Etica & Politica / Ethics & Politics, 2004, 1

http://www.units.it/etica/2004_1/CRISTOFOLINI.htm

 

 

 

Spinoza, l’individuo e la concordia

 

Paolo Cristofolini

Scuola Normale Superiore, Pisa

 

 

Abstract

 

Spinoza, single individual and concord

 

Concord may be recognised in the relationship between individuals living under the guide of reason; however it must be planned within society intended as a whole. Spinoza investigates this asymmetry: although society is a fundamental need and, for any rational human being, the best form of common living is the one lead by reason, the vast majority (multitudo) does not live under the guide of reason, but rather under the guide of passions. Those interpretations that attribute to the so called multitudo some form of spontaneous self-organised democratic wisdom, capable of ensuring a positive future, are to be considered mystical. The appendix to part IV of Spinoza’s Ethics clearly demonstrates that concord is possible only within the relationship between single individuals, and that therefore man’s task is to educate others to reason. Concord, as freedom, is considered a “private” virtue not in a egoistical or possessive sense, but because only singles can achieve it and transmit it to others, whereas it can not raise spontaneously from some sort of collective individuality.

 

 

 

1. Società di saggi o società di tutti?

 

Il sottotitolo generale del Trattato politico si chiude sul nesso fra due parole chiave, pace e libertà - “ut Pax, Libertasque civium inviolata maneat” . La sintonia e la continuità ideale, anche in termini strutturali, con il sottotitolo generale del Trattato teologico-politico, dove le parole-chiave sono le stesse due, sono evidenti pur nella diversità dei contesti: lì si parlava di libertas philosophandi , data non solo come garanzia della pace, ma come sua condizione indispensabile; qui si parla invece di libertas civium come obiettivo parallelo a quello della pace.

Inoltre, mentre nel Trattato teologico-politico le due parole fanno perno attorno alla pietas, entro l’assunto generale consistente nel ribaltare il pregiudizio della nocività del libero pensiero nei confronti della religione e dei buoni costumi, su cui si regge il potere e il prepotere dei “teologi”, nel Trattato politico il problema è quello delle vie attraverso le quali raggiungere e realizzare l’ottimo stato: in questa prospettiva il cuore del problema generale è la concordia.

Il concetto, il cui lemma presenta nel testo un numero non alto di occorrenze (1), occupa in quest’opera una posizione sistematica paragonabile a quella che occupa nella quinta parte dell’Etica il tema culminante dell’amor, attorno al quale si raccolgono e si coordinano i temi virtuosi della ratio, della potentia e dell’ homo liber svolti dalla seconda alla quarta parte; analogamente nel Trattato politico convergono intorno al tema della concordia i temi virtuosi della libertas, della securitas e della pax.

È dunque necessario considerare in una visione d’insieme le due dimensioni complementari della vita umana associata: quella passiva dei cittadini comuni, i quali indipendentemente dalla loro maggiore o minore saggezza hanno bisogno della tutela dello stato, che deve garantire la sicurezza; e quella attiva nella quale pace, libertà e concordia scaturiscono dalla fortezza d’animo, virtù privata (2).

Ma prima che le implicazioni qui anticipate siano giustificate, occorre fare un passo indietro e assumere chiaramente come presupposto, nell’affrontare il problema, la costante aporia, o asimmetria del pensiero di Spinoza. Si tratta dell’oscillazione continua tra la constatazione che, mentre sarebbe auspicabile, per ciascun uomo razionale, il vivere in società con altri uomini guidati dalla ragione, gli uomini, nella loro stragrande maggioranza, sono condotti piuttosto dalle passioni che dalla ragione; e l’affermazione di carattere generale, che della società con gli altri uomini, razionali o passionali che siano, non possiamo fare a meno e sarebbe sragionevole rinunciarvi.

L’uomo libero dell’Etica si sforza, per quanto può, di scansare i favori degli ignoranti dai quali è circondato (3); salvo precisare subito dopo: “dico quantum potest: quamvis ignari sunt tamen homines” (4). Nell’Etica e nel Trattato politico gli uomini nella loro più generale condizione, che è quella di essere attraversati dalle passioni, sono designati come nemici per natura, natura hostes (5); peraltro, se il meglio che un uomo possa attendersi dalla vita è la società con i suoi simili guidati dalla ragione, non per questo la vita associata con gli uomini non saggi e non liberi può essere saggiamente evitata: è anzi la fuga in generale dalla società ad essere condannata e rifiutata (6).

Il punto essenziale, per stare al Trattato politico, è che questo è un libro scritto non in vista dell’organizzazione di una società di saggi, ma per la società della gente comune: se la natura avesse costituito gli uomini in modo tale che essi spontaneamente trovassero nella vita razionale la migliore realizzazione del loro impulso all’autoconservazione e all’accrescimento della propria potenza, non ci sarebbe bisogno di leggi né di costituzioni civili: : “ si cum humana natura ita comparatum esset, ut homines id, quod maxime utile est, maxime cuperent, nulla esset opus arte ad concordiam, et fidem” (7).

La concordia ha dunque la sua radice di conoscibilità nel rapporto fra uomini che vivono secondo la guida della ragione, e troverebbe, in astratto, il suo terreno ideale in una comune di razionali e di saggi, senza stato e senza istituti coercitivi di sorta: un’anarchia di sogno che Spinoza, avverso ai sogni, al secolo d’oro ed alle fantasticherie poetiche, si guarda bene dal vagheggiare. In concreto, come obiettivo da mettere in pratica, la concordia va pensata e progettata dentro la società tutta intera. Come a questo si possa arrivare, e quali siano le condizioni in cui Spinoza giunga in un luogo determinato a parlare persino di libera multitudo, è il problema; e vedere, di questo problema, i termini aporetici, è essenziale se quella che interessa è la comprensione effettiva dello spinozismo come teoria politica.

