenza sub specie
aeternitatis non è affatto asituazionato come dice Bloch, priva di ombre,
ma piuttosto è conoscenza della realtà umbratile, o meglio, mettendosi al
riparo dagli effetti teorici della metafora platonica, è la conoscenza di
incontri e relazioni, conoscenza che deriva dalla conoscenza della totalità in
quanto causa immanente, ma che non è mai conoscenza dell’eternità in se
stessa, poiché la sostanza non cade sotto l’intelletto infinito come un oggetto
tra gli altri, ma come relazione complessa di oggetti (cioè come connexio). In altre parole, l’eternità
della sostanza, essendo la struttura immanente degli incontri dei modi che
durano, non si dà mai a vedere in presenza, come nel sapere assoluto della Fenomenologia dello spirito, ma soltanto
nell’intreccio finito di un frammento d’eternità, che è eterno precisamente
perché è liberato da ogni ipostatizzazione del tempo, cioè da ogni immagine
antropomorfica dell’eternità. Se
prendiamo in esame l’analisi del Libro Sacro nel TTP, siamo confermati in questa lettura. Ciò di cui si tratta nel
capitolo VII è precisamente la decostruzione del mito secondo cui il Libro
conterrebbe il segreto del tempo (contratto appunto nella simultaneità delle
sue pagine in cui è rispecchiata l’eternità del suo autore), attraverso il
tentativo di ricostruzione delle storie singolari il cui intreccio ha prodotto
l’effetto-unità del libro. Quando nel capitolo VIII Spinoza dimostra che il
Pentateuco, il libro di Giosuè, dei Giudici, di Ruth, di Samuele e dei re non
sono autografi, egli ipotizza che si tratti di un’unica storia scritta molti
secoli dopo presumibilmente da Esdra, il quale però non fece
altro che raccogliere i racconti di diversi scrittori, trascriverli talora
semplicemente e tramandarli ai posteri, senza esaminarli né ordinarli. [...]
non è dubbio, che se avessimo le opere degli storici, la cosa ci risulterebbe
direttamente; ma poiché ne siamo privi [...] non ci resta che esaminare le
storie stesse, e cioè osservare l’ordine e la connessione, la varia ripetizione
e infine la discordanza nel computo degli anni, per poter quindi giudicare del
resto(79). Se la
voracità del tempo (tempus edax) non
avesse distrutto le opere degli storici di cui Esdra si è servito, sarebbe
secondo Spinoza agevole mostrare il tessuto plurale del Testo sacro, che
tuttavia può comunque essere fatto emergere anche attraverso un puro esame
delle incongruenze del testo. Quanto
poi ai libri profetici, Spinoza ritiene che sia necessario contestualizzare
ogni singolo libro, mostrare come questo sia l’effetto di un intreccio di
temporalità estremamente complesso: [si
devono] raccogliere le notizie relative a tutti i libri profetici di cui
abbiamo memoria, e cioè la vita, i costumi e la cultura dell’autore di ciascun
libro, chi egli sia stato, in che occasione, in che tempo, per chi e infine in
che lingua abbia scritto (80). L’eternità
della rivelazione è immersa nella pluralità materiale della storia, nel sistema
di relazioni e di incontri di ritmi singolari che ha costituito ogni singolo
libro in quanto tale e la loro raccolta in un unico corpus. L’occasione qui domina la scena non come infrazione della
necessità (dato che nulla di ciò che costituisce la storia di ciascun libro
viola le leggi di natura), ma come sua figura preminente, non solo quando
appare in persona nel testo, ma attraverso tutte le condizioni (che sono tali
naturalmente solo a posteriori) che mostrano la pluralità di ritmi da cui l’apparente
semplicità dell’effetto-libro è costituito. Riguardo
poi a ogni libro della Sacra Scrittura si deve analizzarne la
fortuna [...], cioè come sia stato accolto in principio, in quali mani sia
caduto e quante siano state le sue varie lezioni, quale concilio ne abbia
decretato l’ammissione tra i libri sacri, e infine come siano stati raccolti in
un unico corpo tutti i libri universalmente riconosciuti per sacri. Il senso
della Scrittura non può dunque essere letto in trasparenza, non è il luogo
della parola come verità, ma un’opaca stratificazione di sensi depositati da
ritmi temporali differenti che devono essere ricostruiti, dove possibile,
attraverso uno sguardo archeologico. Mi sembra
dunque che solo nell’orizzonte teorico spinoziano si può giungere a pensare
correttamente il concetto machiavelliano di occasione; e per contraccolpo, il
concetto di occasione permette di pensare nel giusto modo la causalità
immanente. I due concetti vanno pensati l’uno nell’altro, l’uno attraverso
l’altro, come due facce (individuale e complessiva) della stessa medaglia.
Infatti se si pensa l’occasione nella causalità immanente si eviterà di pensare
la contingenza come l’irruzione messianica dell’eternità in un tempo lineare
che essa eccede ed allo stesso se si pensa la causalità immanente
nell’occasione si eviterà di pietrificare la contingenza attraverso il modello
meccanicistico o espressivo (81). 7. Spinoza
interprete di Machiavelli. Dopo
questo lungo détour per la teoria
della temporalità possiamo ritornare alla filosofia politica, ed in particolare
all’interpretazione spinoziana della teoria politica di Machiavelli, che egli
affida a due celebri passaggi del Trattato
politico. Quest’opera
contiene due riferimenti espliciti a Machiavelli che fanno oggetto, in entrambi
i casi, di una trattazione relativamente ampia. Machiavelli è nominato una
prima volta nell’ultimo paragrafo del capitolo V dedicato alla “situazione
ottimale per qualunque tipo di Stato”; poi, nel primo paragrafo del capitolo X,
che tratta delle cause di dissoluzione del governo aristocratico. Leggiamo
il primo passaggio di Spinoza: L’acutissimo
Machiavelli ha ampiamente spiegato di quali mezzi si debba servire un principe
trascinato dalla sola sete di dominio, per fondare e conservare uno Stato [imperium]; a qual fine, non appare ben
chiaro. Ma se il suo fine era buono, come è da credersi di un uomo saggio, pare
che sia stato quello di mostrare con quanta imprudenza molti cercano di levar
di mezzo un tiranno senza essere in grado di eliminare le cause che fanno del
principe un tiranno, ma anzi creandone di tanto maggiori quanto maggiori sono i
motivi di timore che si prospettano al principe: per esempio, quando la
moltitudine ha già prodotto manifestazioni di ostilità al principe e vanta il
parricidio, quasi fosse una cosa ben fatta. Inoltre egli ha forse voluto
mostrare quanti motivi abbia una libera moltitudine per guardarsi dall’affidare
in maniera assoluta la propria salvaguardia a uno solo che, se non è tanto
vanitoso da credere di poter compiacere tutti, deve temere incessantemente
delle insidie; ed è perciò costretto a badare piuttosto a se stesso, e ad
ingannare la moltitudine piuttosto che curarne gli interessi. E sono indotto a
pensarla così su questo sapientissimo uomo, perché risulta che stava dalla
parte della libertà [pro libertate fuisse],
e che per difenderla diede suggerimenti molto salutari” (82). Questo
passo occupa una posizione teorica chiave nell’opera: chiude i primi cinque capitoli
teorici, capitoli nei quali Spinoza forgia gli strumenti concettuali che gli
permetteranno di costruire una modellizzazione delle differenti forme di potere
(non potrebbe essere più radicale in questo senso il rifiuto dell’empirismo
ingenuo, dell’experientia sive praxis
come fonte diretta del sapere politico), capitoli che avevano avuto inizio in
puro spirito Machiavelliano in TP I, 1, dove Spinoza, riecheggiando il celebre
capitolo XV del Principe, afferma che
i filosofi “non concepiscono gli uomini per come sono, ma per come li
vorrebbero [ut sunt, sed, ut eosdem esse
vellent]” (83). L’inizio
e la fine della parte generale del TP
sono dunque riferiti a Machiavelli. Tra il primo paragrafo del primo capitolo e
il settimo del quinto Spinoza espone la sua ontologia della politica (dominata
ovviamente dall’equazione jus sive
potentia e dalla individuazione di un nuovo soggetto politico, la moltitudine), costruisce concettualmente
l’oggetto specifico della scienza della politica, senza cui la modellizzazione
delle differenti forme di poteri sarebbe impossibile e l’esperienza sarebbe
cieca, o, meglio, sarebbe attraversata dall’immaginazione teologico-morale. Attraverso
questo percorso, Spinoza indirizza due domande a Machiavelli: in primo luogo
“qual è l’oggetto della filosofia politica?”, cioè, in ultima analisi, “che
cos’è la teoria politica?”, e in secondo luogo “qual è la finalità della teoria
politica?”. A questa duplice questione Spinoza risponde attraverso la sua
interpretazione di Machiavelli: 1)
l’oggetto specifico della teoria politica, che può essere
prodotto solo tracciando una linea di demarcazione rispetto alle illusioni
della morale e dell’utopia, è costituito dall’intreccio di passioni che
costituisce e attraversa la società, intreccio il cui nome proprio è multitudo; 2)
la sua finalità risiede nel tentativo di produrre degli
effetti di libertà a partire dalla conoscenza di questo intreccio, da una
determinata configurazione della multitudo. Riprendiamo