Sono possibili altrimenti due derive interpretative, che credo di poter indicare come fuorvianti: quella contrattualistica, in cui si riconosce una buona parte dei trattati generali di storia delle dottrine politiche, in cui il pensiero politico di Spinoza è per lo più proposto come una variante subordinata a quello di Hobbes, e dove tutto il rapporto fra la collettività e il potere sovrano è in ultima analisi ridotto nei termini della delega permanente; e quella democratico-sovversiva alla Toni Negri, che mira, attraverso l’enfatizzazione del ruolo della multitudo, a identificare dentro questa prospettiva un soggetto-massa protagonista e rivoluzionario. Discuterò qui soprattutto quest’ultima.

 

 

2. La moltitudine come superuomo?

 

L’interpretazione fortemente attualizzante avanzata da Negri ne L’anomalia selvaggia del 1981, da lui ulteriormente svolta in successivi scritti (8) conosce in questi anni - segno, anche per chi non la condivide, di notevole vitalità - momenti di ripresa e di rielaborazione da parte di più giovani e valorosi studiosi italiani, dopo avere goduto al suo primo apparire di forti apprezzamenti soprattutto in Francia. In Negri l’idea di multitudo è lo strumento ermeneutico principale per la comprensione dello spinozismo: carica di “potenziale rinascimentale”, ovvero di immanentismo e di naturalismo, essa sfocia in Spinoza, secondo Negri, “in progetto e genealogia del collettivo, come articolazione e costituzione cosciente del complesso, della totalità” (9). La totalità, questa categoria centrale della dialettica hegeliana, nella rivisitazione fattane da Lukacs in Storia e coscienza di classe, ha il sopravvento anche sull’individuo della fisica spinoziana, che era un composto presupponente il semplice; mentre per parte sua la “genealogia del collettivo” fa risuonare echi e suggestioni di una famosa Genealogia della morale, che come questa non presenta nulla che sia dimostrato secondo ordine geometrico.

Pure molto apprezzata da Matheron, l’interpretazione data da Negri sposta i termini di Individu et communauté (10) e se ne allontana su di un punto essenziale, perché non si limita a situare Spinoza su di una linea antagonistica rispetto a tutte le filosofie dell’ “individualismo possessivo”, secondo la celebre espressione di Macpherson (11), ma mette in eclisse pressoché totale l’individuo spinoziano: tutta la portata immanente della soggettività si viene a caricare sulla multitudo, in una sorta di paradossale misticismo dell’immanenza che alla dimensione del razionalismo spinoziano lascia ben poco posto.

Questa discussione merita di essere condotta, quanto più possibile, per ordine. Tra i molti contesti del Trattato politico in cui la multitudo compare la preminenza spetta al paragrafo 17 del secondo capitolo in cui sulla potenza della multitudo si innesta l’idea di imperium: “Hoc jus, quod multitudinis potentia definitur, Imperium appellari solet” (12). Questa è, di fatto, la definizione di quello che in tutto il linguaggio politico dal XIX al XXI secolo si chiama stato (estado, état, state, Staat) e che nel latino e nelle lingue neolatine del XVI secolo non si esprimeva con il lemma corrispondente; come definizione è anomala, perché retta non da un “intelligo”, o “dico”, o “dicimus”, ma da un “solet” che rimanda piuttosto all’uso comune che al rigore dell’impianto definitorio. Dico per inciso che tradurre imperium, come alcuni fanno, con “potere”, oltre ad introdurre un concetto hobbesiano non appartenente al lessico di Spinoza, ci mette dinanzi al goffo truismo, al limite della tautologia, di un potere che si definisce in base alla potenza. L’anomala, definizione poi, contiene al suo interno il verbo “definitur”, che indica in questo caso piuttosto la fonte genetica che l’ambito semantico del termine. Ciò non comporta nulla che non sia coerente con quanto illustrato da Spinoza nella celebre lettera a De Vries sulla natura della definizione (13); essa rimane comunque eccentrica rispetto agli usi definitori dell’Etica, se solo si fa eccezione per l’altra grande definizione anomala che a noi qui interessa, quella di individuo, anche quella puramente genetica e solo per conseguenza nominale.

Riportiamoci, ora, al contenuto. Che cosa è questo jus, che si definisce in base alla multitudinis potentia? Ogni individuo, lo sappiamo già dal Trattato teologico-politico, gode di un diritto di natura che si estende tanto quanto si estende la sua potenza (14). Il fatto che questo diritto individuale non possa farsi legge per la collettività degli altri dotati di pari potenza e, al tempo stesso, il fatto che nessuno abbia da solo i mezzi per sostentarsi e per fare fronte ai pericoli provenienti dalle forze incombenti della circostante natura, comporta un naturale bisogno di jura communia (15); questo è al tempo stesso in contrasto con l’ingenium del singolo, tendente per caeca cupiditas all’esercizio della più inconsulta prepotenza, e in armonia con il conatus all’autoconservazione e all’aumento della propria potenza, che comporta l’uso sempre più ampliato delle proprie capacità e, in ultima analisi, di quella tra di esse più eccelsa, che è la capacità di ragionare.

Deriva da qui l’aggregarsi degli individui in individui composti più estesi, i quali saranno ancora soggetti dall’ingenium tendente alla prepotenza inconsulta, problematicamente aperti al governo della ragione, oppure al suo opposto. Questa è la multitudo. Nessuna armonia prestabilita sancisce che essa sia saggia e libera più di questo o quel singolo individuo che la compone: l’intervento della ragione nei suoi comportamenti è, come per il caso dell’individuo singolo, il risultato possibile della tensione sopra detta, che può comportare il sopravvento dell’una o dell’altra tendenza, entrambe inscritte nell’ordine della necessità naturale.