da vicino l’interpretazione spinoziana di Machiavelli. Inizialmente,
coll’affermare che il proposito del Principe
è di esporre i mezzi attraverso cui un signore, mosso dalla pura libido dominandi, può fondare e
mantenere un imperium, Spinoza
s’interroga sulle finalità reali dell’opera. In effetti rendere pubblico un
testo del genere implica il rivelare questi mezzi al popolo e dunque, in parte,
neutralizzarli, come è stato ampiamente sottolineato nella tradizione
interpretativa repubblicana di Machiavelli, da Gentili ad Alfieri, da Rousseau
a Foscolo. Il
carattere paradossale della teoria politica esposta nel Principe è dunque pienamente colto. Contrariamente alla maggior
parte delle interpretazioni tuttavia, il paradosso per Spinoza non si inscrive
nel dilemma monarchia / repubblica che sembrerebbe richiedere una presa di
posizione astratta in favore dell’una o dell’altra forma di governo. Il tessuto
di temporalità plurali che costituiscono l’essere stesso della multitudo rendono impensabile un
intervento politico che, basandosi sull’astratta idea del migliore regime
possibile, non tenga conto di questa complessità, pretendendo di istituire
nell’istante creatore (nel fiat hobbesiano)
una sezione d’essenza. Ogni
intervento politico deve essere invece pensato dentro questa trama di
temporalità di cui la multitudo è
costituita, ogni intervento deve avere un carattere strategico – cioè tener
conto del complesso gioco delle passioni, delle abitudini e dei costumi – e mai
puramente strumentale. Per questa ragione: in presenza di cause strutturali che
portano il Principe a comportarsi come un tiranno, il tirannicidio è inutile e
privo di qualsiasi senso, poiché è un atto che non può migliorare la situazione
e anzi rischia di peggiorarla. Nel caso di una libera moltitudine le stesse
cause strutturali rendono privo di senso mettere nelle mani di un solo uomo
tutto il potere; infatti, un Principe, non potendo essere amato da tutti, avrà
il continuo timore che una parte del popolo si ribelli. Ciò che Spinoza
rifiuta, riproducendo del resto letteralmente alcune argomentazioni
machiavelliane, è l’idea che l’azione politica possa essere pensata come
l’irruzione dell’istante nella linea-tempo: tanto la violenza del tirannicidio
quanto quella che dà luogo all’instaurazione di un tiranno sono rese vane dalla
complessità dell’intreccio di temporalità che attraversano la moltitudine. Ciò
non significa che i cambiamenti radicali non siano possibili: dice
semplicemente che sono estremamente rari, perché è difficile portare a
compimento un’azione politica capace di volgere in proprio favore l’intreccio
complesso di temporalità che costituisce la congiuntura senza farsi travolgere.
Prendiamo, per esempio, la descrizione machiavelliana della strategia di Cesare
Borgia riguardo all’elezione del nuovo Papa: [...] lui
aveva a dubitare [...] che un nuovo successore alla Chiesa non li fussi amico e
cercassi torli quello che Alessandro gli aveva dato. Di che pensò di
assicurarsi in quattro modi: prima, di spegnere tutti e’ sangui di quelli
signori che lui aveva spogliati, per torre al papa quella occasione: secondo di
guadagnarsi tutti e’ gentili uomini di Roma, come è detto, per potere con
quelli tenere el papa in freno: terzo ridurre el Collegio più suo che poteva:
quarto, acquistare tanto imperio, avanti che il papa morissi, che potessi per
se medesimo resistere a uno primo impeto (84). Strategia
complessa che, secondo Machiavelli, tiene perfettamente conto della complessità
della congiuntura: tempo tra altri tempi però, non irruzione dell’istante del
diritto di Dio o della più alta necessità, intervento – potente e insieme
fragile – nella congiuntura. Potente perché riconosce la necessità di un’azione
estremamente articolata imposta dalla complessità della situazione, fragile
perché elemento di una complessità non dominabile dall’esterno: la
contemporaneità della morte di Alessandro e della sua malattia resero vana
questa strategia. Veniamo
ora alla seconda citazione. Essa si trova nel I paragrafo del capitolo X,
dedicato all’analisi delle cause dell’alterazione o della distruzione del
governo aristocratico, che succede ai due capitoli dedicati allo stato
aristocratico (semplice, sul modello veneziano, o federale, sul modello
nederlandese), preceduti dai due capitoli dedicati alla monarchia. Qui Spinoza
interroga Machiavelli secondo una nuova prospettiva: non si tratta qui di
pensare le condizioni dell’azione politica che fonda uno Stato o che produce un
cambiamento di forma di governo, ma piuttosto dell’azione che può fare da
argine al dissolvimento cui è destinata ogni forma di governo: Ora che
sono stati dispiegatamente mostrati i principi fondamentali di entrambi i tipi
di stato aristocratico, rimane da ricercare se essi possano, per qualche causa
loro imputabile, distruggersi o trasformarsi in altro [dissolvi, aut in aliam formam mutari]. La prima causa di
dissolvimento di stati del genere è quella che osserva l’acutissimo Fiorentino
nel libro III, capitolo I dei Discorsi
sopra la prima Deca di Tito Livio, ossia che allo Stato, come al corpo
umano, “incessantemente si aggiunge qualcosa che di quando in quando ha bisogno
d’esser curato”; è dunque necessario, dice, che di quando in quando accada per
gli Stati qualcosa “da ridurgli verso e’ principi suoi” [imperium ad suum principium redigatur]. Se questo non avviene in un
tempo ragionevole i vizi cresceranno a tal punto da non poter essere estirpati
se non con lo Stato stesso. E questo, dice, si fa o per accidente estrinseco, o
per prudenza intrinseca delle leggi o di un uomo di eccezionale valore [vel casu contingere potest, vel consilio,
& prudentia legum, aut viri eximia virtutis]. Indubbiamente la cosa è
della massima importanza, e ove non si siano prevenuti questi inconvenienti lo
stato non potrà durare per propria virtù [virtus],
ma solo grazie alla fortuna [fortuna];
al contrario, ove si sia predisposto il rimedio adeguato a questo male esso non
potrà cadere per sua colpa ma soltanto per qualche destino ineluttabile [inevitabilis aliquis fatus] (85). La
ripetizione di Machiavelli permette a Spinoza di stabilire uno stretto
parallelo tra gli imperia e il corpo
umano, al cui proposito scrive nell’Ethica
che, “per conservarsi, […] ha bisogno di moltissimi altri corpi da quali viene
continuamente quasi rigenerato” (86). Che cosa significa questo postulato se non che la durata
di un corpo non ha nulla a che fare con la catena di istanti lockiana, ma è
piuttosto una textura di durate (e
qui Lucrezio è la fonte comune di Machiavelli e Spinoza), in cui il ruolo del principium individuationis è giocato dal
mantenimento di un ritmo, di una proporzione, come indicano i lemmi IV, V e VI
della seconda parte dell’Etica (87). Questo rapporto, che è
costituivo della forma di un corpo, può essere modificato dalla malattia e
distrutto dalla morte, pensata da Spinoza attraverso il modello
dell’avvelenamento, come ha ben mostrato Deleuze (88). Ciò accade quando l’intervento di uno o più corpi
modifica il rapporto di movimento e di riposo tra le parti che compongono il
corpo umano. Così come
la pratica medica combatte le alterazioni del rapporto che costituisce il corpo
umano, la pratica politica combatte le alterazione del rapporto che costituisce
il corpo sociale. È assai significativo che attraverso la metafora del corpo
umano, Spinoza si metta in condizioni di leggere il concetto machiavelliano di
“principio” in termini di rapporto e non di fondazione originaria. In effetti,
Spinoza non attribuisce all’origine dello Stato come all’origine del corpo un
valore assiologico, ossia un Senso, un Fine, ma un valore semplicemente
ontologico, cioè in termini di causa, o, più precisamente, pensa l’origine come
lo stabilizzarsi di un rapporto determinato di movimento e di riposo tra le
parti che lo costituiscono (89). Prendiamo
ora in considerazione il testo di Machiavelli che Spinoza ha riassunto nel
primo paragrafo del capitolo X: Egli è
cosa verissima, come tutte le cose del mondo hanno il termine della vita loro;
ma quelle vanno tutto il corso che è loro ordinato dal cielo, generalmente, che
non disordinano il corpo loro, ma tengonlo in modo ordinato, o che non altera,
o, s’egli altera, è a salute e non a danno suo. E perché io parlo de corpi misti,
come sono le republiche e le sètte, dico che quelle alterazioni sono a salute,
che le riducano inverso i principii loro. E però quelle sono meglio ordinate,
ed hanno più lunga vita, che mediante gli ordini suoi si possono spesso
rinnovare; ovvero che, per qualche accidente fuori di detto ordine vengono a
detta rinnovazione. Ed è cosa più chiara che la luce, che, non si rinnovando,
questi corpi non durano. Il modo
del rinnovargli, è, come è detto, ridurgli verso è principii suoi. Perché tutti
e’ principii delle sètte, e delle
republiche e de’ regni, conviene che abbiano in sé qualche bontà, mediante la