La potentia multitudinis è, come bene chiarisce Balibar, la potenza del numero, “non certo nel senso di una somma aritmetica, ma nel senso di una combinazione o, se vogliamo, di una interazione di forze” (16); quando questa combinazione o interazione di forze arriva a darsi uno jus, un sistema di regole comuni, si dà l’imperium. Quali poi siano le modalità del passaggio dalla potentia multitudinis all’ imperium, non è esplicitato nel testo spinoziano: occorre che questa moltitudine sia guidata come da una sola mente (17); ma la definizione genetica e anomala che conosciamo non dà la scansione processuale, e nemmeno ne dichiara la necessità: in altri termini, una volta che si dia una potentia multitudinis, ne consegue necessariamente un imperium, oppure no?

 Se consideriamo il fatto che esistono (ed esistevano al tempo di Spinoza e nella storia a lui nota) popoli interi che non aggregano o che aggregano in maniera insufficiente le loro forze congiunte, tanto da essere preda di altri che li colonizzano; se, ancor più, consideriamo il fatto che nella maggioranza degli stati la maggioranza non è costituita da cittadini sui juris, ma da sudditi, plebei e servi privi dei diritti civili, occorre dire che la fondazione dell’imperium sulla potentia multitudinis è più l’eccezione che la regola. Tale eccezione si produce soltanto allorché una moltitudine data, per concorso collettivo di forze o per guida sapiente e forte di qualche capo, arriva effettivamente a darsi un sistema di norme e una condotta comune. E così si “fabbrica” l’imperium, secondo la bella espressione di Riccardo Caporali.

Ma questa fabbricazione non è un evento automatico, spontaneo, immediato, come sembra suggerire lo stesso Caporali nella parte centrale della sua argomentazione quando, sulla scia di Negri e andando più oltre - con una operazione ardita e intelligente, che non mi sento però di condividere - dapprima rileva la frequenza particolarmente alta rispetto alle altre opere, del lemma multitudo nel Trattato politico, e anche la molteplicità dei contesti argomentativi, dunque delle valenze del concetto; per venire poi a farne un collettore universale delle umane determinazioni, dal cui potenziale “emerge continuamente una forza in atto”; così vista, l’idea di multitudo si configura nella sua analisi in un ruolo parallelo a quello che esercita nell’Etica l’idea della causa sui: “la multitudo si costituisce nella costituzione del potere” (18).

Prima di lui Laurent Bove, nel suo saggio sul conatus che raccoglie e sviluppa in modi originali tanti insegnamenti di Matheron, ha individuato nella multitudo “le corps collectif politique” (19) (ciò che corrisponderebbe, a rigore, alla definizione della civitas (20)), per giungere ad attribuire a questo corpo sociale una “auto-organisation politique, même si cette organisation peut apparaître comme insupportable, dans certaines conditions, à une partie parfois nombreuse des individus constituant ce corps” (21). Per Bove dunque la potenza della moltitudine che veluti una mente ducitur (22) si esprime in forma riflessiva, di auto-organizzazione. Sarà il caso di discutere sulla legittimità o meno di estrapolare dal testo spinoziano un’espressione come questa, di auto-organizzazione; mi sembra chiaro comunque che l’accostamento che fa Caporali tra la multitudo e la causa sui è in perfetta sintonia con questo suggerimento di Bove. Ma si può sempre parlare, qui, di stato e di genesi dello stato?

La parola imperium, come detto qui sopra, è l’unica del lessico spinoziano che ritengo potersi e doversi correttamente tradurre con “stato”. Si può e si deve ora precisare ulteriormente che la sua portata semantica nel latino del XVII secolo è e rimane più estesa di quella in cui si identifica il moderno stato-nazione. In quanto potenza del numero suffragata da legittimazione riconosciuta e da strumenti di applicazione di norme comunemente istituite, imperium può designare anche un’aggregazione transnazionale, un’organizzazione militare occulta con una sua gerarchia e una disciplina, una setta religiosa che obblighi gli adepti a regole diverse e magari contrastanti con le leggi dello stato, una società segreta di tipo massonico o carbonaro, una mafia.

Se si guarda a quell’aspetto della lettura di Bove per cui questa auto-organizzazione può apparire insopportabile a una parte anche numerosa degli individui costituenti la moltitudine, risulta chiaro che la spontaneità auto-organizzativa non si identifica con lo stato e non sfocia necessariamente nello stato, o almeno nello stato espressione della maggioranza: può essere uno stato monarchico, o aristocratico o democratico elitario come è di fatto quello abbozzato da Spinoza (23); ma è altrettanto plausibile che questa organizzazione insopportabile per tanti cittadini possa essere un movimento eversivo o una congiura militare, che operi in maniera organizzata e con lucidi propositi anche contro lo stato. Ma se così stanno le cose, possiamo stare sicuri che tra i numerosi individui non disposti alla sopportazione rientra lo stesso Baruch Spinoza, che ritiene giusta la carcerazione dei sovversivi (24).

Anche Filippo Del Lucchese, giovane studioso autore di un’eccellente tesi di dottorato sul tema del conflitto tra Machiavelli e Spinoza, si innesta nel solco interpretativo della valorizzazione della multitudo come potenza auto-organizzativa; vede però il problema unicamente dal lato positivo della crescita della democrazia e, guardando alla multitudo come a un individuo più complesso e anche più perfetto del singolo individuo umano, giunge ad attribuire ad essa il più alto livello dell’umana sapienza. Andando oltre le stesse osservazioni di Balibar intorno alla potenza del numero, Del Lucchese vede questa potenza come implicante una “razionalità che nasce dal numero e dalla quantità, superiore a quella individuale” (25); e richiamando anche la tesi da me avanzata anni fa sulla scienza politica come scienza intuitiva, fa poi della multitudo non soltanto il soggetto dell’agire politico, ma il soggetto dotato di tale scienza. Il riconoscimento verso di me è generoso, ma la sua conclusione, secondo cui la “libera multitudo autorganizzata in democrazia ricorda proprio la conoscenza di terzo genere” (26), marca più una distanza che una vicinanza tra noi. Non credo di avere mai visto né indicato un soggetto pensante scientificamente che non sia un individuo singolo o una comunità di studiosi: i comportamenti di massa riesco a vederli come oggetto, non mai come soggetto di scienza.