quale ripiglino la prima riputazione ed il primo augmento loro. E perché nel
processo del tempo quella bontà si corrompe, se non interviene cosa che la riduca
al segno, ammazza di necessità quel corpo. E questi dottori di medicina dicono,
parlando de’ corpi degli uomini, quod
quotidie aggregatur aliquid, quod quandoque indiget curatione. Questa
riduzione verso il principio, parlando delle republiche, si fa o per accidente
estrinseco o per prudenza intrinseca. […] E quanto a questi, convien che nasca
o da una legge, la quale spesso rivegga il conto agli uomini che sono in quel
corpo; o veramente da un uomo buono che nasca fra loro, il quale con i suoi
esempli e con le sue opere virtuose faccia il medesimo effetto che l’ordine (90). Questo
testo, così accuratamente riassunto da Spinoza, non è un passaggio qualsiasi
dei Discorsi: si tratta di un testo
fondamentale in cui sono esposti i concetti chiave dell’ontologia politica di
Machiavelli. L’argomento centrale del passo, in cui sono delineate le modalità
differenti attraverso cui una repubblica ritorna al suo principio, è
sintetizzato da Spinoza con una mimesi persino dello stile del fiorentino: “vel
casu contingere potest, vel consilio, & prudentia legum, aut viri eximiæ
virtutis”. Uno Stato può ritornare ai suoi principi o grazie a una conquista
straniera, come accade per la presa di Roma da parte dei galli nel 390 a. C.,
oppure per la prudenza delle leggi, cioè grazie ad una legislazione che prevede
ciclicamente la reinstituzione dei rapporti di forza che avevano visto nascere
lo Stato, o per l’esempio dato dalla virtù di un uomo solo capace di
trasmettere i propri valori a tutto il popolo. La disgiunzione fondamentale è
dunque: aut virtus, aut fortuna. La
virtù di un ordinamento statuale o di un singolo cittadino, la fortuna sotto
forma di caso che riporta lo Stato alla virtù grazie ad un evento esterno ad
esso, oppure in persona, come trama di eventi felici che fa sopravvivere uno
Stato ormai privo di virtù, oppure ancora come “fatus aliquis inevitabilis”,
come destino avverso, trama di eventi sfavorevoli, che distrugge uno Stato
benché pieno di virtù. Come si
può vedere chiaramente, non si dà una legge di sviluppo, la teoria politica non
è innestata su una filosofia della storia di cui è l’esito necessario, né è
l’irruzione messianica dell’eternità in un tempo privo di qualità. È rifiutata
la secolarizzazione dei due grandi modelli di temporalità cristiana, quello di
Paolo secondo cui Dio verrà “come un ladro nella notte” (91) e quello di Gioacchino da
Fiore che tripartisce la linea tempo nelle epoche successive dell’umanità (92). La teoria politica è
intervento nella congiuntura, intervento in un orizzonte dominato da una
temporalità plurale il cui intreccio offre talvolta alla virtù “la miracolosa
occasione” e talaltra la rende del tutto inefficace. Questa temporalità
plurale, condizione di pensabilità del concetto di occasione a livello
ontologico, trova a livello politico il suo nome proprio: multitudo. Note. (*) Si pubblica qui, con alcune varianti e un corredo
essenziale di note, il testo della relazione letta al seminario machiavelliano
“Immaginazione e contingenza” (Università degli Studi di Urbino 4-5 giugno
2003). (1) V. Jankélévitch, Le
Je-ne-sais-quoi et le Presque-rien I. La manière et l’occasion, Paris,
Editions du Seuil, 1980, p. 117, tr. it a cura di C.A. Bonadies, Genova,
Marietti, 1987, p. 79. (2) Œuvres de Descartes, publiées par C. Adam et P. Tannery (da ora AT), Paris,
Léopold Cerf,1897-1913, vol. IV, p. 486, tr. it. in Opere, a cura di E. Garin e M. Garin, Roma-Bari, Laterza, 1986,
vol. IV, p. 191. (3) Ibidem. (4) Ibidem. (5) N.
Machiavelli, Il Principe, VI, in Tutte le opere, a cura di M. Martelli,
Firenze, Sansoni, 1993, p. 264 (corsivo mio). (6) R. Descartes, Principia
Philosophiae, II, §13, AT, vol. VIII, p. 47, tr. it. in Opere, vol. III, a cura di A. Tilgher,
rivista da M. Garin, Roma-Bari, Laterza, 1986, p. 75. (7) Secondo
Descartes la durata non è altro che la considerazione di una cosa in quanto
continua ad essere («quatenus esse perseverat») (ivi, I, 55, p. 26; tr. it.
cit., p. 50). Cfr. a questo proposito J.-M.
Beyssade, La philosophie première de
Descartes: le temps et la cohérence de la métaphysique, Paris, Flammarion,
1979. (8) L. Feuerbach, Geschichte
der neuern Philosophie von Bacon von Verulam bis B. Spinoza, in Sämtliche Werke, Band VIII, hrsg. von W.