Un’espressione come libera multitudo, certamente, è dotata di forza suggestiva e può indurre persino a pensare ad una equiparazione con la libertà del sapiente. Ma non può essere casuale e non deve sfuggire il fatto che i due luoghi tra loro vicinissimi (27) in cui l’espressione compare sono quelli in cui, al disopra della libera multitudo stessa, è evocato l’acutissimus Machiavellus, lui sì sapiens, che mette in guardia la libera multitudo da possibili esiziali errori. Si deve dire che Machiavelli trae la sua saggezza dalla moltitudine? O che la somma combinata di saperi della moltitudine sia superiore alla sapienza isolata di Machiavelli? Per Spinoza è evidente il contrario.

Inoltre, anche al di là di quello che Bove ci ha lasciato leggere tra le righe, ossia che la multitudo non è necessariamente portatrice di valori positivi e di democrazia, possiamo qui osservare che, se questa spontaneità auto-organizzativa della moltitudine sapiente avesse luogo, la democrazia stessa, come qualsiasi altra forma di governo, sarebbe, in termini rigorosamente spinoziani, inutile e superflua. In un luogo già richiamato (28) Spinoza insiste proprio sul fatto che occorre dotare lo stato di istituzioni tali per cui tutti siano costretti, spontaneamente o a forza o per necessità, a vivere secondo ragione, e per questo occorre una vera e propria arte - arte che non può appartenere a quella massa stessa di uomini prevalentemente irrazionali, che la eserciterebbero su di sé per costringersi alla razionalità.

Quello che è da discutere è il concetto stesso di organizzazione. Nella lettura di interpreti come Bove e Del Lucchese la parola pare affacciarsi come estensione della portata semantica dello jus, cui si sovrappone. Ma il diritto non comporta in sé organizzazione alcuna (si pensi al diritto naturale del pesce grosso sul pesce piccolo); è l’organizzazione, semmai, una manifestazione avanzata del diritto come potenza di controllo sulla realtà circostante. Una auto-organizzazione, in contesto spinoziano, non si può pensare se non in analogia e parallelo con il dominio delle proprie passioni: e in questo caso la multitudo auto-organizzata in democrazia, così come la vede Del Lucchese, esprimerebbe la propria conoscenza di terzo genere come scienza di autocontrollo delle passioni. La via perardua alla saggezza, su cui si chiude con il suo ultimo scolio l’Etica, quell’accesso raro alla sapienza, si rivelerebbe qui di colpo come appannaggio della massa; e quell’arte o artificio sapiente che consiste nel costringere tutti, razionali o passionali che siano, entro l’alveo di una vita sociale razionalmente regolata, si ridurrebbe alla fine dei conti alla scienza di rendere ragionevoli i ragionevoli. A meno che non si pensi (rovesciando il vecchio adagio dei senatores boni viri, senatus mala bestia) che il male sia nel singolo individuo e il bene nella massa.

Nel pensiero di Spinoza l’aumento della potenza di un individuo si dà, a seconda che consideriamo le cose dal punto di vista dell’attributo dell’estensione o da quello dell’attributo del pensiero, in due forme distinte: come incremento numerico di corpi coordinati, e come progresso della mente ai gradi superiori della conoscenza. Ora, non potendo il corpo determinare la mente a pensare né potendo la mente determinare il corpo al moto (29), le due vie al potenziamento non sono tra di loro sovrapponibili. L’uomo non aggrega automaticamente più forze, quanto più eleva la propria conoscenza, né si fa più sapiente assieme agli altri grazie al semplice aumento del numero. Un vecchio debole e malato può possedere scienza intuitiva. Una squadra di energumeni può sfondare un muro, ma non produce un sapiente.

Se è vero, poi, che anche le energie psichiche tra loro combinate danno un risultato del tutto simile alla combinazione delle forze fisiche, si deve ricordare con Spinoza che le energie psichiche della massa sono nella gran prevalenza passionali, non razionali. Il caso emblematico è quello della multitudo che, guidata veluti una mente, perpetrò l’assassinio dei fratelli De Witt, campioni legittimi e illuminati della libera repubblica. Ultimi barbarorum, disse quel giorno Spinoza.

 

 

3. Virtù dell’individuo.

 

Qui dunque il punto di riferimento non sarà la multitudo - termine che non dispone, nei testi spinoziani, di uno statuto concettuale univocamente definito - ma l’individuo che, nel suo essere definito rigorosamente come corpo composto, è il vero termine fondante di tutte le relazioni e tensioni interne all’insieme sociale.

Se torniamo alla definizione di individuo, data nel piccolo trattato sui corpi semplici e complessi che fa seguito alla proposizione 13 della seconda parte dell’Etica (30), abbiamo il nucleo originario della questione. L’individuo è un aggregato di corpi che costituisce un corpo complesso tenuto assieme da rapporti reciproci di moto e di quiete regolati certa quadam ratione. Questa ratio o regola determinata si deve intendere ad un tempo come la norma che regge la struttura anatomica del singolo corpo, e come la norma che regge la coesione e l’operatività comune di una collettività di individui, ossia di corpi e di menti, che dei corpi sono l’idea. In questa prospettiva è da prendersi in attenta considerazione l’interrogativo riproposto di recente da Alexandre Matheron, se lo stato in Spinoza sia un individuo nel senso spinoziano del termine (31).

Il risultato dell’ampia indagine di Matheron, che tira qui le fila di una lunga discussione avutasi nel corso degli anni con diversi interlocutori delle tesi da lui sostenute in Individu et communauté, è una risposta affermativa, ma in termini saggiamente moderati. Lo stato (col quale termine Matheron intende prevalentemente la civitas in quanto imperii...integrum corpus (32)) è un individuo ma - d’accordo con la fondamentale analisi di Moreau (33) - un individuo molto meno integrato del corpo umano: tutti gli individui, a diversi gradi, sono animati (34), e l’anima dello stato ha soltanto quelle idee che, nelle anime dei suoi membri, si riferiscono alle regole di dirritto che dello stato costituiscono l’essenza. Queste idee, separate dal molteplice contesto immaginativo e percettivo in cui sono immerse le menti degli individui singoli, danno luogo a quello che Moreau chiama un “composto povero” (35): l’anima dello stato percepisce meno cose di quella di un singolo, e dunque è minore la parte di lei che è eterna (36).

Come si procede dunque alla ricerca della concordia, del suo significato e del suo valore etico e politico? Ci è qui chiaro che il perno è l’individuo, parola con la quale Spinoza designa soltanto in seconda battuta la collettività organizzata in forma di cittadinanza retta da quel comune apparato giuridico che prende il nome latino di imperium e quello contemporaneo di stato. Si può riscontrare, come mostra Matheron nel Trattato teologico-politico (e, aggiungiamo, nel De intellectus emendatione) anche l’accezione più corrente, di “individuo” come essere umano singolo; ma soprattutto, nel Trattato politico, s’incontra la connessione tra l’individualità umana (non importa se in termini di singolarità o di specie) e le altre individualità, “reliqua individua” (37).

Ora, nel cuore dell’Etica, possiamo vedere come l’idea della concordia, con tutte le implicazioni che comporterà poi nel quadro della politica, nasca dal rapporto tra individui. Sono da vedere attentamente, in questo orizzonte, alcuni capitoli dell’appendice alla parte IV, che mettono la questione perfettamente a fuoco. Eccone lo sviluppo.

L’uomo è parte della natura e ne segue l’ordine comune; ma se la sua vita si svolge a contatto con individui la cui natura è conforme alla sua (“si inter talia individua versetur, quae cum ipsius hominis natura conveniunt”), la sua potenza d’agire ne sarà favorita, mentre se l’ambiente circostante sarà costituito da individui di natura difforme dalla sua, non potrà conciliarsi con loro se non a prezzo di una profonda trasformazione di sé (38). Ora, quali sono gli individui conformi alla natura umana di un uomo? Sono gli uomini in generale, o gli uomini dotati di certe caratteristiche? E nel primo caso, basta essere a contatto con esseri umani perché la nostra naturale potenza ne esca rafforzata, mentre la vita tra animali bruti sarebbe per noi stessi fonte di abbrutimento? Oppure il contatto con uomini prepotenti, aggressivi, corrotti, è proprio quello che minaccia l’integrità della nostra natura e ci mette a repentaglio di trasformazioni in senso deteriore?

La risposta a questi dilemmi è più aperta di quanto non possa sembrare, poiché abbiamo già visto luoghi dell’Etica in cui la fuga dal consorzio umano e il rifugio lontano da esso, tra gli animali bruti, è da Spinoza stigmatizzata: il vivere nel consorzio umano, quale che sia, pare essere in ogni caso, anche quello del peggior consorzio, un male minore rispetto all’isolamento e all’inselvatichimento.

Anche, però, a tener conto di questo, sembra chiaro che non basti vivere tra esseri umani perché la propria natura umana ne esca potenziata: la condizione servile, anzi, è da Spinoza equiparata in più di un caso a quella della barbarie e della vita nel deserto, come in questo passo di potente evocazione tacitiana del Trattato politico: “si servitium, barbaries et solitudo pax appellanda sit, nihil hominibus pace miserius” (39). La condizione del servo non è dunque meno miserabile di quella del selvaggio: i servi e, peggio, quelli che avendo l’animo educato al servilismo si lasciano condurre come pecore, non sono in senso proprio cittadini e il contatto con loro non costituisce una società, ma piuttosto una solitudo, un deserto: “Illa ... Civitas, cujus pax a subditorum inertia pendet, qui scilicet veluti pecora ducuntur, ut tantum servire discant, rectius solitudo, quam Civitas dici potest” (40).

In effetti un altro capitoletto dell’appendice alla parte IV precisa che qualora gli uomini siano reciprocamente mossi da invidia e da altre forme di odio, la loro pericolosità è massima in quanto gli uomini “plus possunt quam reliqua Naturae individua” (41). Questa precisazione è stata preceduta dall’affermazione della concordanza massima, in natura, tra individui della stessa specie (42)

. Ma non si parla certo di specie biologica: poiché nulla, leggiamo poi, è per l’uomo più utile alla conservazione del suo essere e alla fruizione della vita razionale, dell’uomo guidato dalla ragione. Questa asserzione, accompagnata dall’altra per la quale nulla conosciamo che più valga per l’uomo dell’uomo condotto dalla ragione, porta con sé una conclusione non statica, ma dinamica: il risultato del ragionamento non è la constatazione che la società degli uomini razionali è quella in cui si vive meglio, ma è il rilevamento della possibilità, per ciascuno, di mettere in mostra il meglio della sua arte e del suo ingegno nell’educare gli uomini a vivere secondo il proprio dominio della ragione: “nulla.. re magis potest unusquisque ostendere, quantum arte et ingenio valeat, quam in hominibus ita educandis, ut tandem ex proprio Rationis imperio vivant” (43).