Bolin - F. Jodl, Stuttgart, Frommans Verlag, 1903, p. 297. (9) Descartes pour [Arnauld], 4 juin 1648, in AT, vol. V, p.
193. Sulla divisione del tempo in parti indipendenti le une dalle altre cfr. i
passi cartesiani indicati in E. Gilson, Index scolastico-cartésien, Seconde édition revue et augmenté seule autorisé par
l’auteur, Paris, Vrin, 1979, pp. 286-287. (10) “L’esistenza dell’ego si dispiega temporalmente, ma
secondo una temporalità determinata in primo luogo e radicalmente dalla cogitatio. Reciprocamente [inversement], se l’ego esiste solo tanto spesso e per tutta la durata del momento
presente della cogitatio, è perché la
cogitatio stessa privilegia nella sua
propria temporalità la presenza del presente” (J.-L. Marion, Sur le
prisme métaphysique de Descartes, Paris, PUF, 1986, p. 188, tr.
it. modificata a cura F.C. Papparo, Milano, Guerini, 1998, p. 190). (11) G.W.F. Hegel, Kritik
der Verfassung Deutschlands, in Gesammelte
Werke, Band V Schriften und Entwürfe
(1799-1808), unter Mitarbeit von Th. Ebert, hrsg. von M. Baum - K.R. Meist,
Hamburg, Felix Meiner Verlag, 1998, pp. 126-127, tr. it. a cura di C. Cesa in Scritti politici, Torino, Einaudi, 1974,
p. 98. (12) Ivi, pp. 128-129, tr. it. cit., p. 100. (13) Ivi, p. 131, tr. it. cit., p. 101. (14) Ivi, p. 132, tr. it. cit., p. 104. (15) Ibidem. (16) Ivi, p. 133, tr. it. cit., p. 105. (17) Ibidem. (18) Ivi, p. 134, tr. it. cit., p. 106. (19) Ivi,
pp. 134-135, tr. it. cit., pp. 106-107. (20) N. Machiavelli, Il principe cit., p. 268. (21) Ivi,
p. 268. (22) Ibidem. (23) Th.
Hobbes, Leviathan, in English Works, vol. III, ed. by W.
Molesworth, London, John Bon, 1839, p. X. (24) Cfr. A. Illuminati, Del comune. Cronache del general intellect,
Roma, Manifestolibri, 2003, p. 67. (25) Th.
Hobbes, De cive, XII, 8, in Opera philosophica, vol. II, ed.
by W. Molesworth, Aalen, Scientia, 1961, p. 291, tr. it. a cura di T. Magri,
Roma, Editori Riuniti, 1988, p. 188. (26) P. Virno,
Grammatica della moltitudine. Per
un’analisi delle forme di vita contemporanee, Roma, DeriveApprodi, 2002, p.
12. Secondo Illuminati nell’Hegel maturo dei Lineamenti di filosofia del diritto “si completa lo schema
hobbesiano della trasmigrazione del popolo sovrano in contrapposto alla
perniciosa insubordinazione del Pöbel,
plebe sfortunata e famelica, da deportare periodicamente nelle colonie”(Del comune. Cronache del general intellect cit.,
p. 90). (27) Sul tema
del conflitto in Machiavelli cfr. F. Del Lucchese, ‘Disputare’ e ‘combattere’. Modi del conflitto nel pensiero di Niccolò
Machiavelli, “Filosofia politica”, XV (2001), 1, pp. 71-95. (28) Nessuna
occorrenza è segnalata dal Lexicon di
Glokner (Sämtliche Werke, Band XXIV,
Stuttgart, F. Frommann Verlag, 1937). Una occorrenza è invece dal Register di Reinicke nell’Estetica (Werke in zwanzig Bände, Band XX, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1979, p.
265). A proposito di questa occorrenza, mi scrive Biscuso: “che Hegel ne parli
solo nell’Estetica, nel cuore
dell’esame dell’’azione’, è una logica conseguenza della sua impostazione:
l’occasione non può essere per Hegel una determinazione del pensiero, ma solo
una determinazione della ‘situazione’ che riceve il suggello della spiritualità
in quanto occasione di un’azione narrata e, perciò – di nuovo! – elevata alla
necessità (qui artistica)”(M. Biscuso, per
litteras). (29) G. W. F. Hegel, Philosophie
der Weltgeschichte, in Sämtliche
Werke, IX, II Hälfte, hrsg. von G. Lasson, Leipzig, Felix Meiner Verlag,
1923, p. 877, tr. it. di G. Calogero e C. Fatta, Firenze, La Nuova Italia,
1981,vol. IV, p. 147. (30) G.W.F. Hegel, Wissenschaft
der Logik, Erster Band, hrsg. von F. Hogemann - W. Jaschke, in Gesammelte Werke, Band 11, Hamburg,
Felix Meiner, 1978, p. 321, tr. it. a cura di A. Moni, Bari Laterza, 19883,
vol. II, p. 534. (31) Sul concetto leibniziano di requisitum e sulla sua genealogia cfr. F. Piro, “Hobbes,
Pallavicino and Leibniz’s first Principle of Sufficient Reason”, in H. Poser
(hrsg. von), Nihil sine ratione, Band
III, pp. 1006-1013. (32) Lucr., De rer. Nat. (riporto la traduzione di L.