Anche la ragione, apprendiamo qui, gode di un proprio imperium, che è “proprio” in quanto non scaturisce, in questo caso, dalla potenza della moltitudine in forma di diritto costituito, ma semmai si può imporre a quanti più individui con la forza della persuasione e dell’esempio. La ragione esercita una guida, un comando, una direzione sui generis che non si impone all’individuo dall’esterno con la forza e la maestà delle leggi, ma che si lascia scoprire ed elaborare dall’individuo stesso, dall’interno del proprio conatus, o con forze proprie o grazie all’intervento esterno, educativo, di chi è più saggio. Questo “proprio” dominio della ragione, insomma, è anche un “nostro” dominio nei suoi confronti: non dobbiamo solo dominare le nostre passioni, dobbiamo dominare anche la nostra ragione, non certo nel senso di asservirla all’arbitrio e al sofisma capzioso, ma nel senso che consiste nel guidare tutte le nostre potenze, e questa della ragione che è la maggiore di tutte, allo scopo della piena realizzazione di quella natura umana superiore sulla quale si era soffermato Spinoza nel De intellectus emendatione, con il proposito di acquisirla assieme a molti altri (44).

 

 

4. Concordia e vita.

 

Arriviamo qui a vedere la concordia come virtù. Già l’inizio del Trattato politico ha indicato la libertà come virtù, e non virtù dello stato, ma virtù privata, che proviene dalla fortezza d’animo (45); se consideriamo come, nel panorama degli affetti, la fortitudo animi ha due volti, quello della animositas che è la forza nell’affrontare con serenità le traversie personali, e quello della generositas, che è la capacità di riversare la propria ricchezza interiore a beneficio degli altri (46), vediamo che questa virtù si dice “privata” non in senso possessivo ed egoistico, ma nel senso che il singolo individuo la può avere, mentre è impensabile che la possa avere lo stato o la moltitudine. E poi nel quinto capitolo (strategicamente centrale) del Trattato politico sono la pace e la concordia a configurarsi come virtù: la pace “ non belli privatio, sed virtus est, quae ex animi fortitudine oritur” (47), proprio come la libertà nel luogo ora citato; mentre la vita concorde, nel paragrafo successivo, è indicata come la vita non tranquillamente vegetativa, ma come la vita attiva guidata dalla ragione, vita della mente: “ Cum ergo dicimus, illud imperium optimum esse, ubi homines concorditer vitam transigunt, vitam humanam intelligo, quae non sola sanguinis circulatione, et aliis, quae omnibus animalibus sunt communia, sed quae maxime ratione, vera Mentis virtute, et vita definitur” (48).

Qui si configura l’idea della virtù massima, che può avere spinto uno Spinoza, individuo isolato, a spendere gli ultimi mesi della sua vita in impegni come quelli dell’Etica e del Trattato politico: il primo compito è quello di educare gli individui della propria specie, ossia gli altri uomini, al dominio proprio della ragione; e il secondo consiste nel ricercare l’optimum imperium tramite quella scienza intuitiva alla quale pochi possono accedere - ossia la conoscenza della natura umana come cosa singola, che si raggiunge a partire dagli attributi distinti del pensiero e dell’estensione, dal loro esplicitarsi nei modi della mente e del corpo umano, per arrivare al giuoco complesso delle passioni che rende intelligibile nel suo complesso questa cosa singola, e di conseguenza mette in grado di scorgere quali siano le possibilità di un governo sapiente della vita degli uomini in società (49). Per raggiungere questo livello della conoscenza occorre, e qui i testi e lo spirito dello spinozismo non possono dare luogo a equivoci, una mente umana. Le mentes aliarum rerum possono essere idee di ogni genere di cosa, animata o inanimata: ma l’indagine che, nella seconda parte dell’Etica, conduce all’individuazione dei gradi di conoscenza come modalità di accesso a idee universali, riguarda nos, la mente umana; e come le menti diverse dall’umana non accedono alla formazione di idee universali, così pure un gruppo umano integrato e costituito da molte menti, solo per similitudine ne avrà una sola, e quell’una sarà dotata di un ventaglio non più ricco, ma più povero, di potenziale attivo. Ad esempio, un corpo di ballo o una squadra di calcio o l’equipaggio di una nave costituiscono un individuo dotato di una mente funzionale esclusivamente alle sue proprie determinate operazioni, che comincia a sussistere all’inizio e si disgrega alla fine di ognuna delle sue prestazioni specifiche; i singoli membri di ciascuno di questi insiemi hanno una vita loro estremamente più articolata e complessa: il singolo ballerino potrà essere figlio, fratello, turista, negro, comunista, omosessuale, pittore, membro di una associazione di amici di Spinoza, oltre che cittadino di uno stato, e ognuna di queste determinazioni lo renderà membro di un corpo composto meno multilaterale del suo, dotato dunque di una mente più circoscritta. Un’orchestra, per similitudine, esegue un pezzo con una sola mente, che è tanto più potente quanto meglio si adegua a un momento fra i tanti della mente ben più complessa del compositore. Insomma un gruppo sociale guidato veluti una mente – e qui torniamo alla politica, in pieno accordo con Moreau e Matheron - costituisce un individuo meno integrato e meno ricco di una singola persona umana, guidata dalla sua mente. La differenza è proprio in quel veluti che sempre, nel Trattato politico fa parte integrante dell’espressione: un “quasi”, una approssimazione: non una mente vera.

La regola generale di pensiero che qui ci deve guidare è proprio questa: non c’è individualità collettiva che possa avere la ricchezza di conoscenze, di intuizioni, di capacità di autocontrollo, di proiezione immaginativa e intellettuale, che può raggiungere un singolo individuo educato al ragionamento. Se le cose non stessero così, se le masse fossero comunque più intelligenti di un singolo individuo, non avrebbe senso lo stare qui a perdere tempo a parlare di Spinoza.