Canali, La natura delle cose, Milano,
Rizzoli, 1994). Cfr. nel primo libro i vv. 75-77 e 594-596; nel quinto i vv.
55-58. (33) I, vv.
156-154. (34) I, vv.
159-181. (35) J. Salem, L’atomisme
antique. Démocrite, Epicure, Lucrèce, Paris, Le livre de poche, 1997. (36) Lucr., De rer. Nat., I, vv. 584-590. (37) II, vv. 297-302. (38) II, vv.
700-709. (39) V, vv. 878-889. (40) I,
vv.1021-1028. Cfr. V, vv. 185-194 e vv. 420-430. (41) II, vv.
1053-1066. (42) V, vv.
366-379. (43) V, vv. 828-848. (44) II, v. 76. (45) I, vv. 445-482. (46) Sesto Emp., Adv. Math., X, 219, tr. it. M. Isnardi Parente, in Epicuro, Opere, Torino, UTET, 19832,
p. 337. (47) Plat.,
Tim., 37d-38c. (48) Rilevando la distinzione
epicurea tra sumptomata, avvenimenti,
e sumbebekota, congiunzioni, Michel
Serres giunge ad affermare che “la storia è sintomo della natura” e che “il
tempo è sintomo dei sintomi”. La natura sarebbe il luogo costituito da incontri
che hanno dato luogo a delle congiunzioni stabili (sumbebekota), mentre la storia sarebbe il luogo costituito da
incontri provvisori di questi composti stabili, eventi (sumptomata). Tutto ciò può essere accettato a patto che si
sottolinei in primo luogo che la stessa natura, le congiunzioni stabili, ha una
storia, ossia che le regolarità che danno luogo alla natura sono comunque
sempre provvisorie, nella loro origine come nella loro durata, e in secondo
luogo che il tempo non è solo sintomo degli eventi storici, ma anche delle
regolarità naturali (cfr. M. Serres, La naissance de la physique dans le texte de Lucrèce, Paris, Les Editions de Minuit, 1977, tr.
it. di P. Cruciani - A. Jeronimidis, Palermo, Sellerio, 2000, pp. 132-135). (49) Ep. ad Her., 73. (50) Lucr., De rer. Nat., IV, vv. 87-89. (51) IV, v.
385. (52) IV, vv. 794-796. (53) L. Gerbier, Histoire,
médecine et politique. Les figures du temps dans le «Prince» et les «Discours»
de Machiavel, thèse de doctorat sous la direction de B. Pinchard, 1999, p.
1. (54) Aug., Conf., XI, 23; ed. it a cura di M. Cristiani,
M. Simonetti e A. Solignac, tr. it. di G. Chiarini, Milano, Fondazione Lorenzo
Valla/Mondadori, 1996, p. 141. (55) L. Gerbier, Histoire,
médecine et politique cit., p. 23. (56) Ibidem. (57) M. Heidegger, Sein
und Zeit, in Gesamtausgabe, Band
2, hrsg. von F.-W. von Hermann, Frankfurt a.M., Vittorio Klostermann, 1977, p.
570, tr. it. a cura di P. Chiodi, Milano, Longanesi, 1970, p. 537. (58) J. Derrida, Marges
- de la philosophie, Paris, Editions de Minuit, 1972, tr. a cura di M.
Iofrida, Torino, Einaudi, 1997. (59) Arist, Phyis.,
217b 32. (60) Arist, Phyis.,
217b 34. (61) W. Wieland, Die
aristotelische Physik. Untersuchungen über die Grundlegung der
Naturwissenschaft und die sprachlichen Bedingungen der Prinzipienforschung bei
Aristoteles, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1962, tr. it. a cura di
C. Gentili, Il Mulino, Bologna 1993, p. 409. Estremamente chiarificatrice l’analisi di Moreau: “Le
Temps, en effet, est continu, comme la ligne; il renferme, dans cette
hypothèse, une infinité d’instants, comme la ligne une infinité de points. Mais
à la différence des points qui coexistent dans la ligne, les instants dans le
Temps se succèdent, ce qui suppose que continuellement un instant nouveau se
substitue au précédent. Or, quand donc peut s’effectuer une telle substitution?