Nessuno spazio può essere dato, entro i percorsi spinoziani, all’eclisse dell’individualità dietro le identità collettive: le identità collettive anzi, anche quelle delle quali sembra avvertirsi con più urgenza la necessità, non possono che costituire individualità più povere della singola individualità umana. L’ideologia delle multitudes, che i giovani amici seguaci dell’insegnamento di Toni Negri caricano impropriamente, se i miei argomenti sono giusti, sulla filosofia di Spinoza, è motivata da uno sforzo di intelligenza del presente storico in chiave di conflittualità (lotte di liberazione, resistenza al nazi-fascismo, movimenti anticoloniali, contestazione globale contro l’ “Impero”) che dovrebbe sfociare in un nuovo “potere costituente”. In questa chiave il formarsi e il rafforzarsi di identità collettive è apparso per tutta la seconda metà del secolo scorso essenziale per la riscossa delle collettività oppresse. Ora l’interrogativo inquietante da porsi è questo: sono davvero le identità collettive forti - come quella dello stato di Israele sorto come baluardo per un popolo che era stato sull’orlo della distruzione totale, ma anche quelle delle varie coalizioni islamiche contro Israele e contro l’occidente - sono queste potenze di massa organizzate, le realtà del mondo attuale che possono promettere pace e concordia per l’avvenire dell’umanità, o non piuttosto l’ipotesi, la scommessa, su di un possibile prevalere delle esigenze degli individui reali su quelle dei sistemi simbolici del dominio? Se, riprendendo l’espressione di Spinoza, la virtù dell’imperium è la sicurezza, come dovranno concepirsi i rapporti interni all’imperium? La risposta in termini generali e spinoziani può darsi in questi termini: uno stato nel quale le ragioni dell’individuo prevalgano assicura le condizioni della pace e della concordia nella libertà; uno stato invece in cui le ragioni dell’identità collettiva prevalgano su quelle dell’individuo singolo assicura condizioni permanenti di guerra, perché le individualità collettive, in quanto individui dalla vita mentale più ridotta, non possono che rimanere per natura nemiche, come sono tra loro nemici gli uomini allo stato di natura.

In effetti, questa sorta di mistica della multitudo che vediamo ora dilagare tra molti interpreti di sinistra di Spinoza, ha il carattere come di un’ultima versione di quell’incessante e martellante mortificazione dell’individualità che ha attraversato il marxismo del XX secolo. Dico del XX secolo perché Marx, lui, nella pagina culminante del primo volume del Capitale, là dove delinea in termini dialettici la “negazione della negazione” dello sfruttamento capitalistico, formula la previsione morfologica dell’avvento, una volta superata la proprietà privata, della “proprietà individuale”, fondata sulla cooperazione e sulla proprietà comune dei mezzi di produzione (50). La fustigazione bigotta del cosiddetto “individualismo piccolo-borghese”, versione ipocrita dell’aggressione sistematica contro la libertà di pensiero, appartiene alla storia tragica dei socialismi realizzati nel XX secolo, arrivati infine allo sfascio; ma le radici illuministe e razionaliste di Marx, travolte e svisate dai marxismi “ortodossi”, contenevano e valorizzavano l’idea di individualità complessa della quale Spinoza prima, e poi Leibniz, hanno dato le linee teoriche forti (51). Un patrimonio dell’umanità tutto da recuperare.

 

 

5. Quando una quasi mente è duce.

 

Anche la Shoah è leggibile in maniera istruttiva, dal punto di vista di Spinoza: le radici ebraiche di questo pensatore, universale come nessuno in Europa, non possono essere misconosciute, ma vanno viste non sotto il segno di una appartenenza, che lo herem ha chiuso una volta per tutte; e neppure nel senso di una deprivazione, che Spinoza non ha mai manifestato (52). Le radici di cultura ebraica, nel caso di Spinoza, sono fra gli elementi propulsori che hanno dato luogo a un pensiero non abbarbicato alle radici, ma proiettato su quella universalità che ha la sua sorgente nella libertà individuale. Lo scenario della Shoah vede da un lato una moltitudine di militari inquadrati nell’esercito di uno stato potente, guidato veluti una mente da un condottiero in delirio di onnipotenza, che caricavano sugli autocarri e nei vagoni piombati gli ebrei destinati ai campi di sterminio; e dall’altra parte una massa multiforme di uomini, donne e bambini che subivano tutti assieme la disumana operazione, sia che provenissero da gruppi sociali coesi attorno a tradizioni culturali e religiose ultramillenarie, sia che fossero, invece, persone in diversi modi e relazioni integrate nel paese d’Europa in cui vivevano: questi non costituivano una identità collettiva se non attraverso la lente deformante degli aggressori, come membri di una razza semita puramente inventata dalla pseudo-scienza dell’antisemitismo. Non avevano una civitas anche se molti tra di loro vi aspiravano, né una potentia multitudinis che potesse dare luogo a un imperium. Erano soltanto sei milioni di individui. Individui veri.

 

 

Note.

 

(1) Undici in tutto, tra la forma sostantiva concordia e quella avverbiale concorditer.

(2) TP I, 6: “ animi enim libertas, seu fortitudo privata virtus est; at imperii virtus securitas”.

(3) E IV, 70.

(4) E IV, 70 sch.

(5) E IV35 ; TP II,14; III,13; VIII,12.

(6) Non solo nel citato scolio di E IV, 70, anche in quello di E IV35 contro i melancholici.

(7) TP VI, 3.

(8) Se ne veda la raccolta nel volume d’insieme: A. Negri, Spinoza, Roma, Derive Approdi 1998.

(9) Negri, cit., p. 48.

(10) Cf. A. Matheron, Individu et communauté dans la philosophie de Spinoza, Paris, Maspéro 1969.

(11) Cf. C.B. Macpherson, The Political Theory of Possessive Individualism: Hobbes to Locke (1962), nella trad. it. con introd. di A. Negri: Libertà e proprietà alle origini del pensieo borghese. L’individualismo possessivo da Hobbes a Locke, Milano, ISEDI 1982.

(12) TP II, 17.

(13) Ep. IX (G IV, pp.42-46).

(14) Ep. IX (G IV, pp.42-46).

(15) TP I, 3.

(16) E. Balibar, Spinoza. Il transindividuale, Milano, Edizioni Ghibli 2002, p. 22.

(17) TP II, 16.

(18) R. Caporali, La fabbrica dell’imperium. Saggio su Spinoza, Napoli, Liguori 2000, pp. 157-158.

(19) L. Bove, La stratégie du conatus. Affirmation et résistance chez Spinoza, Paris, Vrin 1996, p.242.

(20) TP III, 1: “imperii.. integrum corpus Civitas appellatur”.

(21) Bove, cit., p. 244.

(22) TP III, 2.

(23) Sull’esclusione delle donne e dei lavoratori dipendenti, dunque della maggioranza della popolazione, dai diritti civili nella democrazia spinozista, rimane fondamentale: A. Matheron, Femmes et serviteurs dans la démocratie spinoziste, in: Id., Anthropologie et politique au XVIIe siècle, Paris, Vrin 1986, pp. 189-208.

(24) TP III, 8: “imperii hostes...jure cohibere licet”.

(25) F. Del Lucchese, Democrazia, multitudo e terzo genere di conoscenza, in: F. Del Lucchese - V. Morfino (edd.), Sulla scienza intuitiva in Spinoza. Ontologia, politica, estetica, Milano, Edizioni Ghibli 2003, p.110.

(26) Del Lucchese, cit., p. 111.

(27) TP V, 6 e 7.

(28) TP VI, 3.

(29) E III, 2.

(30) Eccone il testo : DEFINITIO. Cum corpora aliquot ejusdem aut diversae magnitudinis a reliquis ita coërcentur, ut invicem incumbant, vel si eodem aut diversis celeritatis gradibus moventur, ut motus suos invicem certa quadam ratione communicent, illa corpora invicem unita dicemus, et omnia simul unum corpus, sive Individuum componere, quod a reliquis per hanc corporum unionem distinguitur.

(31) A. Matheron, “L’État, selon Spinoza, est-il un individu au sens de Spinoza?”, in: M.Czelinski, Th. Kisser, R. Schnepf, M. Senn, J. Stenzel Hrsg., Transformation der Metaphysik in die Moderne, Verlag Königshausen & Neumann GmbH, Würzburg 2003, pp. 127-145.

(32) TP III, 1.

(33) P.-F. Moreau, Spinoza. L’expérience et l’éternité, Paris, P.U.F.1994, pp.448-456.

(34) E II 13 sch.

(35) Moreau, cit., p. 450.

(36) Nel senso di E V, 39.

(37) Cf. TP II, 4: “ uniuscujusque individui naturale Jus eo usque se extendit, quo ejus potentia”; II, 7: “Quod...homo, ut reliqua individua, suum esse... conservare conetur”; II, 10: “totius naturae, cujus homo particula est, aeternum ordinem respiciunt, ex cujus sola necessitate omnia individua certo modo determinantur ad existendum, et operandum”.

(38) E IV App., cap. VII.

(39) TP VI, 4.

(40) TP V, 4.

(41) E IV App., cap. X.

(42) E IV App., cap. IX: “Nihil magis cum natura alicujus rei convenire potest, quam reliqua ejusdem speciei individua”.

(43) Ibid.

(44) Cf. Tractatus de intellectus emendatione (G II, p.8) : “ summum autem bonum est eo pervenire, ut ille cum aliis individuis, si fieri potest, tali natura fruatur ”.

(45) TP I, 6, cit..

(46) E III, 59 sch.

(47) TP V, 4.

(48) TP V, 5.

(49) Ho svolto questa interpretazione del terzo genere di conoscenza ne: La scienza intuitiva di Spinoza, Napoli, Morano 1987, cap. XIII: “L’oggetto della scienza intuitiva”, pp.171-191. Una stimolante discussione e arricchimento della prospettiva si può trovare in: M. Chamla, Spinoza e il concetto di tradizione ebraica, Milano, Franco Angeli 1996, pp.64-68. Un parziale dissenso che meriterà approfondimento è ora espresso da V. Morfino, La scienza delle “connexiones singulares”, in: F. Del Lucchese – V. Morfino, cit., p.190.

(50) K. Marx, Il capitale, libro I, sez. VII, cap. 24.

(51) Su questo rinvio a quanto ho scritto ne: L’individu chez Marx et Spinoza, in: G. M. Cazzaniga - Y. Ch. Zarka (edd.), l’Individu dans la pensée moderne XVIe-XVIIe siècles / L’individuo nel pensiero moderno Secoli XVI-XVII, Pisa, Edizioni ETS 1995, II, pp. 699-706.

(52) Uno Spinoza irrimediabilmente sofferente per l’esclusione dalla sinagoga è quello che emerge da: A. Bouganim, Le testament de Spinoza, Oaris, Editions du Nadir de l’Alliance Israélite universelle 2000. Per una comprensione filosofica della ricchezza del retaggio tradizionale entro l’universalismo spinoziano il riferimento migliore è nel citato Chamla, Spinoza e il concetto della tradizione ebraica. Preziosa poi, ora, la traduzione italiana di. L. Strauss, La critica della religione in Spinoza, Bari, Laterza 2003, a cura e con postfazione di R. Caporali.