Le temps étant continu, les instants en nombre infini, jamais on ne saisira
l’articulation de deux instants successifs; toujours il seront séparés par une
infinité d’instants; la substitution est impossible dans la continuité” (J.
Moreau, L’espace et le temps selon
Aristote, Padova, Editrice Antenore, MCMLXV, p. 91). (62) Arist.,
Phys., 222a 10-14. (63) “In quanto l’istante è un
limite, esso non è un tempo, ma un accidente del tempo” (Arist., Phys., 220 a 22-23). (64) J. Locke, An
essay concerning human understanding, edited by P.H. Nidditch, Oxford,
Clarendon Press, 1975, p. 182, tr. it. a cura di C. Pellizzi, vol. 1, Laterza,
Roma-Bari 1994, p. 191. (65) Ivi, p. 185, tr. it. cit., p. 194. (66) I. Newton, Philosophiae
naturalis Principia mathematica, Bruxelles, Culture et Civilisation, 1965,
p. 5. (67) Arist., Phys,
218 b 9-10. (68) Cfr. a questo proposito E. Berti, “Les méthodes
d’argumentation et de démonstration dans la Physique (aporie, phénomènes,
principes)”, in F. De Gandt - P. Souffrin (édité par), La physique d’Aristote, Paris, Vrin, 1991, pp. 53-72. (69) Arist., Phys.,
218b 9-11. (70) Arist., Phys., 219b 2-3. (71) Arist., Phys.,
220b 8-9. (72) Arist., Phys., 223b 20-25. (73) W. Wieland, Die
aristotelische Physik, tr. it. cit., p. 415. (74) Arist., Phys., 218b 4-6. (75) Cfr. l’abbozzo di una
teoria della storia in L. Althusser, “L’objet du Capital”, in AA.VV., Lire le
Capital, Paris, PUF, 19963, pp. 272-309, tr. it. a cura di R.
Rinaldi - V. Oskian, Milano, Feltrinelli, 1968, pp. 97-126. (76) E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, Frankfurt a. M.,
Suhrkamp, 1969, pp. 999-1000, tr. it. di T. Cavallo, Milano, Garzanti, 1994,
vol. II, p. 986. (77) Su ciò
vedi Il tempo e l’occasione cit., pp.
160-181. (78) A. Kojève, Introduction
à la lecture de Hegel, Paris, Gallimard, 1947, pp. 351-354. (79) TTP IX, pp. 129-130, tr. it. a cura
di A. Droetto e E. Giancotti, Torino, Einaudi, pp. 258-259. (80) TTP VII, p.101, tr. it. cit., p. 190. (81) Qui mi
riferisco naturalmente a quelle celebri pagine di Althusser (L. Althusser,
“L’objet du Capital” cit., pp.
396-411, tr. it. cit., pp. 191-204) in cui tuttavia né il concetto di occasione
né quello di incontro sono messi a tema, e che tuttavia sono probabilmente i
tasselli teorici mancanti per gettare luce su alcune enigmatiche espressioni
come “causalità strutturale” o “metonimica”. (82) TP, V, 7,
p. 296, tr. it. a cura di P. Cristofolini, Pisa, ETS, 2000, p. 85. (83) TP, I, 1, p. 273, tr. it., p. 27. (84) N. Machiavelli, Il principe cit., p. 268. (85) TP, X, 1, p. 353. (86) Eth, II, Post. IV, p.
102, tr. it. di E. Giancotti, Roma, Editori Riuniti, 1988, p. 139. (87) Eth, pp. 100-101. (88) G.
Deleuze, “Les lettres du mal”, in Spinoza.
Philosophie pratique, Paris, Les Editions de Minuit, 1981, p. 47. (89) “In nessun modo il ‘ritorno ai principi
machiavelliano ripete il topos
platonico della ‘pacificazione originaria’ come assenza di passioni. Al
contrario per Machiavelli, l’origine è il luogo in cui con più intensità le
passioni vivono e si scontrano”(R. Esposito, “Ordine e conflitto in Machiavelli
e Hobbes”, in Ordine e conflitto.
Machiavelli e la letteratura politica del Rinascimento italiano, Napoli,
Liguori, 1984, pp. 200-201). (90) N. Machiavelli, Discorsi, III, 1, in Tutte le
opere cit., p. 195. (91) I Tess.5,
3. (92) Sul rapporto tra Gioacchino da Fiore e la filosofia della storia moderna da Vico a Lessing, da Hegel a Marx cfr. K. Löwith, Meaning in History, Chigaco, The University of Chicago Press, 1949, tr. it. di F. Tedeschi Negri, Milano, il Saggiatore, 1989. |